Il primo uomo
di Damien Chazelle
con Claire Foy,, Pablo Schreiber, Jon Bernthal
USA, 2018
genere, bografico, drammatico
durata, 133'
Dopo il trionfo degli Oscar e il conseguente successo ricevuto dal regista e dagli interpreti di "La La Land", non c'è dubbio che in termini di gradimento "The First Man" fosse uno dei titoli più attesi dal pubblico della 75° Mostra del cinema di Venezia. Ciò non vuol dire che il nuovo film di Damien Chazelle non costituisse un banco di prova per il regista che questa volta era chiamato a confermarsi in un genere - il biopic - mai frequentato prima d'ora, facendo a meno dell'elemento musicale - è questa la grossa novità - sia come parte integrante della storia che in qualità di supporto tecnico e creativo. In più, ad alzare la posta in palio c'era la scommessa di riuscire a convincere quella parte degli addetti ai lavori per i quali i film del regista americano rappresentano il simbolo della corruzione che ha intaccato anche un festival come quello veneziano, un tempo abituato a opere di assoluto rigore è oggi - secondo i detrattori - piegato alla volontà dell'industria americana che proprio al lido ha trovato il trampolino di lancio per inaugurare la campagna dei lungometraggi destinati a intrigare i membri dell'Academy. Certo è che la biografia di Neil Armstrong, il primo uomo a sbarcare sulla Luna, era di quelle fatte apposta per alimentare le perplessità dei suoi "nemici", tanto è sempre stata piena di retorica filo americana la cinematografia (persino quella del grande Clint Eastwood con "Space Cowboy") che si è occupata della conquista dello spazio da parte della compagine statunitense.
Per questa ragione, sarà per molti sorprendente constatare cosa accade sullo schermo e per esempio osservare la particolarità dello sguardo con il quale Chazelle si rivolge alla materia del suo film. Costruito in maniera classica e, quindi, avendo come obiettivo quello di sviluppare la vicenda del protagonista senza perdere mai di vista la centralità che esso occupa all'interno della storia, il regista opta per una prospettiva che pur dando conto degli aspetti pubblici della vicenda - quelli che riguardano le implicazioni della missione rispetto alla contrapposizione con il nemico sovietico come pure dei risvolti con il fronte della politica interna, caratterizzati dalle proteste sessantottine - in realtà privilegia gli aspetti meno conosciuti della personalità di Armstrong, segnato nel profondo dalla scomparsa della figlioletta e quindi poco propensa a trovare nella celebrità mondana la giustificazione dei sacrifici che gli permettono di soddisfare (è questo il termine usato dall'interessato di fronte alle domande dei giornalisti che lo incalzano nel corso della conferenza stampa organizzata prima della partenza) i parametri necessari a ottenere il pass che gli consenta di guidare la spedizione. Ciò che ne viene fuori, dunque, è un resoconto più privato che pubblico in cui, anche quando si tratta di narrare i momenti più importati, per esempio quelli che si occupano di riferire i drammatici eventi che scandiscono le tappe di avvicinamento (nella quali persero la vita numerosi astronauti) e le sperimentazioni a cui si sottopongono i vari equipaggi delle varie missioni, a non venire mai meno è il contraltare che essi provocano nell'ambito famigliare e, soprattutto, dentro l'uomo che sta dietro al personaggio dei magazine e delle televisioni.
Prova ne sia la sequenza di ambientazione domestica inserita a metà del film in cui vediamo nella stessa immagine, equamente divisi, da una parte la moglie di Neil intenta a seguire le imprese del marito impegnato a testare razzi e navicelle nell'orbita terrestre, dall'altra il figlio che la interpella con domande che esulano ciò che sta accadendo al genitore. Ma ancora di più basterebbe focalizzarsi sul modo con cui Chazelle decide di mettere in scena il personaggio di Armstrong, tratteggiato attraverso le silenziose espressioni di un grande Ryan Gosling - abituato a lavorare di sottrazione laddove lo show business hollywoodiano imporrebbe di caricare la verve emotiva -, indispensabili a riportare a galla il groviglio interiore che agita la personalità dell'astronauta, con la fotografia di Linus Sandgren (già direttore di "La La Land") che rinuncia all'ottimismo dei colori sgargianti in favore di chiari scuri scelti per manifestare la tormentata anima del protagonista.
Se poi consideriamo che "The First Man" non rinuncia a rappresentare la morte per quello che è, dandone conto nei riflessi che essa ebbe nella vita del celebre astronauta, costellata dalla scomparsa di numerosi amici e colleghi periti sul campo, si può dire che "The First Man" realizza la celebrazione di un mito della storia americana che è anche un de profundis sul mito dell'eroe con le forme e i contenuti che furono del "Lincoln" di Steven Spielberg (non a caso executive producer del film). Alla pari del più celebre collega, Chazelle filma una sorta di seduta spiritica popolata di tragedie e di fantasmi in cui assieme alla straordinarietà degli accadimenti narrati, ad andare in scena è una profonda riflessione sulla caducità delle cose umane. Si prevedono parecchie nomination (Gosling su tutti) così come candidature ai premi della Mostra.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)
2 commenti:
Bell'articolo,che mi ha incuriosito ancora di più. Non che prima non lo fossi, sono molto fan di Chazelle, ma mi piace come hai analizzato il film, l'hai proprio sviscerato. E poi mi piace molto l'idea di cercare di creare un racconto personale, che omaggiare un eroe. Da l'idea di qualcosa di più reale.
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