Don’t Worry
di Gus Van Sant
con Joaquin Phoenix, Jonah Hill Rooney Mara, Jack Black
USA, 2018
genere, biografico
durata, 113'
Don’t Worry, diminutivo italiano dell’originale e più caustico (per il riferimento alla paraplegia del protagonista) He won’t get far on foot, ristabilisce due punti fondamentali del cinema del regista Gus Van Sant.
Il primo riguarda la titolarità della sceneggiatura, che il regista non firmava in un suo film dal 2007, anno d’uscita di Paranoid park. In questo caso Van Sant trae spunto dall’autobiografia di John Callahan, vignettista americano passato alla notorietà per il coraggio e la sferzante ironia con cui ha affrontato temi delicati come quelli del razzismo e della disabilità. L’altro è relativo alla condizione di marginalità socio esistenziale del protagonista e a quella del suo sodalizio, caratteristica comune alla maggior parte dell’umanità raccontata dall’autore americano nella sua filmografia. Callahan (Joaquin Phoenix), infatti, non è solo paraplegico a causa dell’incidente stradale che a soli vent’anni gli ha tolto l’uso delle gambe e, in parte, anche degli arti superiori, ma è affetto da problemi di alcolismo che ne minano il rapporto con la realtà e che, al culmine della disperazione, lo spingono a frequentare un centro di riabilitazione dove incontra Donnie (Jonah Hill, irriconoscibile e bravissimo), il guru disposto ad aiutarlo nel tentativo di superare i suoi fantasmi.
Da questo punto di vista non ci vuole molto per capire in che modo Don’t worry sia in linea con le storie e i temi affrontati da Van Sant nel corso della sua carriera. Al netto delle vicissitudini fisiche del protagonista e della scoperta del suo talento artistico il contesto umano ed esistenziale del film è quello di sempre, cioè la sorta di famiglia allargata formata da amici, amanti e padri putativi della quale i personaggi di Van Sant – da My own private Idaho a Will Hunting – Genio ribelle, allo stesso Milk – si sono contornati per compensare la mancanza di una biologica, anche in questo caso artefice del malessere di John; il cui senso di inadeguatezza e la tendenza autodistruttiva gli derivano dall’abbandono della madre che non ha mai conosciuto.
Alle prese con un genere, il biopic (già affrontato, appunto, con Milk), e con una disabilità, quella del protagonista, di per sé sufficienti per farne un’opera dallo sguardo stereotipato e lacrimevole, Don’t worry opta per una resa che alterna dramma e commedia e per uno stile semplice, fatto di campi e controcampi, con sequenze rese appena un po’ più ardite dalla sovrapposizione di differenti piani temporali. Smessi i panni dell’autore sperimentale, la classicità del Van Sant odierno va di pari passo con il desiderio di riappacificarsi con i propri demoni seguendo percorsi di riconciliazione più istituzionali che, alla pari di quello messo in campo nel precedente La foresta dei sogni, non disdegnano di ricorrere agli strumenti di una spiritualità autogestita ma comunque vicina ai precetti delle religione ufficiale. Accostando l’umano al divino, la trascendenza alla materialità, Don’worry, in maniera asciutta, equilibrata e senza alcun patetismo, privilegia gli aspetti esistenziali della vicenda su quelli collegati alla riabilitazione medica del protagonista e al riscatto sociale derivato dal successo dei suoi lavori.
E anche il tema dell’arte come mezzo di affrancamento e di rivalsa è più il modo usato dal regista per stemperare i drammi del quotidiano – esorcizzati dal sarcasmo della vignette originali realizzate da Cahallan e inserite da Van Sant nel corso della narrazione- che il pretesto per ragionare sulle origini dell’ispirazione creativa. Senza dimenticare la capacità del cineasta di tirare fuori dai propri attori interpretazioni che gli altri colleghi faticano a immaginare: è il caso dell’ex corpacciuto Jonah Hill, conosciuto da noi soprattutto come esagitato protagonista di commedie demenziali (Suxbad – Tre menti sopra il pelo) e qui, invece, artefice di una prova sensitiva e delicata. Un valore aggiunto alla straordinaria performance di Phoenix per il quale, ormai, non ci sono più aggettivi, tante sono le volte che si è distinto per efficacia e sensibilità. Pronosticarli tra i favoriti per i prossimi Oscar appare persino scontato, meno lo è meno invitare il lettore alla visione del film.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su mondo spettacolo.it)
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