martedì, settembre 30, 2014

PASOLINI

 Pasolini
di Abel Ferrara
con Willem Dafoe, Maria de Medeiros, Riccardo Scamarcio, Giada Colagrande
Belgio, Italia, Francia 2014
genere, biografico, drammatico
durata, 86'
 


Il cinema non è solo un'esperienza linguistica,
ma,proprio in quanto ricerca linguistica,
è un'esperienza filosofica.
(Pier    Paolo  Pasolini)



Come avere un asso nella manica ma riuscire comunque a perdere — e perdersi— in poche facili mosse lo ha mostrato Abel Ferrara con Pasolini, presentato al Festival di Toronto e alla settantunesima edizione della mostra d'arte cinematografica di Venezia, dove ha diviso pubblico e critica sulle note d'un grave fischio continuo e qualche audace applauso.
Il regista italo-americano non è certo alieno alle tinte fosche e ai sapori noir che fan da sfondo alla sagoma di Pier Paolo Pasolini e in particolar modo alla sua fine — vicenda attorno a cui si dispiega tutta la pellicola —, non a caso questi ebbe a dire la morte di una persona rispecchia la vita che ha avuto.

Nonostante la rottura del sodalizio artistico con St. John, qui sostituito da Maurizio Braucci — sceneggiatore peraltro anche del fortunato Anime Nere —, le carte per rendere onore all'ultimo spirito totale dei nostri tempi c'erano tutte. Se il viso scalfito di Dafoe è quasi indistinguibile da quello del personaggio che interpreta, la presenza nel cast di attori che conobbero e lavorarono con Pasolini non avrebbe dovuto che favorire una minuziosa ricostruzione di eventi e caratteri. Peccato che i personaggi ruotino attorno al protagonista privi di alcuno spessore psicologico o definizione tipologica.

Non solo Dafoe, sotto consiglio di Scorsese con cui stava allora girando L'ultima tentazione di Cristo, conobbe quel Pasolini che ora interpreta grazie a Il vangelo secondo Matteo ma Adriana Asti fu da lui diretta in Accattone, per non parlare poi di Ninetto Davoli che ebbe col poeta e regista una lunga relazione umana. Fu proprio Davoli ad effettuare il riconoscimento del corpo dell'amico, quella maledetta mattina del 2 Novembre 1975.
Incontri fortunati che rendono la pellicola un prodotto ibrido, di natura quasi metacinematografica, liberando il regista dal gravoso compito di dover spiegare chi era Pasolini: una regia — pare a tratti mettere alla berlina il suo stesso prodotto— che avrebbe potuto fare affidamento sui molti grazie a cui Pasolini vive ancora, favorendo così una riuscita meno asettica, fredda e distaccata.



Grande punto di forza è una narrazione laica, scevra da ideologie o versioni prestabilite con cui viene normalmente declinata la poetica pasoliniana. Il Pasolini di Ferrara, riccamente privo di qualsiasi facile tinta nostalgica per i "bei" tempi andati, non fa l'occhiolino ad un un nuovo capitolo giudiziario sulla succulenta vicenda della mattanza del protagonista, sicuramente attraente per quel pubblico italiano seguace di inchieste spesso ai limiti del grottesco.
L'opera vuole "semplicemente" meditare e invitare ad essere seguita, carattere questo che allontana Pasolini da una certa spiazzante sregolatezza che caratterizza la produzione di Ferrara, inaugurando forse una sua nuova e più matura era stilistica. Vero oggetto di riflessione è la tensione, entro cui la vicenda dello scrittore si agita, del rapporto vita-arte emblematizzato nella paradossale condizione di chi usa la seconda come pungolo rivoluzionario per raddrizzare la prima.
Un certo senso di fine imminente permea tutti gli 86 minuti della pellicola: da una soluzione coloristica per lo più fredda a musiche claustrofobiche, passando per ricorrenti scene di interni e  abitacoli tutti i sensi contribuiscono a creare nello spettatore un crescente disagio che resta però insoddisfatto e senza spiegazione.

Secondo il topos greco del doppio filo eros-thanatos, la morte si intreccia con l'amore — e con una sessualità gratuita— sullo sfondo di una ricostruzione onirico-immaginaria quasi ridicola che Abel Ferrara propone di quel progetto cinematografico mai compiuto che fu Porno-Teo-Kolossal.
Miracolosamente neppure l'improbabile freddezza di un'opera che è cinema tanto davanti quanto dietro la macchina da presa, riesce a non evidenziare quel portento umano culturale e politico —giacché la politica, come Pasolini-Dafoe ricorda all'inizio del film è tutto ciò che riguarda l'uomo, persino il sesso— che fu Pier Paolo Pasolini.
Brillante la battuta che Ferrara immagina essere parte di una sceneggiatura pasoliniana, e che racchiude buona parte delle speranze che Pasolini ha sempre regalato
" e adesso? La fine non esiste. Aspettiamo, aspettiamo, qualcosa succederà".

Erica Belluzzi


martedì, settembre 23, 2014

I DUE VOLTI DI GENNAIO


I due volti di gennaio
di Hossein Amini
con Viggo Mortensen, Oscar Isaac, Kirsten Dunst
Gran Bretagna, Usa, Francia, 2014
durata, 97' 

In "The Sheltering Sky", il romanzo di Paul Bowles portato sullo schermo da Bernardo Bertolucci con il titolo "Il the nel deserto" la storia di un uomo e una donna in fuga da se stessi e dal proprio paese diventava la metafora di una trasformazione radicale e definitva che interessava la realtà ma anche l'anima di quei personaggi. In quel caso il viaggio di Port e Kit, pur mantendendo intatte le caratteristiche di fascino ed esotismo derivate dal contatto con un mondo sconosciuto e lontano si definiva soprattutto attraverso la prevalenza della dimensione esistenziale dei protagonisti, chiamati a incarnare lo smarrimento di un'umanità che stava per lasciare il passo alla follia delle persecuzioni e della guerra. Un percorso narrativo che in parte segue anche Hossein Amini, quando, portando sullo schermo il romanzo di Patricia Highsmith "Le due facce di Gennaio", ci racconta la storia di una coppia di belli e dannati costretti a fare i conti con le ostilità di un destino che si presenta sotto le forme poliziesche dell’investigatore privato che ha scoperto le attività truffaldine di Chester MacFarland, costretto alla fuga per evitare di finire nelle mani della polizia. Ad accompagnarne il tentativo di depistaggio la moglie Colette, bella e disinvolta, e Raydall Keener, studente americano, ambiguo e spregiudicato che decide di aiutarli a scappare dalle grinfie dei loro inseguitori. 

Una similitudine, quella con il libro dello scrittore americano, che nel film di Amini si deve confrontare con la volontà del regista di trasformare i deragliamenti psicologici dei personaggi, e le loro sotterranee ossessioni, in un gioco di specchi che alimenta inganni e seduzioni. Così, se lo scenario principale è sicuramente criminale, "I due volti di gennaio" sulla scia di un film come "Il talento di Mr Rypley" - anch'esso derivato da un romanzo della Highsmith - mette in moto una dialettica in cui eros e thanatos si danno continuamente il cambio, spostando il film dal giallo al melò a secondo dei momenti. In questo modo il film di Hosseini, pur nei limiti di una sceneggiatura che non riesce a tenere testa ai cambi d'umore dei suoi personaggi, rimanendo il più delle volte sulla superficie delle loro personalità, riesce a mettere in campo una varietà di toni ed una serie di colpi di scena che riescono a tenere desta l'attenzione dello spettatore.


A salire in cattedra sono soprattutto gli attori maschili, Viggo Mortensen e Oscar Isaac (Inside Llewyn Davis) , a cui spetta il compito più difficile, e cioè quello di mettere in scena l'alternarsi di attrazione e repulsione che caratterizza il loro rapporto. Certamente siamo lontani dalle pulsioni omo erotiche di “Ripley”, ma ciò non toglie che anche qui come nel film di Minghella,  molto si debba alla particolarità del sodalizio maschile. Tenendo conto che la fine è meno nota di quello che si può prevedere, e che almeno un paio di cambi di direzione possono prendere in contropiede, arriviamo a dire che “I due volti di Gennaio” finisce per farsi perdonare la poca credibilità di alcuni snodi narrativi.

TARTARUGHE NINJA


Tartarughe Ninja
di Jonathan Liebesman
con Megan Fox, Alan Ritchson, Will Arnett, Whoopi Goldberg, William Fichtner, Noel Fisher
Usa, 2014
Genere, azione, fantasy, avventura
durata, 101' 


Che la versione americana del cinema mainstream stia attraversando un periodo di scarsa ispirazione è un fatto oramai conclamato. A dirlo basterebbe il tasso di riproducibilità dei suoi prodotti, sfruttati fino all'osso con una serialità da carta copiativa. Ultimo arrivato è, in questo senso, il nuovo film dedicato alle avventure delle Tartarughe Ninja, personaggi creati non meno di vent'anni orsono dalla coppia di cartoonist Eastman e Laird, e già titolari di una versione animata passata sul grande schermo nel 2007.

Questo per dire come il lungometraggio diretto da Jonathan Liebesman non solo non costituisca una novità nel panorama cinematografico dedicato alle testuggini guerriere ma che, presentandosi come reebot dell'originale, rispetti in pieno la tendenza di una tipologia cinematografica - il blockbuster - che ha saputo fare di necessità virtù, spostando l'importanza delle sue proposte dai contenuti alla forma, grazie ad un uso calibrato di una tecnica che oggi gli permette di essere competitivo grazie alla verosimiglianza di effetti super speciali.

 
Ecco che allora, con uno scostamento pari allo zero in termini di storia, la saga di Michelangelo, Donatello, Raffaello e Leonardo si dispiega con scioltezza attraverso una serie di conferme che, se da una parte fanno felici i cultori del fumetto, dall'altra soddisfano i canoni del genere, presentandoci una vicenda che mette insieme le origini del sodalizio supereroistico (ci sono di mezzo esperimenti da laboratorio e manie di onnipotenza) con la presenza di una nemesi che qui assume le fattezze di un nemico, che per assecondare le virtù combattentistiche dei "fantastici quattro", assomiglia a un Iron Man in salsa giapponese. 


Prodotto da Michael Bay che ci mette del suo con la presenza di Megan Fox (qui nella parte di una novella Lois Lane) pronta a rilanciarsi con un ruolo che in parte compensa la mancanza di fascino dei nostri supereroi, "Tartarughe Ninja" vorrebbe tradurre le peculiarità fisiognomiche del soggetto in un surplus di simpatia che però non è sostenuta dalla brillantezza dei dialoghi che la sceneggiatura mette in bocca agli attori. Nel corso dell'azione battute e smargiassate si sprecano ma se è vero che la volgarità è tenuta a bada con sufficiente efficacia, altrettanto non accade sotto il profilo della progressione narrativa che appare monocorde e piatta. Una carenza che non ha impedito a "Tartarughe Ninja" di diventare uno dei campioni d’incassi dell'estate americana.

sabato, settembre 20, 2014

ANIME NERE


di Antonio Romagnoli

Regia: Francesco Munzi
Cast: Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Anna Ferruzzo,
Fabrizio Ferracane, Barbora Bobulova
2014 - FRA/ITA - Drammatico - 103 min




Garibaldi, l’eroe dei due mondi, uno dei grandi uomini che rappresenta, per storia e iconografia, lo stato italiano, rimase ferito tra le montagne dell’Aspromonte. Luogo che non è scelto casualmente, dal momento in cui in un film come “Anime Nere”, che narra di come la “n’drangheta” provenga da quelle montagne – interessante anche la morfologia della parola composta aspro/monte-, si ripone l’intento di descrivere e circoscrivere sua maestà “l’anti-stato”.

Francesco Munzi, al suo terzo lungometraggio, tenta un’operazione estremamente complessa, adattando per il grande schermo il romanzo – omonimo al titolo del film – di Gioacchino Criaco. I protagonisti sono tre fratelli, figli di un pastore assassinato proprio tra quelle montagne.

Parlare di mafia, si sa, senza cadere in inutili luoghi comuni, è estremamente complesso; farlo esclusivamente per immagini, inutile dirlo, lo è ancor di più. Ed è qui che “Anime nere” stupisce, andando a rintracciare l’archè del fenomeno criminale tra quei monti, dove la violenza più atavica, immersa in un sistema quasi medievale (la religiosità vista come dogma attraverso le litanie delle donne, o quel tentativo di “matrimonio combinato” tra nipoti delle due famiglie), dà paradossalmente vita al “successo” dei traffici nazionali ed internazionali che la n’drangheta opera ed amplia giorno dopo giorno (basti pensare ai calabresi che portano, da Milano, una grossa quantità d’hashish in Calabria). Entra quindi in gioco l’elemento dell’ineluttabile – si trovano molti paralleli col recente “Out of the furnace”, che racconta dinamiche simili ambientate nell’entroterra statunitense -, che fa perdere ogni speranza ad un osservatore attento, tanto nei confronti della situazione in sé quanto nei confronti di tutta la retorica, inutile e stucchevole, che si continua a fare attorno al fenomeno. Di classe la scelta di lasciare lo stato impotente e fuori dai giochi, con i carabinieri spesso messi al lato delle inquadrature o sfocati sullo sfondo. La regia, sopraffina e mai pomposa o autoreferenziale, s’accompagna ad una fotografia perfetta ed alle musiche che ne restituiscono pienamente gli intenti. I dialoghi, minimalisti e secchi, ancor di più lasciano metabolizzare l’impossibilità d’agire nel bene – laddove il bene non è contemplato come opzione – attraverso una costruzione drammatica volutamente rallentata e pensata (andando contro questa strana moda della “velocità” che il cinema contemporaneo, inspiegabilmente, esige in ogni suo prodotto).

Violenza che genera violenza, morte che genera morte, e quella catena montuosa che sembra impermeabile alla vita. Luciano, unico personaggio che prova a uscirne, diventa al contempo emblema, vittima e carnefice dell’impossibilità dei suoi stessi intenti. Il risultato, inutile girarci attorno, sfiora il capolavoro.

Antonio Romagnoli

venerdì, settembre 19, 2014

JIMI - ALL IS BY MY SIDE


di Antonio Romagnoli

Regia: John Ridley
Cast: André Benjamin, Hayley Atwell, Imogen Poots, Burn Gorman
2013 - GB/IRE/GB - Biografico - 118 min




Che l’operazione biopic non sia mai facile non è un mistero; ad aumentare la difficoltà è la trasposizione sullo schermo di uno dei personaggi più iconografici e complessi della storia del rock, Jimi Hendrix. John Ridley si trova dunque in un’operazione complessa e difficile da rendere credibile, con i fantasmi del fallimento biografico di Oliver Stone ad essere inevitabilmente fardello e metro di giudizio; ovviamente parliamo di “The Doors”, uno dei biopic meno riusciti della storia del cinema, su uno dei più grandi della storia del rock.

Il primo tentativo fatto in “Jimi: all by my side”, tra l’altro riuscitissimo, è quello di circoscrivere la narrazione in un breve lasso di tempo, da quando Hendrix viene scoperto e portato in Inghilterra, fino al giorno prima della consacrazione avvenuta al festival di Montrey (un tentativo simile era stato fatto nel recente “Grace di Monaco”, in maniera però del tutto maldestra e sconsiderata). Il secondo, e forse più grande, punto di forza del film, parte in realtà come menomazione, non avendo la produzione i diritti per poter usare i brani originali del leader degli Experience (anche se in una scena, con un orecchio attento, si può distinguere l’andamento musicale di “Woodoo Chile”): l’immagine di grande artista ne esce dunque non solo intatta, ma anche in primo piano rispetto alle classiche ascese e discese da poeta maledetto, che tanto fanno gola quando si tratta di personaggi del genere (ricordavamo qui sopra quanto Stone ci fosse cascato in pieno). La fotografia e l’immensa bravura scenografica, tipicamente americana, restituiscono tutto un affresco storico che ha contribuito alla nascita del mito di Jimi Hendrix, e la chiusura con lui che suona la chitarra a dodici corde, in mezzo alla vuota immagine bianca, fa restare incollati alla poltrona per tutta la durata dei titoli di coda (che alla scomparsa si concederanno all’unico brano originale, “Wild Thing”). Infine l’interpretazione di tutto il cast è perfettamente inserita in tutto il contesto.

Come dicevamo, le aspettative per il genere biografico non sono mai alte, ripensando ai grandi flop del passato (forse uno dei più riusciti, in ambito musicale, era stato “Control”, il biopic su Ian Curtis). “Jimi: all by my side”, è destinato a diventare un film di culto per tutti gli appassionati del chitarrista che, con una sensibilità umana disarmante, ha cambiato per sempre la storia della musica: alla fine della visione restano solo applausi e brividi.

Antonio Romagnoli

mercoledì, settembre 17, 2014

OUT OF THE FURNACE - IL FUOCO DELLA VENDETTA


di Antonio Romagnoli

Regia: Scott Cooper
Cast: Christian Bale, Woody Harrelson, Casey Affleck,
Forest Whitaker, Willem Dafoe, Zoe Saldana, Sam Shepard
USA - Drammatico 116 min




Per quanto sia difficile da immaginare, esistono luoghi in cui neppure il sogno americano è riuscito a infiltrarsi. E’ il caso dell’ambientazione, scenografica e psicologica, che Scott Cooper crea sullo schermo con “Out of the furnace”, film che districa la propria narrazione all’interno di Braddock, paesino grigiastro dell’entroterra statunitense che ha come cuore pulsante un’acciaieria.

Russel Baze, protagonista della storia, tenta di uscire dalle dinamiche micro-criminali che caratterizzano il piccolo centro, e lo fa lavorando onestamente in fabbrica. Ma, si sa, fuggire “al di fuori della fornace” (traduzione inglese ridicolizzata dalla distribuzione italiana, che lo ha invece titolato “Il fuoco della vendetta”) è praticamente impossibile, laddove la fornace indica un destino, aspro ed atroce, al quale la contestualizzazione lega indissolubilmente i personaggi.

Accompagnato da una fotografia “coeniana” e da una regia lineare ma squisita, “Out of the furnace” rivede totalmente i codici del genere dei film d’azione contemporanei quando, proseguendo verso la risoluzione finale, invece di accelerare il montaggio e, quindi, creare una ritmica potente ma artificiosa, il protagonista – parallelamente al fruitore – metabolizza la rabbia ed il dolore, facendo accrescere in entrambi la presa di coscienza dell’impossibilità nel trovare una via di fuga. A tenere insieme le premesse ottime di cui si parlava prima c’è un cast sopra le righe, dove Christian Bale è strepitoso nel dare il più tonalità possibili ad un'interpretazione estremamente intima e complessa (probabilmente è il suo miglior ruolo in carriera), e dove l’ormai onnipresente Willem Defoe si ritaglia, al solito, il suo spicchio di genialità attoriale. “Release” dei Pearl Jam finisce di confezionare un prodotto due spanne sopra la media, accrescendo l’amarezza nel rifugiarsi, da parte del protagonista, nella memoria del padre.

Scott Cooper dipinge un quadro senza vincitori né vinti, restituendo poesia ad un non-luogo che l’ha perduta o che forse, la poesia, non l’ha mai conosciuta.

ANTONIO ROMAGNOLI

Film in sala da Giovedì 18 Settembre 2014


UN RAGAZZO D'ORO
di Pupi Avati
con Riccardo Scamarcio, Sharon Stone, Cristiana Capotondi
2014 ITA - Drammatico - 102 min

JIMI: ALL IS BY MY SIDE
All is by my side
di John Ridley
con André Benjamin, Imogen Poots, Hayley Atwell
2013 GB/IRE/USA - Biografico - 118 min

LA NOSTRA TERRA
di Giulio Manfredonia
con Stefano Accorsi, Sergio Rubini, Maria Rosaria Russo, Iaia Forte
2014 ITA - Drammatico - 100 min

ANIME NERE
di Francesco Munzi
con Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Anna Ferruzzo, Fabrizio Ferracane, Barbora Bobulova
2014 FRA/ITA - Drammatico - 103 min

LA PREDA PERFETTA
All is by my side
di Scott Frank
con Liam Neeson, Boyd Holbrook, Dan Stevens, Whitney Able
2014 USA - Thriller - 113 min

SE CHIUDO GLI OCCHI NON SONO PIU' QUI
di Vittorio Moroni
con Giorgio Colangeli, Giuseppe Fiorello, Mark Manaloto, Hazel Morillo
2013 ITA - Drammatico - 110 min

JIMI: ALL IS BY MY SIDE
All is by my side
di John Ridley
con André Benjamin, Imogen Poots, Hayley Atwell
2013 GB/IRE/USA - Biografico - 118 min

L'APE MAYA
Maya the Bee Movie
di Alexs Stadermann
2014 AUS - Animazione - 79 min

TARTARUGHE NINJA
Teenage Mutant Ninja Turtles
di Jonathan Liebesman
con Megan Fox, Alan Ritchson, Will Arnett, Whoopi Goldberg
2014 USA - Fantasy - 101 min

sabato, settembre 13, 2014

SI ALZA IL VENTO


"Kaze tachinu"
di: Miyazaki Hayao
Gia/Ger/Fra/Ita - Animazione
2013 - 120 min



Provare a vivere. Sembra essere per lo più questo - e a ricordarlo sta anche una delle tante suggestioni che sostiene il passo interiore dell'opera, diverse volte ripresa dai protagonisti, ossia il verso di Valery (da "Le cimitiere marin"), "Le vent se lève!... il faut tenter de vivre" - il monito/lascito accluso a margine del (sul serio autentico ?) epilogo dell'avventura artistica di una personalità dell'importanza di Miyazaki Hayao, da Tokyo, classe 1941. Nella parabola esistenziale di Horikoshi Jiro, narrata all'interno di questo (ultimo ?) film, "Si alza il vento" - sceneggiato e realizzato da Miyazaki a partire da un omonimo romanzo di Hori Tatsuo e in uscita limitata nelle sale dal 13 settembre e fino al 16 - intessuta a partire dagli anni '20 del secolo scorso, e' possibile leggere non solo il destino di un singolo individuo (e, in controluce, aspetti di quello del regista stesso) - Jiro, innamorato del volo, aspirante pilota tradito dalla miopia, risoluto abbastanza pero' da materializzare in parte la sua chimera personale votandosi alla progettazione e alla costruzione di aerei, fra cui i leggendari "Zero" - o quello di una Nazione - il Giappone Imperiale, sconfitto e umiliato al termine della Seconda Guerra Mondiale, nonché immolato sull'altare della nascente ossessione nucleare - quanto una lucida riflessione, che ha tutto il sapore aspro delle agnizioni severe ma istruttive, circa la condizione umana, in particolare su ciò che si e' disposti (o fatalmente ingiunti) a sacrificare per alimentare il desiderio legato ad una visione (la miopia che sfoca i contorni delle cose e' già metafora/grimaldello dell'irruzione del sogno nella realtà). Così come sull'impossibilita' di protrarre nel tempo la magia fisica ed emotiva di un ristretto numero di circostanze e d'istanti: sulla malia del rimpianto e della malinconia, a volte struggente - e a cui si deve imparare ad opporre il verbo del carattere affinché essa non viri in languore e paralisi - che scaturisce dalla consapevolezza per cui niente dura, unita all'accettazione, tutt'altro che indolore, che inscrive proprio nel mutamento continuo l'orizzonte che rende possibile, pur nella fragilità e nella contraddizione, la bellezza, il tormento, lo slancio, il rancore, et...

Come si vede, temi e ragionamenti, questi, tipici del percorso filosofico e figurativo dell'autore giapponese. Assunti simili che ritroviamo pure, da un lato, nell'apprendistato tecnico-scientifico del protagonista (sostenuto dal "patrocinio onirico" di un pioniere del volo come G.B.Caproni), espediente privilegiato utilizzato come mezzo per forzare l'ambizione entro le angustie della consuetudine "costringendola" a farsi campo di applicazione totale nella speranza/illusione che non presenti mai il conto (cosa che, puntualmente e implacabilmente, avverrà: il terremoto del '23 che devasto' Tokyo; l'approssimarsi di un'altra guerra mondiale; lo spezzarsi di netto di una passione sul nascere e, via via, il retaggio di solitudine e angustia conseguente a tutto ciò che non si e' riusciti a cogliere appieno o e' andato perduto); e, dall'altro, il breve interludio amoroso con (Satomi) Naoko - quintessenza delle eroine miyazakiane, tanto risolute quanto capaci di abnegazione - minato dalla tubercolosi di lei e dai rovelli dell'ingegno, che poco spazio lasciano ad altro, di lui. Senza dimenticare la vibrazione sotterranea che attraversa l'intero film relativa a quello sconcerto muto - non per questo meno radicale e contundente - che emerge con gradualità nel constatare come la ricerca, sempre difficile, a volte persino disperata, dell'armonia, della grazia, della perfezione, non di rado s'incarna e agisce per il tramite di sofisticatissime Tecniche - e quindi oggetti - di morte.

Di qui, la particolare atmosfera che permea la storia perennemente contrassegnata dal soffiare del vento del titolo (vento, d'altronde, presenza costante nei mondi di Miyazaki: nel caso, protagonista al pari delle figure in "in carne e ossa"): una sorta di frenesia crepuscolare la quale - nella prevalenza delle luci morbide, delle sfumature pastello, se non, addirittura, dei soli "tratteggi" sonori di Hisaishi - alterna lo studio e le applicazioni sperimentali di Jiro con le fasi della sua mutilata educazione sentimentale, nel tentativo - destinato al fallimento - di comporre le istanze della fantasia e della creazione con le prerogative del quotidiano e dei rapporti. Lavoro intriso di una non comune mestizia e di un esplicito disincanto; appoggiato a numerosi riferimenti autobiografici (l'infermità della madre di Hayao ai tempi della di lui infanzia; i contrasti interiori, forse mai del tutto risolti, inerenti un conflitto solo lambito in virtù di un contesto familiare in grado di garantirne la relativa confortevole distanza; la vocazione artistica che molto ha preteso - e ottenuto - dal Miyazaki uomo), come ad un ritmo ampio ma quasi provato dall'amarezza delle considerazioni che mano mano va maturando, "Si alza il vento", con grande fermezza, finisce per accogliere il peso dei suoi slanci compiuti o frustrati e dei suoi vicoli ciechi, senza esitazioni, riaffermando che "si deve provare a vivere", comunque, non foss'altro - come sottolinea Whitman - perché "tu sei qui, e la vita esiste".

TFK

domenica, settembre 07, 2014

I MERCENARI 3 - THE EXPENDABLES

I mercenari 3 - The Expendables
di Sylvester Stallone
con Sylvester Stallone, Mel Gibson, Jason Statham, Wesley Snipes, Antonio Banderas
Usa, 2014
genere, azione
durata, 126'


Che Sylvester Stallone sia un uomo generoso lo dimostra la galleria di personaggi che ha interpretato nel corso della sua carriera, tutti, in un modo o nell’altro pronti a sacrificarsi per un bene superiore. Ma questa volta l’attore americano ha davvero esagerato perchè alle prese con il terzo episodio della produzione cinematografica che lo ha riportato in vita dal punto di vista commerciale, stiamo parlando appunto di “The Expendables”, il nostro ha trovato il modo di andare oitre a qualsiasi previsione, non solo continuando a reclutare colleghi e amici che per anni gli hanno conteso il ruolo d star del cinema d’azione, e che qui si prestano a indossare la maschera dei buoni o dei cattivi per soddisfare le pretese di un cartellone che certamente può vantare numeri da record in termini di guest stars assoldate (questa volta oltre ai soliti noti si aggiungono tra gli alri Antonio Banderas, Wesley Snipes e udite udite Mel Gibson) ma anche prevedendo nel corso della vicenda il reclutamento di un nuovo gruppo di mercenari, giovani e aitanti, che, nella intenzioni di Barney Ross (Stallone), deve sostituire quello vetusto e logoro formato dai compagni di sempre. 
 

Avvisando lo spettatore che ad un certo punto della storia gli Expendables vecchi e nuovi entreranno contemporaneamente in azione, facendo a cazzotti dentro e fuori lo schermo per cercare di rimanere all’interno del campo filmico, questo terzo episodio consuma le sue novità in questo scontro generazionale, delegando ad alcune concidenze tra vita e arte (il personaggio di Snipes, che viene fatto evadere dalla galera in cui è detenuto e Mel Gibson ingaggiato per interpretare la parte del cattivo) il compito di far sorridere lo spettatore più smaliziato. Il resto è invece il solito sciorinamento di machismo e piroette d’artificio che neanche la simpatia degli attori riesce a risollevare da una routine piuttosto scontata.
(pubblicato su dreamingcinema.it)

TUTTA COLPA DELLE STELLE

Tutta colpa delle stelle
di Josh Bone
con Shailene Woodley, Ansel Elgort
Usa, 2014
genere, drammatico
durata, 125

Da "Love Story" in poi la malattia e' diventato uno dei modo più utilizzati da Hollywood per declinare scenari da amore perituro e universale. E' come se, defraudato dalle fatiche dell'ordinaria quotidianità, la potenza di quel sentimento ritrovasse attraverso la peggiore delle condizioni, quella che fa da premessa al sonno eterno, la forza che in parte gli è negata in condizioni di normalità. Un eccezionalità che ben si addice alle premesse di un operazione costruita su caratteristiche  che non lasciano spazio all'ordinario.

Hazel e Augustus sono infatti due adolescenti segnati da una malattia incurabile che si incontrano per caso e si innamorano nonostante l'inesorabilità dei rispettivi destini. Una fatalità che non scoraggia la coppia che, anzi, fa di tutto per dimenticare la propria condizione, esorcizzandola con esuberante vitalismo, e con un viaggio ad Amsterdam che però segnererà l'inizio della fine. Da quel momento infatti nulla sarà come prima, neanche il fazzoletto dello spettatore più sensibile, bagnato dalle lacrime che immancabilmente scaturiscono dall'approssimarsi della atto finale.

 


Se l'impatto emozionale e' congegnato in modo da lasciare uno spicciolo di speranza alle cose umane e al loro significato, con i personaggi, capaci di tirar fuori una morale positiva anche di fronte all'ingiustizia del loro percorso esistenziale, quello che davvero conta in questo film è l'interpretazione di Shanley Woodley, attrice di talento che qui conferma la definitiva promozione alla categoria maggiore.

FRANCES HA

Frances Ha
di Noah Baumbach
con Greta Gerwig, Adam Driver
Usa, 2012
genere, commedia
durata, 86'  

Se non fosse cinema potrebbe essere la striscia di un fumetto. Gli indizzi ci sono tutti, a cominciare dal bianco e nero stilizzato e demodè della fotografia, alla costruzione narrativa che procede secondo i capitoli di un libro immaginario, con indirizzo e numero civico che aggiornano lo spettatore sulle dislocazioni metropolitane della protagonista, alla dimensione, colloquiale e solipsistica che rasenta lo straniamento del consumatore di comics. "Frances Ha" è, nei fatti, un immersione totale nelle idiosincrasie  e nella stravaganze di un personaggio, la coreografa e aspirante ballerina Frances Ha, impegnato a trovare il proprio posto nel mondo, fronteggiando una serie di vicissitudini di ordine pratico e morale, che iniziano con la ricerca di un alloggio adeguato alle scarse possibilità finanziarie, e continuano nel tormentato rapporto con l'amica del cuore, da cui si sente tradita dopo la decisione di lei di andare a vivere con il proprio fidanzato. Ma il film è anche l'atto d'amore nei confronti di una città, New York, privilegiata nella visibilità di sequenze effettuate preferibilmente in campo lungo, e del suo stile di vita, rappresentato dalle usanze di una borghesia intellettuale  e radical chic che utilizza il verbo, e le sue derivazioni, come feticcio per esorcizzare il male di vivere.


Diretto da Noah Baumbach, sceneggiatore della storia insieme a Greta Gerwig protagonista del film in veste di attrice principale, "Frances Ha" ripropone in larga parte le caratteristiche di un cinema che si affida alla brillantezza dei dialoghi e alle psicologia delle sue caratterizzazioni, per analizzare tematiche riferite alla complessità di rapporti che, quasi sempre, entrano in conflitto con la crescita personale del protagonista. Da questo punto di vista la contaggiosa empatia della ragazza, pronta a lanciarsi in improvvisati balletti, e in continua peregrinazione per i quartieri della città, rappresenta uno scarto rispetto al resto della filmografia del regista. Fraces infatti, a differenza di altre figure disfunzionali create da Baumbach, agisce senza nessun filtro, trasformando le proprie nevrosi nel manifesto di una liberazione che le permette di far collimare aspirazioni e necessità di ordine pratico. Ma il film è anche l'omaggio a Greta Gerwig, e a un personaggio che, nell'affermazione di alterità rispetto a una vita sentimentale conforme alla norma ("infidanzabile" come Frances si definisce più volte), e nel velato femminismo lasciato intravedere dalla lealtà all'amica di sempre, si propone come la Annie Hall del nuovo millennio.
(icinemaniaci.blogspot.com)

venerdì, settembre 05, 2014

Il Signore degli Anelli - sottostesti e chiavi di lettura


di Antonio Romagnoli


In un intreccio sterminato di sottotesti e chiavi di lettura, è ovvio che un’opera come “The lord of the rings” presenti difficoltà notevoli nell’ essere decifrata, tanto quanto ne presenti nella fruizione dell’analisi stessa. In questa sede tenteremo di tracciare alcune delle interpretazioni estrapolabili dalla visione del colossal diretto da Peter Jackson.

IL LAVORO FILOLOGICO DA TOLKIEN A PETER JACKSON

Per prepararsi alla decodifica del film è impensabile non far riferimento al passaggio, faticoso e per nulla scontato, fatto dall’opera letteraria a quella cinematografica. In primo luogo, ovviamente, è fondamentale sottolineare la scrematura del romanzo fatta dagli sceneggiatori (pienamente riuscita col montaggio delle “extended version”, meno con le versioni uscite in sala) senza che, tuttavia, faccia perdere sullo schermo la densità simbolica dell’opera a cui si ispira. Altra nota importante è la decisione di dividere tutto in tre film, decisione presa – fortunatamente – dopo l’idea, un po’ campata per aria, di dividere l’originale trilogia in soltanto due lungometraggi. Bisogna altresì notare come il passaggio filologico, in tal caso, vada a combinarsi con un’operazione produttiva tanto rischiosa quanto riuscitissima, che vedeva alla regia tale Peter Jackson- che fino ad allora aveva diretto solo alcuni film splatter low budget (eccezion fatta per “Creature del cielo” ed il mocumentary “Forgotten silver”) -; oltre ad intraprendere la saggia scelta di girare e montare le tre parti contemporaneamente, Jackson dimostrò non solo di essere all’altezza del progetto ma, grazie alle innovazioni tecnologiche portate avanti dalla sua casa di produzione, che i tempi erano maturi per compiere un’operazione così complicata, non solo tecnicamente.

CRITICHE AL MONDO OCCIDENTALE ED AL MONDO ORIENTALE

Bisogna dire – come accennavamo in apertura – che “The lord of the rings” nasconde, dietro l’apparenza di magnificente saga fantasy, dei lucidissimi ragionamenti , in primis su quelli che potremmo definire “i due mondi”. Dapprima alle forze del male (nel caso specifico incarnate dalla figura di Saruman) vengono attribuite due “colpe”: l’invenzione della polvere da sparo (artificio proveniente dalla Cina) in occasione della preparazione, da parte di Isengard, alla battaglia al fosso di Helm; secondariamente, durante la battaglia in questione, l’utilizzo della polvere stessa (utilizzata per aprire una breccia nelle mura) tramite un attacco kamikaze, la cui figura nasce durante la seconda guerra mondiale tra gli aeronauti del “Sol levante”, per poi estendersi come pratica usuale tra i fondamentalisti islamici. Se la critica al mondo orientale è dunque ben evidente in questi due esempi, quella al mondo occidentale è più celata e al contempo più costante. Innanzitutto il parallelo uomo – potere, che è anche il principale movente pre -storico della narrazione (ci riferiamo ovviamente alla figura di Isildur, che non distrugge l’anello quando ne ha occasione). In Tolkien – e irrimediabilmente in Jackson – la figura dell’uomo saggio non può ammettere né può identificarsi nel potere, e ce ne dà prova tramite il “gran rifiuto” a cui è costretto Gandalf nel momento in cui Frodo vorrebbe affidargli “l’unico”. Altra sfumatura è innegabilmente rintracciabile nella critica ai totalitarismi occidentali: portiamo l’esempio di Gandalf che tuona a Saruman le seguenti parole: “Esiste un solo signore dell’anello. Solo uno può piegarlo alla sua volontà. Ed egli non divide il potere”. La medesima critica è riscontrabile nello stesso Saruman, che con focosità retorica spinge alcuni campagnoli a fare il suo gioco; puntando lo stregone sulla rabbia di quest’ultimi, notiamo come sia inevitabile fare un parallelo con le modalità d’azione e di propaganda dei primi fasci di combattimento (e, in un’eccezionale eccesso di bontà, facciamo finta che il paragone con i cosiddetti “grillini” sia forzato e fuori contesto). Ultimo attacco all’occidente – e, non a caso, all’Inghilterra in particolare – viene portato avanti in rifermento alle rivoluzioni industriali e, con lungimiranza al limite della chiaroveggenza, alla rivoluzione tecnocratica tutt’ora in piena evoluzione dinamica; ancora una volta è Saruman ad esserne portavoce: “ Il vecchio mondo brucerà tra le fiamme dell’industria. Le foreste cadranno. Un nuovo ordine sorgerà. Guideremo la macchina della guerra con la spada, la lancia e il pugno di ferro degli orchi. Dobbiamo solo rimuovere coloro che si oppongono a noi”. In pratica ci troviamo di fronte al grande paradosso del ‘900 – che ancora fatichiamo a scrollarci di dosso – dove l’uomo va avanti, inesorabilmente, senza se stesso.

PAGANESIMO E CRISTIANESIMO

L'indiscutibilmente preziosa conoscenza, da parte dello scrittore, del mondo celtico/pagano – su cui Tolkien ha inventato e costruito l’intero immaginario che gravita dentro ed attorno a “The lord of the rings” – nella costruzione filmica va a modellare l’intera messa in scena, contrastando – ancor più che nel romanzo – con l’intero sottotesto cristiano che l’autore aveva abilmente e fittamente intessuto all’interno della propria opera. Andando per ordine, gli esempi che avallano questa considerazione sono innumerevoli; il primo -escludendo la simbologia numerica degli anelli donati ad elfi, nani ed uomini – è il dialogo che avviene tra Gandalf e Frodo all’interno delle miniere di Moria:

“F: ..C’è qualcosa laggiù!

G: E’ Gollum.

F: Gollum?

G: Sono tre giorni che ci segue.

F: E’ fuggito dai sotterranei di Barad-dur?

G: Fuggito, o lasciato andare. Lui odia e ama l’anello, proprio come odia e ama se stesso, non si libererà mai del bisogno di averlo.

F: Che peccato che Bilbo non l’abbia ucciso quando poteva.

G: Peccato? È stata la pena che gli ha fermato la mano. Molti di quelli che vivono meritano la morte e molti di quelli che muoiono meritano la vita. Tu sei in grado di valutare Frodo? Non essere troppo ansioso di elargire morte e giudizi. Anche i più saggi non conoscono tutti gli esiti. Il mio cuore mi dice che Gollum ha ancora una parte da recitare nel bene o nel male, prima che la storia finisca. La pietà di Bilbo può decidere il destino di molti.

F: Vorrei che l’anello non fosse mai venuto da me. Vorrei che non fosse accaduto nulla.

G: Vale per tutti quelli che vivono in tempi come questi ma non spetta a loro decidere. Possiamo soltanto decidere cosa fare con il tempo che ci viene concesso. Ci sono altre forze che agiscono in questo mondo Frodo apparte la volontà del male. Bilbo era destinato a trovare l’anello. Nel qual caso anche tu eri destinato ad averlo, e questo è un pensiero Incoraggiante..”.
Va notato, in questo dialogo, come il sentimento di “pietas” cristiana vada ad integrarsi perfettamente col pensiero, in letteratura tipicamente manzoniano, della Provvidenza, che pervade dunque l’intera opera. Successivamente Gandalf incarnerà il sacrificio e quindi la resurrezione, tornando sotto le vesti di Gandalf il bianco. Altro scambio di battute, anch’esso d’ispirazione cristiana, avviene tra Gandalf e Pipino, durante la battaglia di Minas Tirith:

“PIPINO: Non credevo sarebbe finita così.

GANDALF: Finita? No, il viaggio non finisce qui. La morte é soltanto un’altra via. Dovremo prenderla tutti. La grande cortina di pioggia di questo mondo si apre e tutto si trasforma in vetro argentato. E poi lo vedi.

PIPINO: Cosa, Gandalf? Vedi cosa?

GANDALF: Bianche sponde, e al di là di queste, un verde paesaggio sotto una lesta aurora.

PIPINO: Beh, non é così male.

GANDALF: No. No, non lo è”.


Ovviamente in tal caso si allude all’al di là, ed alla vita terrena come fase di passaggio. Ma lo stampo cristiano dell’opera prende un risvolto interessante anche nelle forze del male che, in quanto dotate di parola e quindi di coscienza – ed il concetto è definitivamente esplicato nella scena della bocca di Sauron, inspiegabilmente presente soltanto nella versione estesa de “The return of the king” – sono intese non come male assoluto ed inestinguibile, ma male fondato su una scelta morale, proprio in quanto dotato della facoltà di parola. A rifinire, deliziosamente, l’interpretazione cristiana di “The lord of the ring”, c’è un certo citazionismo dantesco, a partire dalla struttura in tre film (come quella del romanzo), per poi arrivare ad Arwen, la donna (in realtà appartenente alla razza degli elfi) angelicata – nel film interpretata dalla splendida Liv Tyler – che rinuncia all’immortalità del corpo per avere la possibilità di amare, unica via, quindi, per l’immortalità dell’anima-.

Abbiamo visto come in “The lord of the rings” le interpretazioni siano molteplici e mutevoli, e come lo scontro tra bene e male si vada arzigogolando in analisi storiche, sociali e filosofiche, per terminare con una sintesi – d’ottimismo poetico leopardiano – in cui il bene, in maniera squisitamente platonica, si fonde e si confonde nella bellezza.

Antonio Romagnoli

lunedì, settembre 01, 2014

EL SICARIO-ROOM 164

 El Sicario Room 164
di Gianfranco Rosi
Italia, Francia, 2010
genere, documentario
 

 

Con un titolo da film dell'orrore il festival di Locarno rispolvera il Gianfranco Rosi meno famoso, quello che prima di Venezia si era fatto conoscere per film che andavano a cercare lo loro verità lontano dall'Italia. "El Sicario, Room 164" ci porta oltre oceano, e precisamente a Jerez, cittadina messicana a ridosso della frontiera americana dove avviene l'incontro con il sicario del titolo, organizzato da Rosi attraverso la mediazione del giornalista Christian Bowden, autore dell'articolo apparso su Harper's Bazar che ha ispirato il regista. Vestito di nero, e con un retina dello stesso colore a coprirgli la faccia, il protagonista del film si muove nella camera d'albergo evocando sinistri presagi. L'argomento d'altronde non è dei più invitanti, considerando che la conversazione con l'inquietante interlocutore entra nei dettagli di un lavoro tanto cruento quanto fuori dal comune. Ingaggiato dai cartelli del narcotraffico, l'uomo senza nome si presta al gioco interpretando la parte di chi è abituato a prendere di petto le situazioni. Per lo più seduto, al centro della stanza, e con in mano una biro utilizzata per fermare sul blocknotes i passaggi più importanti del suo discorso, il sicario non si lascia pregare; fornisce dettagli, illustra metodologie di lavoro, e soprattutto disegna organigrammi da cui a emergere è il patto di mutuo soccorso tra i mercanti della morte e i burocrati del potere, allineati in uno scambio di reciproche cortesie, finalizzate ad alimentare una ricchezza dai confini illimitati.

 

Apprendiamo quindi del reclutamento all'interno dell'accademia di polizia, dove, al termine di ogni corso, almeno cinquanta elementi entrano a far parte dell'organizzazione malavitosa con compiti diversificati e ritagliati sulle qualità dei singoli individui. Oppure dei rapimenti organizzati con la collaborazione delle forze dell'ordine, impegnate a rendere sicura l'area nella quale, successivamente, verrà compiuto il sequestro di persona, e anche il funzionamento di struttura verticista, assicurato dalla totale dedizione degli anelli più bassi della catena, disposti a tutto - per esempio a vivere in clandestinità, rinunciando per anni a qualsiasi contatto con i propri familiari- pur di soddisfare i desideri del Boss di turno. Ma la cosa più sorprendente accade quando il protagonista, forse spinto dal retaggio che individua nell'iperattivismo l'antidoto per i rimorsi di coscienza (ma sesso droga e alcool sono i palliativi più comuni per mettere a tacere i sensi di colpa), si alza in piedi, e inizia a mimare i gesti della violenza, quelli che, attraverso le sevizie di indicibili torture (praticate indistintamente a uomini e donne, e' bene dirlo) gli permettevano l'assolvimento del compito. Un esibizione di macabra efficacia, con la scena del delitto riportata in scena dalla seduta spiritica organizzata, fuori campo, dall'ineffabile regista.

 

In un film del genere il compito più difficile era quello di rimanere imparziali e di raccontare le nefandezze del protagonista senza permettere al giudizio di spezzare l'incantesimo di un'immediatezza che riempie lo schermo di energia e sensazioni. Rosi ci riesce, grazie a un dispositivo semplice ma studiato nei minimi particolari, che lavora dentro e fuori lo schermo. Nell'inquadratura, spogliando le immagini di qualsiasi appeal estetico, ma anzi, facendo emergere una dimensione di quotidiano - derivato dall'anonimato della camera d'albergo - che associata alla drammatica eccezionalità del racconto produce il conseguente straniamento. Fuori dallo schermo, e nei riguardi dello spettatore, organizzando il racconto orale come un vero e proprio soliloquio, con le domande del regista eliminate dal montaggio, e la voce del sicario a rappresentare l'unico elemento di "umanità" presente all'interno del film. Prodotto sui generis nella filmografia dell'autore, "El Sicario Room 164" è arrivato in dvd (e in tv) senza prima passare per il grande schermo. 
(pubblicato su ondacinema.it/speciale festival di Locarno)

ONE ON ONE

One on One
di Kim ki Duk
con Dong-seok Ma, Young-min Kim, Yi-Kyeong Lee, Dong-in Jo
Corea del Sud
anno, 2014
genere, drammatico
durata, 122'

Dopo la pausa coincisa con una lunga crisi creativa ed esistenziale, Kim ki Duk sembra tornato quello di sempre. Dalla  vittoria del leone d'oro (Pietà) infatti, il regista coreano ha ripreso a girare con i ritmi che gli sono piu congeniali,  realizzando  tre film in altrettanti anni.  Una vitalità che ha preso in contropiede i nostri distributori, capaci di reagire con un'uscita casuale e frettolosa, organizzata proprio a ridosso di quel festival che aveva rilanciato le ambizioni del regista. Certo “One On One”, come tutte le opere di questa nuova fase del cineasta coreano è, per i tempi che corrono, un film “impresentabile”, non tanto per la durezza dei suoi contenuti, ne per il fatto di presentarsi senza l’appeal di una star cinematografica.

Il peccato originale di Duk è quello di attenersi a un copione in cui il sangue e la violenza non sono esibiti ma solo necessari. Nel suo ultimo lavoro, a scatenare il caos è l’uccisione, senza apparente motivo, di una giovane ragazza. A contendersi la partita gli assassini della donna, agenti di un agenzia governativa, e il gruppo paramilitare che si assume il compito di restituire il maltolto, obbligando i criminali a confessare il delitto tra torture d’ogni genere.

Coerente con le caratteristiche di un cinema cha ha perso sensualità e afflato mistico in favore di una rappresentazione materialistica e metropolitana, Duk chiude ogni possibilità di fuga ai suoi personaggi, con riprese che sembrano imprigionarli dentro il campo filmico, e con immagini che, escludendo qualsiasi apertura ad alternative paesaggistiche che non siano quelle degli interni in cui si svolge la vicenda,  soffocano qualsiasi illusione di felicità . Di fronte a un’ esistenza aberrante (la morte della ragazza rimarrà senza un perchè) e a una società ingiusta, il pessimismo di Duk da vita a un teatro dell’assurdo dove gli uomini sono ridotti a fantasmi ( tutti i personaggi vivono sotto mentite spoglie) e in cui,  paradossalmente - per la peculiarità di “Moebius” che invece era praticamente muto- l’unica parvenza di umanità è lasciata alla parola, e al grido di sofferenza di cui essa si fa paladina. Tra percosse fisiche e verbali, il nichilismo di “One On One” ha un solo difetto: quello di farsi irretire dalla sua stessa negatività, con la brutalità attraverso cui si rapportano i personaggi  che finisce per saturare ogni altra possibilità di variazione narrativa . La drammaturgia del film ne risente. Ripetitività e manierismo sono dietro la porta.