martedì, settembre 27, 2022

VENEZIA 79: MASTER GARDENER

Master Gardener

di Paul Schrader

con Joel Edgerton, Sigourney Weaver, Quintessa Swindell

USA, 2022

genere: drammatico

durata: 111’

La presenza di Paul Schrader alla Mostra del Cinema in termini di risultati riscossi rimane per certi versi incomprensibile. E questo non perché il cineasta statunitense non abbia meritato di figurarvi, bensì il contrario, poiché rispetto alla bellezza dei suoi ultimi lungometraggi il responso delle giurie e di parte degli addetti ai lavori non è mai stato all’altezza del loro valore. Stessa sorte è toccata a "Master Gardener", piazzato fuori concorso in ragione (forse) del conflitto di interessi che si sarebbe generato con la consegna del Leone d’Oro alla carriera di cui il regista americano è stato giustamente insignito. Un premio, questo, che, va detto, legittima la lungimiranza del direttore Alberto Barbera nel rilanciare il cinema del regista quando nessuno era più disposto a farlo a causa delle sfortune produttive sofferte con "Il nemico invisibile" e "Cane mangia cane".

Fatto sta che dopo "First Reformed" e "Il collezionista di carte", "Master Gardener" conferma la ritrovata ispirazione dell’autore, sempre più impegnato a dare corso agli estri di una nuova giovinezza capace di arricchirne la filmografia. Ed è proprio al complesso delle sue opere che bisogna guardare per capire fino in fondo la portata del nuovo lavoro. Pur reggendosi in piedi da solo, "Master Gardener" è la risultante di un processo creativo che parte dalle medesime radici per rinnovare ogni volta la sua proposta poetica e formale. Basterebbe prenderne in considerazione la trama, ancora una volta incentrata su un uomo costretto a ritornare sui propri passi per difendere la persona amata a innescare coincidenze e similitudini. La presenza di un personaggio come Marvel Roth, maestro di giardinaggio recluso alla vita a causa di un passato da dimenticare e costretto suo malgrado a tornare in azione per proteggere l’allieva dalle grinfie degli spacciatori, non può non far pensare alla sceneggiatura di "Taxi Driver" (1976) di cui Schrader fu autore insieme al sodale Martin Scorsese. Ma non basta, perché andando avanti di qualche anno nella lettura della filmografia scopriremmo che il rapporto fra Marvel e Mrs. Haverhill, la proprietaria dei giardini di cui cui l’uomo è responsabile, trova in quello tra Willem Defoe e Susan Sarandon in "The Light Sleeper" ("Lo spacciatore", 1992) un precedente professionale e sentimentale replicato anche nel recente "The Card Counter", laddove ancora una volta la complicità tra William Tell e La Linda e il successivo innamoramento sono preceduti e in qualche modo mimati dalla relazione iper professionale tra impiegato e datore di lavoro.

Come tutti i personaggi creati dal regista americano anche Marvel Roth non è esente da colpe e dal rimorso che ne deriva. Come succedeva al prete di “First Reformed” e al giocatore di carte interpretato da Oscar Isaac, per non dire del già citato Defoe, la scelta di una vita di penitenza e reclusione - scandita da una feroce applicazione fatta di attività pratiche - trova nella tenuta di un diario personale la propria cifra etica, nel costante impegno a non smarrire la retta via. Da qui il senso della voce off, la cui presenza è stata in passato criticata senza capirne la necessità, svolgendo quest’ultima la funzione di una sorta di preghiera laica cui anche Marvel - in quanto “nuovo credente” - si appella per non tornare a sbagliare. Come pure, in ottica più prosaica, trova spiegazione l’ossessivo ricorso a inquadrature che dall’universale scendono al particolare rivolgendosi a dettagli di cose, oggetti e movimenti delle mani apparentemente superflui e che invece sono la spia del costante ricorso  a una liturgia di azioni ricorrenti (qui legate alle operazioni di semina e potatura, altrove alla legge dei numeri e del conteggio delle carte); uno zen salvifico, anch’esso onnipresente insieme a una pulizia visiva di matrice orientale che caratterizza gli ultimi lavori di Schrader.

Ma "Master Gardener" non è solo una riformulazione di antichi stilemi in chiave moderna, perché la circolarità di cui si parla è accompagnata da una sostanziale progressione narrativa e poetica, ancorché nel corso della storia l’iniziale amore tra Marvel e Mrs. Harvill viene sostituito da quello dell’uomo nei confronti della giovane allieva (interpretata dall’affasciante Quintessa Swindell), e dunque dalla ricomposizione di una tipologia di coppia, quella tra Travis e Iris in “Taxi driver”, cui oggi finalmente anche un rispettoso calvinista come Schrader può guardare senza avvisarne lo scandalo; quest’ultimo, tolto di mezzo dalla volontà (dichiarata) del protagonista di vivere come marito e moglie accanto all’abitazione della ex amante.

Che poi Paul Schrader sia anche un grande regista della messinscena lo si evince dal rigore della composizione in cui più che i movimenti di macchina, a comunicare lo stato d’animo dei personaggi è la fusione tra il controllo dell’immagine, essenziale e stilizzata, e la figura umana, capace di riscaldare il quadro anche solo con la sua entrata in campo. E che dire del connubio tra la musica elettronica e la voce fuori campo, con la prima utilizzata in chiave emotiva nell’intento di dare conto dei moti dell’anima del protagonista, come pure a far avanzare la narrazione. Così succede sempre nel cinema di Schrader, che senza essere sentimentale è capace di generare emozioni vere, di quelle che si fatica a ritrovare nel cinema contemporaneo.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

lunedì, settembre 19, 2022

VENEZIA 79: ATHENA

Athena

di Romain Gavras

con Dali Benssalah, Sami Slimane, Anthony Bajon

Francia, 2022

genere: drammatico

durata: 97’

Nato come cinema di denuncia quello ambientato nelle banlieue parigine, a partire da “L’odio” di Mathieu Kassovitz, opera seminale se ce n’è una, è diventato un vero e proprio filone, palestra d’esordio per giovani registi e verifica sul campo per quelli (il Jacques Audiard di “Dheepan - Una nuova vita”) che, per ragioni anagrafiche, non lo sono più. Dunque non stupisce il fatto di ritrovarlo in concorso a Venezia, data la capacità dello stesso di intercettare gli umori di una specifica area sociale e di farsene carico con una riconoscibilità capace di farsi capire a ogni latitudine geopolitica. In un’ottica esclusivamente cinematografica la presenza di “Athena” all’interno del concorso veneziano era chiamata a rinverdire l’importanza del genere in questione sulla scia del grande successo riscosso a Cannes da “I Miserabili”.

Un paragone non peregrino, quest’ultimo, poiché la scena d’apertura di “Athena”, diretto da Romain Gavras, sembra cominciare laddove finiva il film di Ladj Ly (coautore della sceneggiatura), ovvero sulla scalinata di un palazzo in cui dei poliziotti cercano invano di difendersi dalla rappresaglia delle nuove generazioni di diseredati. Alla sovrapposizione visiva con la sequenza finale de “I Miserabili” il lungometraggio di Gavras aggiunge quella narrativa perché anche qui a scatenare il caos è la violenza dello Stato: nello specifico il tragico omicidio di un bambino appartenente alla comunità locale da parte della polizia verso cui si rivolta la popolazione di Athena, quartiere dormitorio trasformato in fortezza da Karim, fratello della vittima, grazie al seguito di rivoltosi che ha risposto alla sua chiamata alle armi. Similitudini presenti anche nella particolarità di delineare un fronte interno alla rivolta tutt’altro che unito, con i tre fratelli della vittima animati da punti di vista opposti: il primogenito, spacciatore, interessato a salvaguardare i suoi affari; Abdel, militare di carriera, intenzionato a evitare il verificarsi di una tragica escalation.

Narrato nel rispetto dell’unità spazio-temporale (un must in questo tipo di film), ad “Athena” non si può negare il plauso di un inizio a dir poco folgorante, rappresentato dal magnifico piano-sequenza in cui, come fossimo all’interno di un videogioco, il regista ci catapulta in mezzo al caos che sta montando tra gli abitanti del quartiere. Fin dalle prime immagini la sensazione trasmessa è quella di una forza straripante e di una grandeur che di solito si ritrova per lo più nel cinema americano. Gavras non gli è da meno né in termini cinetici né di uso drammaturgico della pista sonora, chiamata a commentare ma anche a scandire in termini di ritmo le azioni dei personaggi. Un dispositivo, quello pensato dal regista, destinato a reggere fintanto che l’autore francese riesce a tenere sotto controllo la sua voglia di stupire. Peccato che la tendenza ad esagerare, evidenziata da una recitazione perennemente sopra le righe, in cui le esplosioni di rabbia e tragedia si ripetono senza soluzione di continuità, finisca per alimentare una voglia di superarsi capace di influenzare tanto l’impianto visivo, votato a un’ubiquità tecnologica, realizzata attraverso l’uso di droni ma anche della computer graphica, tanto la struttura narrativa, destinata ad allargare il discorso mettendovi dentro il più possibile (a un certo punto si accenna allo scoppio di una guerra civile in tutto il Paese).

Come nella storia di “Pierino e il lupo”, anche “Athena" con il passare dei minuti perde di verosimiglianza e quindi di credibilità diventando come certi blockbuster in cui tutto diventava esercizio di stile: ivi compresi i personaggi, sottomessi alla dittatura delle immagini e funzionali al clamore della messa in scena; come capita per il repentino cambio di rotta di Adbel, troppo meccanico e ingiustificato per non risultare programmatico.

Un vizio di forma ancora più evidente nell’immagine finale, del tutto superflua e anzi dannosa nel sovraccaricare il peso della visione con la denuncia di un complotto che arriva fuori tempo massimo anche nel rimettere in discussione tutto quello che abbiamo appena visto. Più che per un Festival di arte cinematografica “Athena” sembra realizzato pensando a un pubblico meno cinefilo e desideroso di essere intrattenuto da una storia che non ha bisogno di “traduzioni”. L’uscita su Netflix gli farà trovare un accoglienza più consona alla sua proposta.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

VENEZIA 79: BONES AND ALL

Bones and all

di Luca Guadagnino

con Timothée Chalamet, Taylor Russell, Mark Rylance

USA, UK, 2022

genere: drammatico, horror

durata: 130’

Si potrebbe dire che Luca Guadagnino ci abbia preso gusto. A dirlo è la scelta di continuare laddove aveva smesso, girando un film come "Bones and All" che ha più di un punto in comune con "Suspiria", a partire dal fatto di essere stato invitato in concorso alla Mostra del cinema di Venezia. Per parlare del suo nuovo film la cosa migliore sarebbe quella di rivelare il meno possibile riguardo alla storia, lasciando allo spettatore il piacere di essere preso in contropiede dalla sequenza che da il là alla vicenda trasformandola in quello che nessuno si aspetterebbe (almeno per coloro che non hanno letto l’omonimo libro di Camille DeAngelis, da cui è tratto il lungometraggio). Quello che a prima vista sembrerebbe un teen movie esistenziale si trasforma quasi subito in qualcos’altro. A Guadagnino serve poco per sviarci: qualche immagine di ambientazione scolastica, il dialogo fitto tra due compagne di banco e un immaginario adolescenziale sufficiente a costruire un mondo chiuso destinato a deflagrare con un impeto d’amore che lascia spazio al dolore. Condizioni antitetiche, quelle appena dette, che del nuovo film di Guadagnino diventano lo sfondo ineludibile in cui si compie il destino di Maren e Lee, ribelli senza causa disposti a lasciarsi indietro la marginalità delle loro vite nel tentativo di essere felici. Se quella di Guadagnino è innanzitutto la storia d’amore tra i personaggi interpretati da Taylor Russel e Timothée Chalamet, "Bones and All" è molte cose insieme perché il regista italiano non si limita ad argomentare i sentimenti secondo i gusti del neo-melò, ma amplia gli orizzonti aprendosi alla commistione dei generi nella maniera in cui lo fa molto cinema d’autore contemporaneo.

Qui il primo aspetto che salta all’occhio è la gestione degli opposti intesi sia in senso formale sia in senso drammaturgico, laddove lasciando spazio tanto alla componente horror che a quella sentimentale nella maniera inaugurata dalla saga di "Twilight" (anche se la messa in scena di Guadagnino punta a un realismo che il film di Catherine Hardwicke non ha) il regista trova il punto di equilibrio nel far combaciare l’istinto famelico dei giovani protagonisti - dovuto alla natura cannibale, metafora di altri disagi e dipendenze - con le pulsioni di una sessualità che ha paura a manifestarsi (l’unione fisica dei corpi di Lee e Maren se c’è rimane fuori campo) e che dunque trova nella liturgia omicida la sua compensazione. Allo stesso modo, pur non mancando di scene cruente (viene in mente quella che vede i nostri coinvolti in un corpo a corpo finale, con il personaggio interpretato da Mark Rylance), "Bones and All" ci consegna una versione di Guadagnino più misurata, pronto a lambire il limite del verosimile senza mai superarlo come invece succedeva in "Suspiria", con la considerazione che rispetto alla maggior parte degli horror giunti in sala "Bones and All" non si risolve nella compiaciuta esibizione del bagno di sangue, attraversato com’è da una tensione costante e da un senso di pericolo in grado di far trepidare lo spettatore per la sorte dei protagonisti.

Arrivato al suo settimo lungometraggio di finzione, Guadagnino filma uno dei suoi film più personali facendo delle inquietudini della provincia americana il terreno ideale per alcuni degli elementi cardini della sua poetica. A cominciare dal tema della diversità, qui come altre volte vissuta come occasione di unione e condivisione e senza dimenticare l’importanza del paesaggio. Anche in "Bones and All", infatti, i personaggi vi sono immersi trovando accoglienza e ristoro dalle proprie pene. Come dimostra la sequenza conclusiva, imperitura nel dichiarare la forza di un amore capace di andare oltre il contingente. Taylor Russell e il più acclamato dai fan, Timothée Chalamet, sono bravi a tratteggiare l’instabilità emotiva dei rispettivi personaggi, soprattuto quando si tratta di farne emergere le fragilità all’interno di un contesto che ne caratterizza la determinazione predatoria. Per chi scrive "Bones and All" si piazza tra i film in odore di Leone d’Oro.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

domenica, settembre 18, 2022

VENEZIA 79: IL SIGNORE DELLE FORMICHE

Il signore delle formiche

di Gianni Amelio

con Luigi Lo Cascio, Elio Germano, Sara Serraiocco

Italia, 2022

genere: drammatico

durata: 134’

Quarto film italiano in concorso a Venezia 79 Il signore delle formiche di Gianni Amelio è un procedural ben fatto sul reale caso di Aldo Braibanti. Lo scrittore, poeta, drammaturgo e mirmecologo (studioso delle formiche) fu accusato e condannato per l’allora reato di plagio psicologico nel 1968. A vestire i panni di Braibanti un Luigi Lo Cascio molto attento e preciso. Un buon film che mostra sullo schermo delle vicende realmente accadute. Accanto a queste la capacità, come sempre, di Amelio di aggiungere qualcosa di suo.

Nella Roma della fine degli anni Sessanta ha luogo un processo importante. L’accusato è Aldo Braibanti, poeta, scrittore, drammaturgo, filosofo e mirmecologo. L’accusa è quella di plagio psicologico ai danni del giovane Ettore che, quindi, sarebbe stato sottomesso alla volontà dell’artista sia in senso fisico che, appunto, psicologico. In realtà si tratta di un pretesto per coprire la vera accusa, quella di omosessualità.

Dopo un flashback che mostra il primo incontro tra i due il film si concentra sul processo e sull’impatto che esso ebbe sulla popolazione. Con un occhio particolare nei confronti di un giovane giornalista dell’Unità interpretato da Elio Germano che pare essere l’unico interessato a scoprire la vera realtà dei fatti.

Come affermato dallo stesso Amelio il suo film Il signore delle formiche ha indubbiamente al centro una tematica di estrema attualità. Una tematica che lui ha voluto porre al centro dell’attenzione. E che, pur fissandola nell’epoca in cui è avvenuta, vuole, in qualche modo, provare a raccontare la realtà odierna. Scavando a fondo, ma nemmeno troppo, nel film di Amelio sono tanti i riferimenti al contemporaneo che si possono trovare.

E la figura che maggiormente li incarna è senza dubbio quella del giornalista Marcello al quale presta il volto Elio Germano. Dai pensieri agli ideali al modo di relazionarsi con il mondo, tutto fa di lui un uomo contemporaneo.

Al giornalista, quindi, il compito di raccontare nel migliore dei modi i fatti. Ma come dice il direttore distaccandosi dai fatti oppure come vorrebbe fare Marcello andando a scavare nel fondo della questione per capire davvero come sono andate le cose?

Amelio è bravo nel riuscire a fingere, nella seconda parte, di mostrarci la storia dal punto di vista di Marcello. In realtà non è così perché riesce a rimanere quasi estraneo ai fatti, anche se spinge il pubblico ad andare in una certa direzione. Importante, a tal proposito, il faccia a faccia tra Aldo e Marcello nel quale quest’ultimo cerca di farlo riflettere. E, insieme a lui, anche tutti noi.

“Questo processo è assurdo perché non ci sono crimini”. Le parole di Ettore che si presenta al processo dopo essere stato internato a forza dalla famiglia in un ospedale psichiatrico nel quale è stato sottoposto a una serie di elettroshock per estirpare il male sono semplici, dirette, efficaci. Lo sono nell’ottica in cui tante persone iniziano a capire, a guardarsi intorno, a interrogarsi. Qual è la giustizia alla quale fare riferimento? Quella giustizia alla quale appellarsi?

Il Braibanti di Lo Cascio è una figura apparentemente rassegnata. È rassegnato alla vita, al processo, alla reclusione, anche all’inevitabile destino della madre che non vuole lasciare sola. Ma in realtà, in quanto artista, la sua è una rassegnazione di facciata. È e sarà comunque libero e quel suo silenzio ne è la più grande dimostrazione. Anche grazie a questo elemento il lavoro di Lo Cascio sembra diverso rispetto a quello degli altri. Più attento e preciso, forse in alcuni momenti fin troppo, il Braibanti da lui tratteggiato sembra perdersi (volutamente?) in sé stesso in vari frangenti.

A fargli da contraltare, da questo punto di vista, un Elio Germano che dà voce al popolo, ma che rimane molto più in secondo piano. Menzione poi per il giovane Ettore interpretato dal debuttante Leonardo Maltese, il cui volto nuovo si va a mescolare perfettamente con quelli più rodati dei colleghi appena citati.

Il film sarà distribuito da 01 Distribution.


Veronica Ranocchi

(recensione pubblicata su taxidrivers.it)

VENEZIA 79: L'IMMENSITA'

L’immensità

di Emanuele Crialese

con Penelope Cruz, Luana Giuliani, Vincenzo Amato

Italia, 2022

genere: drammatico

durata: 97’

Sospesa sopra la testa di Adriana, nella scena iniziale, la macchina da presa prende quota permettendo allo sguardo di Emanuele Crialese di allargare la porzione di spazio dove la protagonista passa il tempo a giocare e a desiderare un’altra vita. Poco dopo la scena iniziale succede più o meno la stessa cosa. A cambiare è il punto di vista, questa volta ad altezza uomo, ma il movimento è sempre lo stesso, con l’obiettivo che allontanandosi dal centro del televisore in cui Raffaella Carrà si scatena in un contagioso balletto, espande il suo occhio sull’interno famigliare in cui madre e figli si stanno godendo lo spettacolo. Per Crialese “L’immensità” è innanzitutto un problema di spazi e di luoghi alternativi. A differenza della madre (Clara, interpretata da una Penélope Cruz che parla un italiano con forte accento spagnolo), costretta all’interno di un matrimonio già finito, incapace com’è di andare oltre le fantasie nelle quali ogni volta immagina di fare il verso alle star della canzone, Adriana le prova tutte pur di affrancarsi dal disagio della propria esistenza. Imprigionata in un corpo che non sente suo, la ragazzina si ribella per davvero vestendosi da uomo, facendosi chiamare con un nome maschile (Andrea) e quando possibile, allontanandosi da casa per varcare la frontiera del proibito oltre cui si estende il nugolo di baracche dove ad aspettarla ci sarà il primo amore.

Che si tratti di paesaggio fisico o psicologico, i personaggi del regista di “Nuovomondo” confermano la loro natura di viaggiatori, ribelli ai limiti imposti dalle regole degli uomini e per questo alla ricerca di universi alternativi. Non è un caso che la prima immagine del cinema di Crialese (“Once We Were Strangers", 1997) sia un a sorta di epifania - sospesa tra sogno e realtà, tra fisico e metafisico - in cui vediamo Vincenzo Amato, attore prediletto del regista romano per aver partecipato a quattro dei cinque film girati, approdare sulle rive del fiume Hudson dopo periglioso viaggio, in una scena rivelatrice della natura migrante del protagonista, condizione che per il cinema di Crialese rappresenta una sorta di “eterno ritorno” nietzschiano. 

Ne “L’immensità” questa dimensione è sviluppata in un confronto allo specchio tra madre e figlia, con la prima che lascia in eredità alla seconda il compito di affrancarsi da ciò che a lei non è stato permesso. La mascolinità di Adriana vuol dire anche questo: impedire che nella (sua) vita ci sia un altro uomo pronto a dirle che cosa deve fare, bloccandole la strada verso la sua realizzazione. A confermare il passaggio di consegne tra Clara e Adriana è l’ultima di una serie di sequenze surreali in cui nel corso del film le ritroviamo a ballare e cantare sul palco le hit musicali degli anni 70 al posto dei veri interpreti (Patty Bravo, Adriano Celentano, Raffaella Carrà). Nella sequenza conclusiva, infatti, Andrea in versione crooner intrattiene la platea essendo unico padrone della scena; pronta a “ballare da sola” dopo aver fatto da spalla alla madre.

Ma “L’immensità” va guardato anche in termini di corrispondenza tra realtà e finzione, nella vicinanza tra la biografia dei personaggi con l’esperienza umana del regista. Da questo punto di vista il nuovo lavoro di Crialese si presenta simile a quello che ha rappresentato “E’ stata la mano di Dio” per Paolo Sorrentino. A testimoniarlo è stata - per entrambi - la necessità di prendersi più tempo possibile prima di essere pronti a parlare al pubblico di un aspetto così intimo e delicato della loro vita. Nel caso di Crialese questo ha voluto dire smettere di girare per circa undici anni, tanti sono stati quelli che separano “L’immensità” da “Terraferma”. Come il film di Sorrentino, anche “L’immensità” permette all’appassionato di rileggere a posteriori la filmografia dell’autore romano, di entrare con maggior consapevolezza e più a fondo nella sua ispirazione creativa: si pensi per esempio alla corrispondenza tra Clara e la Grazia di “Respiro”, femmine folli, frutto di un processo artistico proveniente dalla stessa matrice esistenziale. Alla commistione tra sogno e realtà chiamata a segnalare la lotta tra l’essere o il non essere dei personaggi, e ancora, al concetto di viaggio che nella filmografia di Crialese non riduce il suo significato ad un’unica accezione ma che è sempre il risultato di una necessità materiale e insieme spirituale. 

Come già successo ad altri registi quando si tratta di mettere in scena il film della vita, anche Crialese arriva all’appuntamento più importante con un pudore eccessivo. Così, quella che era stata la forza degli altri film, ovvero la capacità delle immagini di far vivere il desiderio dei personaggi attraverso la trasfigurazione poetica del reale qui non si fa sentire, essendo le sequenze musicali incapaci di rendere l’agognato altrove. Senza quella profondità, e con le psicologie dei personaggi debitrici di un maggiore sviluppo, “L’immensità” di Crialese si risolve sulla superficie delle immagini, belle ma inerti dal punto di vista emotivo.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it) 

VENEZIA 79: UN COUPLE

Un couple

di Frederick Wiseman

con Nathalie Boutefeu

Francia, USA, 2022

genere: drammatico

durata: 64’

A discapito di quanto si può pensare vedendo questo titolo, l’ultima fatica del documentarista Frederick Wiseman, ultranovantenne, è quello che si può definire un vero e proprio monologo.

Nathalie Boutefeu è la sola e unica interprete del film, in concorso a Venezia 79, che ha collaborato anche alla stesura della sceneggiatura.

“Un couple” è un film su una lunga relazione tra un uomo e una donna. L’uomo è Leo Tolstoj. La donna è sua moglie, Sofia.

L’intero film si svolge come fosse un dialogo, ma è in realtà una comunicazione “a senso unico” perché Sofia parla praticamente da sola. Le parole che utilizza sono naturalmente rivolte all’altra parte della coppia, solo accennata dalla sceneggiatura, ma mai visibile in scena, ma è come se fossero indirizzate allo spettatore e a uno spettatore “universale”, colui che dovrebbe essere veicolo del messaggio in questione.

La scelta di realizzare un film “statico” è legata al fatto che si riferisce a un colosso della letteratura che, così facendo, non viene snaturato, ma anzi evidenziato. La potenza delle parole deve essere ed è superiore alle immagini. Per questo Sofia si sposta, ma solo dopo aver parlato. E noi non vediamo mai il compiersi di questo spostamento. La ritroviamo immediatamente dopo in un altro luogo, sempre “bucolico”, sempre naturale, quasi come a cercare rifugio nel mondo esterno, l’unico in grado di accoglierla, senza accusarla. Un luogo dove lei si sente protetta, mentre, contemporaneamente, “inveisce” contro il compagno.

Un film decisamente particolare, forse quello più particolare in concorso a Venezia 79.

La mano di Wiseman si nota, forse anche troppo. Da sempre abituato a muoversi nei confini del documentario, qui prova a fare qualcosa di nuovo e di diverso, pensando e sperando di applicare la sua conoscenza e la sua esperienza anche al cinema “di finzione”. In realtà il risultato è un prodotto a metà strada tra i due che, a parte qualche appassionato del regista e dell’autore e i presenti al festival, non troverà terreno fertile. Sicuramente rimarrà uno dei film che caratterizzano e hanno caratterizzato la filmografia del regista ultranovantenne, ma nulla più.

La scelta drastica delle riprese e del montaggio non favorisce la fruizione di un’opera che avrebbe potuto rendere più “vicino” un grande, ma “pesante” autore della letteratura.

La fedeltà al proprio stile vince sull’apprezzamento generale dell’opera. Peccato.


Veronica Ranocchi

sabato, settembre 17, 2022

VENEZIA 79: L'ORIGINE DU MAL

L’origine du mal

di Sébastien Marnier

con Laure Calamy, Suzanne Clément, Doria Tillier

Francia, Canada, 2022

genere: drammatico, thriller

durata: 125’

Una delle piccole sorprese di questa Venezia 79 è sicuramente “L’origine du mal”. Il film è francese ed è stato presentato nella categoria Orizzonti Extra allo scorso festival del cinema. Laure Calamy è la protagonista indiscussa di un film a metà strada tra il drammatico e il thriller dove tutto rimane un mistero per gran parte del tempo.

Lo spettatore entra nella storia dal punto di vista della protagonista (Stéphane) e pensa di sapere tutto. O almeno che le cose stiano come la donna afferma. Tramite lei conosce una ricca famiglia con un’imponente villa sul mare. I membri della famiglia sono un padre che lei non ha mai conosciuto perché risposato con un’altra donna, la stessa con la quale vive al momento e condivide gli sfarzi della villa. Con loro anche due sorelle. Qui Stéphane si trova a vivere, convivere e avere a che fare con tutte le dinamiche che una famiglia, appena conosciuta, porta con sé. Con l’andare avanti della narrazione scopriamo, però, altre cose sulla sua vita come, per esempio, la sua relazione sentimentale. Ma è davvero tutto come sembra? O ci sono segreti più grandi che si nascondono tra le trame della vicenda?

Un thriller riuscito quello francese che, al posto della suspense e dell’adrenalina delle quali sono carichi i titoli appartenenti al genere, gioca sul disvelamento dei personaggi e delle loro dinamiche. Un gioco di segreti e sotterfugi che mostrano le macchinazioni dei personaggi (e di uno in particolare). E l’abilità del regista Sébastien Marnier sta proprio in questo, nel giocare con lo spettatore, “abituato” a vedere e conoscere, o almeno a pensare di conoscere, una storia che in realtà è completamente stravolta. Se vogliamo, seppur labile, si può trovare un collegamento con un film come “Il silenzio degli innocenti”, nel quale è vero che vediamo la storia dal punto di vista della giovane agente che deve investigare sul serial killer cannibale, ma al tempo stesso siamo portati a fare il tifo anche per il cattivo che ci viene dipinto non come il crudele e spietato assassino (che in realtà è), ma, grazie ad alcuni dialoghi e a un gioco di scrittura (il vero genio in questo caso è l’autore dell’omonima opera letteraria), riusciamo a scovare dell’umanità in lui.

Allo stesso modo anche “L’origine du mal” gioca su questo fattore. Stéphane è buona o cattiva? Sta allo spettatore deciderlo e decidere di “schierarsi”.

A fare da cornice al gioco di sotterfugi ci sono poi dei personaggi di contorno ben caratterizzati, forse in alcuni contesti un po’ stereotipati, ma comunque in grado di evolversi e suscitare il giusto interesse nel pubblico.

Un film e un titolo che fanno riflettere. Sia naturalmente sulla vera origine del male, sia sul male in generale. Se il susseguirsi delle vicende e la fine effettiva del film fanno pensare a una certa “origine del male”, la domanda che lo spettatore deve in realtà porsi è: cosa è male? E perché e in che modo nasce? Solo da qui si può partire per capire le dinamiche e le azioni di questo film e non solo.


Veronica Ranocchi

giovedì, settembre 15, 2022

VENEZIA 79: PADRE PIO

Padre Pio

di Abel Ferrara

con Shia Labouf, Asia Argento, Brando Pacitto

Italia, Germania, 2022

genere: drammatico, biografico

durata: 104’

Abel Ferrara presenta a Venezia un film per il quale l’aggettivo “particolare” sembra calzare a pennello. Questo perché il titolo “Padre Pio” farebbe pensare a un film sulla figura del santo di Pietralcina e invece la storia decide di virare verso qualcos’altro lasciando il protagonista relegato a semplice figura di contorno di un contesto sociale e politico in grado di demolire e distruggere qualsiasi cosa.

Il Padre Pio interpretato da Shia Lebouf (che pare essersi anche convertito dopo aver preso parte al progetto) è una figura marginale nell’Italia della prima parte del ‘900. I veri protagonisti sembrano essere i popolani e non che si scontrano per problemi legati, appunto, alla politica, all’economia e simili. Proteste, contrasti e ribellioni sono all’ordine del giorno, mentre prova a delinearsi la figura di un santo che sembra essere molto meno santo di quello che si può pensare. 

Una figura che risulta, per certi versi, “incerta” e che non riesce mai a diventare il fulcro della narrazione, a discapito di quel titolo fuorviante che farebbe pensare all’ennesima rappresentazione simile alle precedenti già realizzate.

Invece Ferrara punta più sul contorno e sul modo in cui la figura è mostrata. A lui interessano i dissensi socio-economici e politici dell’epoca che aiutano lo spettatore a capire determinate scelte, anche della figura protagonista, o presunta tale.

Per esempio, la scelta di optare per forti chiaro scuri è sintomatica non solo delle vicende che fanno da sfondo, ma anche di quella che risulta quasi una figura ambigua. Inizialmente celato nell’ombra, lo spettatore inizia a vedere Padre Pio a piccoli passi. Prima deduce che ci sia, poi lo intravede e solo dopo riesce a vederlo davvero.

Sembra quasi che la storia di Padre Pio, ben interpretato da Shia Lebouf, con grida, lamenti e preoccupazioni, sia un inserto all’interno del film stesso. Sembra quasi che la sua storia sia inserita, come una parentesi, all’interno di quella dell’Italia dell’epoca e che riesca a emergere solamente nei piccoli momenti di pausa.

Non si può definire un film non riuscito, ma sicuramente si tratta di un’opera che sconvolge lo spettatore che si aspetta e aspetterebbe tutt’altro. La vita di Padre Pio non esiste, non viene né accennata né tratteggiata. Quel poco che si vede lo si comprende grazie a una conoscenza pregressa della figura perché Ferrara, da questo punto di vista, non mostra e non aggiunge altro.

Altro aspetto, poi, che colpisce e frastorna il pubblico è la scelta di utilizzare l’inglese come lingua del film. Una decisione che porta a uno straniamento e che può aiutare a concentrarsi di più sulla figura del santo, ma non arricchisce la storia che, anzi, non viene presa nemmeno troppo sul serio e ha come risultato quello che si potrebbe definire un “falso storico”.

Un film da vedere non nella “speranza” di conoscere la vita del santo e scoprire qualcosa che i film precedenti incentrati su di lui non avevano ancora raccontato, ma un film da vedere con una certa consapevolezza: quella che Padre Pio è soltanto la cornice di qualcosa di altro.


Veronica Ranocchi

martedì, settembre 13, 2022

VENEZIA 79: BARDO, FALSA CRONICA DE UNAS CUANTAS VERDADES

Bardo, falsa cronica de unas cuantas verdades

di Alejandro G. Inarritu

con Daniel Giménez Cacho, Griselda Siciliani, Ximena Lamadrid

Messico, 2022

genere: drammatico

durata: 174’

È tempo anche per Bardo: falsa cronica de unas cuantas verdades di Alejandro G Inarritu di sbarcare al Lido di Venezia per l’edizione 79 della mostra del cinema.

Con i suoi 174 minuti il film, dal 16 dicembre su Netflix, del regista messicano mette in scena tante tematiche, tante situazioni e tanti scenari. Forse troppi.

Silverio Gama è un documentarista messicano, ex conduttore televisivo, che vive la sua vita insieme alla moglie e ai tre figli. Invitato in uno show per presentare la sua ultima opera e anticipare il fatto che verrà insignito con il più prestigioso premio assegnato ai giornalisti, l’uomo ammutolisce e non risponde alle domande del conduttore.

Da quel momento (in realtà anche prima) cominciano a susseguirsi strane situazioni che mescolano continuamente finzione e realtà.

Aveva già, in qualche modo, provato a raccontarci la sua particolare visione del mondo Inarritu, ancora prima di Bardo: falsa cronica de unas cuantas verdades. E lo aveva fatto con Birdman. Allo stesso modo aveva provato a raccontare la vita messicana dal suo punto di vista, per esempio, con Amores Perros.

Qui prova a fare un mix tra i due (e non solo) e creare un universo ancora nuovo, ancora alternativo. Ma mettendo fin troppa carna al fuoco.

Il sogno e la realtà diventano un insieme unico, dove uno va a intersecarsi e a interferire con l’altro, sia visivamente che consequenzialmente. I personaggi, in particolare il protagonista, ma anche lo spettatore sono costretti ad aggrapparsi a dei punti di riferimento per non cadere nella trappola della finzione. Aiutato da un valido comparto tecnico, Inarritu con il suo Bardo spazia in continuazione tra un luogo e un altro, tra un tempo e un altro.

Dal contrasto tra vita e morte, al rapporto familiare e generazionale, passando per la visione del mondo e del cinema. Sono solo alcuni dei temi affrontati dal film in questione. Silverio non è solo un documentarista, ma è, in certi frangenti, alter ego del regista stesso. Quando parla delle sue opere e soprattutto del suo approccio a esse. Ma anche del modo in cui vengono recepite e comprese dal pubblico. In tutti questi momenti è Inarritu a parlare. Si mostra al suo pubblico attraverso un film nel film. Un film nel quale è molto facile smarrirsi.

Un cerchio che si chiude. Sembra dirci questo Inarritu con Bardo: falsa cronica de unas cuantas verdades. La vita di Silverio è la vita di ognuno di noi. Perché è tutto realtà e finzione. Tutto si mescola, in un modo o in un altro. Bisogna solo bilanciare i vari elementi.

Un po’ come in questo film: bisogna solo trovare il giusto equilibrio.


Veronica Ranocchi

(recensione pubblicata su taxidrivers.it)

lunedì, settembre 12, 2022

VENEZIA 79: TÀR

Tàr

di Todd Field

con Cate Blanchett, Nina Hoss, Noémie Merlant

USA, Germania, 2022

genere: biografico, drammatico

durata: 158’

La riuscita di un film dipende dall’insieme delle singole componenti. Spesso trascurata, una di queste è la capacità di saper cogliere e poi restituire l’ambiente in cui si muovono i personaggi. Se alcuni di questi risultano indimenticabili non è soltanto per la bravura di regista e attori, oppure per la verosimiglianza della ricostruzione scenica, ma anche per il potere d’attrazione di un mondo, quello in cui agiscono i protagonisti, capace di vincere la passività dello spettatore invogliandolo a scoprire l’universo del film. “Master & Commander - Sfida ai confini del mare” non sarebbe stato la stessa saga marinaresca se Peter Weir non avesse accettato la sfida di raccontare la vita di bordo permettendo alla macchina da presa di saturare ogni angolo delle sue favolose fregate. Un film come “The Company” avrebbe fatto fatica a figurare nella filmografia di un campione come Robert Altman senza la precisione con cui descrive il mondo della danza.

La risultante di quanto detto è tanto più affascinante quanto minore è la conoscenza nel pubblico dello spazio che si va a descrivere. Come accade per l’appunto durante la visione di “Tàr”, il nuovo film di Todd Field, con Cate Blanchett nel ruolo della protagonista, in cui la (finta) biografia della celebre direttrice d’orchestra che presta il titolo al film diventa occasione per esplorare dal di dentro le dinamiche interne di un mondo come quello della musica classica, di cui in realtà si conosce solo il “prodotto” finale. In effetti tutto in “Tàr” procede come il progressivo disvelamento di un mistero (del personaggio, dell’ambiente e del rapporto tra le due parti) che in quanto tale resiste a qualsiasi tentativo di conoscenza. Esemplare in tal senso l’apertura del film e ciò che segue, in cui il talento di Lydia Tàr viene vivisezionato senza che questo ci renda comprensibile la protagonista: dapprima ne apprezziamo la sensibilità musicale attraverso la voce sussurrante le note che accompagnano lo scorrere interminabile dei titoli di testa. Poi la figura sfuggente, visibile per un attimo attraverso il cellulare di chi ne sta spiando il sonno; infine la personalità istrionica, desunta dalla padronanza con cui la donna risponde al conduttore del talk show che ne celebra il primato artistico, in una delle sequenze più belle e inaspettate del film, quella in cui la Blanchett articola le parole con un ritmo e un timbro vocale capaci di trasformare il confronto in una lunga sessione musicale.

Se il montaggio secco e veloce elimina qualsiasi raccordo spazio-temporale tra le sequenze in argomento, confermando l’impossibilità (iniziale) di raccontare la protagonista oltre l’impressione che di lei ci danno le prime immagini, è tutta la prima parte di “Tàr” ad essere straniante per la dicotomia esistente fra la straripante esposizione della protagonista, la cui dominanza è riflessa nella razionalità architettonica degli interni così come nell’uso di una luce asettica e priva di contrasti, e la reticenza con cui il film si occupa del privato della donna. In effetti Field dapprima costruisce il monumento della sua protagonista poi, nella seconda parte, procede  a mostrarne il rovescio della medaglia (segnalato dalla comparsa di elementi fotografici e architettonici di segno opposto a quelli di partenza), arrivando a operare sul personaggio una vera e propria damnatio memoriae, allorché le doti di una predisposizione naturale fuori dalla norma non riescono più a difenderla dall’avanzare dello scandalo.

Tra questi due antipodi “Tàr” racconta il potere e le sue conseguenze ma anche i risvolti dell’ossessione artistica. Field lascia intravedere meglio di altri film il tortuoso percorso del genio creativo coinvolgendo lo spettatore in un dramma shakespeariano che non fa sconti a nessuno, capace com’è di affrontare il tema dell’omosessualità, e più in generale le questione di genere legate alla sessualità della protagonista, tenendosi lontano dalle sicurezze del politicamente corretto. Senza dimenticare che “Tàr” non è solo l’ennesima consacrazione di una Blanchett in versione Marlene Dietrich (la storia si svolge per lo più a Berlino), giacca da uomo, calzoni neri e sguardo assassino. “Tar” è infatti un film di attrici che non le sono da meno per la presenza in ruoli importanti di Nina Hoss (la compagna di Lydia) e di Noémie Merlant (“Ritratto della giovane in fiamme”, “Parigi, 13 Arr.”) in quello della sua assistente. Alla Mostra, “Tàr” potrebbe vincere il premio per la migliore attrice e per quello visto fin qui anche qualcosa in più.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su Ondacinema.it)

domenica, settembre 11, 2022

VENEZIA 79: LIVING

Living

di Oliver Hermanus

con Bill Nighy, Aimee Lou Wood

UK, 2022

genere: drammatico

durata: 102’

Vivere la vita o pensare di viverla? È questo che si domanda Living, il film fuori concorso a Venezia 79 diretto da Oliver Hermanus. Una riflessione su cosa fare per sfruttare al meglio ogni istante della propria esistenza.

Il signor Williams è un uomo qualunque, dedito al lavoro e alla monotonia della propria quotidianità. Questo finché una notizia non gli sconvolge l’esistenza e non lo mette di fronte a una visione della vita completamente diversa e inaspettata. Come inaspettato diventa il suo comportamento e atteggiamento anche nei confronti di chi lo circonda.

Ognuno di noi lascia inevitabilmente ogni giorno una traccia lungo il cammino della propria esistenza e di quella di chi gli sta intorno. E Living di Oliver Hermanus vuole proprio dimostrare questo. Il signor Williams è in realtà tutti noi. Vive la sua vita e la sua classica routine dando tutto (troppo) per scontato, senza preoccuparsi degli altri e nemmeno di sé. Tanto c’è tempo, si può aspettare non è solo il motto che utilizza quando vuole sbarazzarsi in maniera garbata di pratiche apparentemente irrealizzabili. Diventa anche il suo mantra, convinto di avere sempre tempo e di avere un lungo futuro davanti a sé.

Ma è davvero così?

Quello che conosciamo è un uomo intransigente che non si piega, né a lavoro né a casa. Vedovo e quindi abituato alla vita solitaria, nonostante la presenza del figlio e della nuora, il signor Williams si ripiega in un silenzio assordante. Un silenzio che agli occhi degli altri appare come uno scudo, oltre il quale non si può mai andare. Sono pochi i personaggi che nel corso della vicenda riescono a scalfire la rigida corazza del protagonista. Una è la giovane interpretata da Aimee Lou Wood (volto noto della serie Netflix Sex Education). La sua energia e voglia di vivere sono in netta contrapposizione con i modi di fare dell’anziano signor Williams. E, infatti, è proprio lui a sottolineare di essersi infatuato dell’atteggiamento della giovane.

Oliver Hermanus punta il dito su una delle dicotomie più trattate: quella di vita e morte. Non solo rappresentate visivamente dai due personaggi, ma lasciati trapelare anche dalle parole dei vari protagonisti. Protagonisti che, con l’andare avanti della storia, evolvono e cambiano opinioni e atteggiamenti, anche nei confronti della vita stessa.

Il tutto condito dalla giusta dose di british humour.


Veronica Ranocchi

(pubblicata su taxidrivers.it)

sabato, settembre 10, 2022

VENEZIA 79: PRINCESS

Princess

di Roberto De Paolis

con Gloria Kevin, Lino Musella, Sandra Osagie

Italia, 2022

genere: drammatico

durata: 110’

Film d’apertura della sezione Orizzonti, “Princess” è la storia di una ragazza di nome, appunto, Princess.

Il film, diretto da Roberto De Paolis, racconta di questa giovane che è una clandestina nigeriana, costretta a vendere il proprio corpo e a cercare di sopravvivere “conquistando” ogni giorno nuove (e vecchie) “prede” in un bosco che dalla strada si estende fino al mare. Bosco che diventa a tutti gli effetti il suo rifugio, nel quale si sente davvero sé stessa, libera da qualsiasi regola e vincolo. Qui anche il pubblico, insieme e grazie a lei, conosce alcuni dei suoi clienti, tra quelli abituali e quelli saltuari. Tra questi ce n’è uno che vuole provare ad aiutarla e farla uscire dal “giro” nel quale è inserita. Ma sarà tutt’altro che facile perché Princess ha la sua visione del mondo e le sue idee. Prima di tutto deve riflettere su sé stessa e cercare di capire se vuole davvero afferrare la mano tesa da questa figura o no. La domanda che il pubblico si pone è: Princess vuole davvero essere salvata?

Una sorta di favola moderna che vuole rompere i classici schemi e cliché mettendo al centro una figura diversa dal solito. Una figura che, a discapito del nome, è tutt’altro che una principessa e soprattutto non è una di quelle che vuole essere salvata.

Il rapporto che ha con quelli che si possono definire “clienti” è sempre lo stesso così come è la stessa la modalità di approccio. Al centro della vita e delle “relazioni” che coinvolgono Princess c’è sempre il denaro. Non è disposta nemmeno ad ascoltare se non ha la certezza che ci sia un ritorno economico e, a tal proposito, diventa emblematico un dialogo che ha proprio con il suo presunto salvatore al quale si rivolge dicendo che il suo tempo è sprecato se non ha come fine ultimo quello del guadagno.

Una favola dolce amara sul senso della vita e sulle relazioni umane che va guardata al di là dell’“occupazione” della giovane protagonista.

A dare ancora più forza alla potente storia il fatto che la protagonista abbia realmente vissuto questa situazione. La sua energia e la sua storia, seppur giovanissima, hanno dato un forte contributo al film oltre che aiutare lei stessa a entrare in un difficile ruolo che, invece, la ragazza padroneggia come un’attrice navigata.

L’elemento interessante di tutta la vicenda è poi il fatto che il regista “si limiti” a raccontare e mostrare la storia senza giudizio e senza essere dalla parte di qualcuno piuttosto che di qualcun altro. De Paolis mostra il modo in cui sono costrette a vivere alcune ragazze, ma non punta il dito contro o a favore. Ed è importante per mostrare una realtà vera e reale che, però, può essere vissuta in maniera diversa da qualcuno, magari portando a un lieto fine. Come nella migliore tradizione delle favole, moderne e non solo.


Veronica Ranocchi

venerdì, settembre 09, 2022

VENEZIA 79: WHITE NOISE

White Noise

di Noah Baumbach

con Adam Driver, Greta Gerwig, Don Cheadle

USA, UK 2022

genere: commedia

durata: 136'

Nella scena iniziale di "White Noise", ovvero nel prologo che introduce la narrazione vera e propria, un docente (in realtà professore di icone viventi, così scrive Don DeLillo nel libro da cui il film è tratto) spiega agli studenti che la natura del cinema americano è intrisa di progresso e civiltà anche laddove, per esempio nelle ricorrenti e spettacolari riprese di collisioni e incidenti stradali, sembrerebbe esprimere il contrario. Basta questo a Noah Baumbach per far capire allo spettatore più scaltro quale sia la chiave scelta per affrontare l’impresa di portare sullo schermo DeLillo, uno di quei romanzieri all’apparenza intraducibili al di fuori del suo territorio d’elezione.

Se David Cronenberg era riuscito a impossessarsi di “Cosmopolis”, approcciandolo in maniera frontale, sovrapponendo il suo occhio a quello dello scrittore, Baumbach affronta il testo scritto con un punto di vista decentrato e personale, mettendo in scena un’opera multistrato in cui sono le  forme del cinema e in particolare quello di genere a (re)interpretare temi e ossessioni del romanziere americano.

A legittimare l’ipotesi è la sequenza che fa svoltare il film, quella chiamata a innescare l’avventura: parliamo del sinistro ferroviario da cui scaturisce la minaccia della nube tossica che mette a rischio il (piccolo) mondo del protagonista e quello della sua eccentrica e quanto mai “allargata” famiglia. Se, come si vede, il contesto è quello tipico del disaster movie - mentre in altre parti il racconto assumerà di volta in volta la fisionomia della commedia, dell’action, dell’horror e persino del musical - a spiccare qui è la similitudine del soggetto in questione con gli esempi proposti dal cattedratico (interpretato dal redivivo Don Cheadle) nel segmento introduttivo. Nella versione di Baumbach, “White Noise" muove infatti dalla volontà di dimostrare l’assunto iniziale andando a ritrovare nelle disavventure di Jack Gladney (Adam Driver) e della sua numerosa progenie i prodromi di un cinema che non rinuncia a dare una versione della realtà se non ottimista, almeno meritoria di essere vissuta. Con quello che ne consegue in termini di capacità di risorgere dalle proprie ceneri come più volte capita ai protagonisti del film.

Da una parte c’è DeLillo a ragionare sulla paura della morte e sul modo in cui l’economia di consumo ci viene incontro per farcela ignorare/dimenticare: in termini di significato il balletto finale all’interno del supermercato fa suo il messaggio della scena conclusiva di "Eyes Wide Shut", non a caso ambientato all’interno dello stesso contesto in cui comprare cose è la medicina necessaria per evitare di guardare in faccia agli abissi personali.  Dall’altra parte c'è il regista di “Storia di un matrimonio”, consapevole che l’unica possibilità di rievocare i fantasmi della pandemia senza perdere il supporto e i capitali di un colosso come Netflix (e quindi la possibilità di ben figurare tra i possibili candidati ai prossimi premi Oscar, cui di certo punta la “casa madre”) è quella di stemperare il dramma con una vena comica e grottesca, trovando il positivo anche nelle situazioni peggiori. Baumbach ci riesce grazie a un rapporto con la disfunzionalità dei suoi personaggi, da sempre empatico e partecipato: implacabile nel coglierne difetti e contraddizioni ma anche pronto a prenderne le parti nelle vicende più complesse. Come succede con Adam Driver, nel ruolo del professore di studi hitleriani chiamato a interpretare una versione moderna dell’Idiota dostoevskijano, il cui successo lavorativo è esemplare di quanto si diceva a proposito del rimedio pratico per  esorcizzare la paura del diavolo, essendo per Jack il corso di studi sul gerarca nazista non solo una fonte di prestigio e di potere anche economico derivante dall’esclusività del suo copyright, ma anche il modo per rievocare il Führer avendone in qualche modo il controllo.

Baumbach è bravo a prendere il singolo concetto (per esempio quello della felicità indotta dal possesso di beni di consumo) e a tradurlo in immagini. Basti pensare al contrasto tra le scene dedicate alla vita prosaica, quelle ambientate all’interno del supermercato e nella cucina di casa, in cui montaggio serrato, luce espansa e movimenti della macchina da presa concorrono al vitalismo di cui si diceva, con il buio e la stasi delle inquadrature impiegati là dove la riflessione predomina sull’azione. Egli è meno bravo quando si tratta di rendere omogenea una struttura che non riesce mai ad essere organica, dominata com’è da un postmoderno - il continuo accavallarsi dei generi - che trasmette alla narrazione un'andatura episodica e uno schematismo tipico dei film a tesi. Siamo di fronte a una sintesi del pensiero di DeLillo che fa simpatia ma non riesce a entusiasmare.


Carlo Cerofolini

(Recensione pubblicata su Ondacinema.it)