lunedì, novembre 29, 2021

È STATA LA MANO DI DIO

È stata la mano di Dio

di Paolo Sorrentino

con Filippo Scotti, Toni Servillo, Teresa Saponangelo

Italia, 2021

genere: drammatico

durata: 130’

Un Sorrentino all’ennesima potenza, degno di tutti i riconoscimenti possibili quello di “È stata la mano di Dio”.

Il film, presentato in anteprima al Festival di Venezia, è adesso nelle sale, in attesa di sbarcare su Netflix dal 15 dicembre.

Etichettato con svariati appellativi dall’anteprima mondiale a oggi, il film di Sorrentino è forse il suo migliore da intendersi come autentico. Con “È stata la mano di Dio” Sorrentino si racconta, si mette a nudo e si interroga, interrogando anche chi sta guardando.

Il film mostra l’adolescenza del regista premio Oscar, concentrandosi non tanto sulla sua vita, quanto su tutto ciò che lo circonda e soprattutto chi, dai parenti agli amici. Ed ecco che conosciamo zia Patrizia, personaggio quasi surreale che, in un certo senso, farà da filo conduttore in tutta la narrazione. Ma anche l’amico Armando, lo “zio” Alfredo e, ovviamente i genitori e il fratello (anche la sorella, nonostante si rifugi costantemente in bagno). Tutti hanno a che fare, più o meno direttamente, con Fabio “Fabietto” Schisa, protagonista indiscusso, sotto tutti i punti di vista. Fabietto è l’alter ego di Sorrentino, anche se ciò non viene mai detto esplicitamente, anche se ci sono variazioni e “licenze poetiche”. Dall’evidente somiglianza fisica alle vicissitudini che lo colpiscono, dall’ambiente nel quale cresce all’idolo indiscusso, tutto richiama Paolo Sorrentino, come lui più volte ha spiegato e ripetuto.

A mettere d’accordo l’allegria e la voglia di scherzare del padre di Fabietto e la dolcezza della madre, ma anche la vicinanza del fratello e tutte le dinamiche della famiglia sempre più grande c’è l’idolo che tutta la Napoli (e non solo) degli anni ’80 sogna: Diego Armando Maradona. Il suo arrivo al Napoli fa da sfondo alla storia raccontata da Sorrentino. È sia il sogno di Fabietto, così come di tanti altri, tifosi e non, come lui, sia la speranza di un cambiamento che, partendo dal calcio, si può espandere oltre e portare nuova vita e nuova linfa alla splendida Napoli che culla “È stata la mano di Dio” fin dalla primissima inquadratura.

Un concentrato di amore sotto tutti i punti di vista. Il film di Sorrentino racconta l’amore per una famiglia, l’amore per Maradona (che il regista ha ringraziato anche in occasione della cerimonia dei premi Oscar), l’amore per la sua Napoli, al pari di grandi ed eterne città di cui la cinematografia (e non solo) è piena e l’amore per il cinema. Quell’arte che lo ha fatto evadere, che lo ha portato lontano da Napoli e al contempo sempre più vicino e che lo ha salvato e continua a salvare.

“La realtà è scadente” è forse una delle frasi più significative dell’intero film che racchiude quanto appena detto, ma anche l’idea di cinema che Sorrentino ha portato, e continua a portare, avanti. Quella che disegna è una realtà diversa non solo dalla vera realtà, ma anche dalla realtà cinematografica alla quale siamo abituati solitamente. La sua è un’immersione totale e completa. Fabietto è Paolo e Paolo è Fabietto. Entrambi hanno subito una grave, gravissima perdita ed entrambi sono stati salvati proprio da quella famigerata “mano di Dio”. Ma in realtà Fabietto siamo noi. Nelle sue scelte, nelle sue difficoltà e nelle sue incertezze. Affiancato da personaggi talvolta fin troppo caricaturali (come in pieno stile sorrentiniano), riesce ad affrontare tutti gli ostacoli che la vita gli mette davanti perché si prefigge un obiettivo, un sogno, uno scopo.

Un film attento a tutto, dove niente è lasciato al caso. Dalle parole, con le quali è sempre stato molto abile il regista partenopeo, alle immagini che si soffermano con estrema cura e dolcezza su particolari e luoghi degni di rimanere impressi nella mente dello spettatore.

Ma non solo parole e immagini. Anche interpretazioni. In questo caso, una su tutte è quella di Filippo Scotti che, nei panni di Fabietto, regala una vera e propria magia. Un premio Marcello Mastroianni a Venezia quasi d’obbligo. Ridiamo con lui e soffriamo con lui. Lo guardiamo cercare di capire il mondo e di capire sé stesso. Ride e si diverte con il padre, si spaventa per i litigi dei genitori e si arrabbia in una scena cruciale. Ma soprattutto scruta il mondo, il futuro, quello che lo aspetta con uno sguardo a tratti assente, a tratti sognante, a tratti affamato. Che è poi lo sguardo di Paolo Sorrentino.

Non “È stata la mano di Dio” solo per Fabietto (e Paolo). Lo è stata anche per noi, dopo la visione di questo film. In attesa di futuri riconoscimenti, per il momento resta la sensazione indescrivibile di sogno, bellezza e speranza che si ha una volta usciti dalla sala.


Veronica Ranocchi

mercoledì, novembre 03, 2021

BELLE

Belle

di Mamoru Hosoda

Giappone, 2021

genere: animazione, fantastico, avventura

durata: 122’

Mamoru Hosoda ha presentato ad Alice nella città il suo ultimo film d’animazione “Belle”, al quale ha fatto seguito anche una masterclass.

Come indica il titolo stesso, il film è un chiaro richiamo alla figura di Belle, protagonista de “La Bella e la Bestia”, ma posta nella quotidianità di oggi, 2021.

Al centro di tutto c’è Suzu, una diciassettenne rimasta orfana della madre che vive con il padre dal quale, a poco a poco, si sta allontanando così come dalla passione per la musica che condivideva proprio con il genitore defunto. Le giornate per Suzu si svolgono tutte allo stesso modo in maniera monotona e ripetitiva. Questo finché la ragazza non scopre l’esistenza di U, un social che permette la creazione di profili virtuali dove essere, quindi, qualcun altro. Creandosi il proprio alter ego, dal nome Belle, Suzu inizia a riprendere in mano il canto, dando libero sfogo a questa sua passione e diventando, in breve tempo, una vera e propria star di questa realtà virtuale. Tutto sembra procedere per il meglio finché non arriva un drago a scombinare le carte in tavola.

La bravura di Hosoda nella sua nuova opera sta nel riuscire a fondere perfettamente passato e presente (con un pizzico di futuro). Quello che ci mostra è qualcosa di non troppo distante da quello che vediamo continuamente ogni giorno e nemmeno da quello in cui potremmo “cadere” molto prima di quanto possiamo immaginare. La realtà virtuale è sicuramente un qualcosa di già utilizzato e analizzato nel cinema (“Ready Player One” di Spielberg è uno dei titoli da citare), ma Hosoda è abile nel riuscire a dargli una connotazione differente, intersecandola e incastrandola come in un puzzle con la quotidianità. Non a caso, infatti, le vite si intersecano tra realtà reale e virtuale tanto che l’unico modo per risanare determinate ferite è “scambiarsi”.

Ma un’altra fusione più che efficace tra passato e presente è anche da intendersi come la fusione tra un grande classico dell’animazione Disney, la già citata “La Bella e la Bestia”, e la quotidianità di oggi. I movimenti, le parole, le situazioni e le dinamiche così come i personaggi sono gli stessi del grande classico. Qui tornano e sembrano quasi sfidare lo spettatore che, in alcuni frangenti praticamente identici, è spinto quasi più a trovare le similitudini tra le due opere piuttosto che seguire la narrazione. Anche perché ne conosce già le conseguenze. Con tematiche analoghe e sviluppo delle stesse in maniera quasi identica “Belle” mette anche al centro la femminilità della protagonista e, con lei, l’importanza della figura femminile universale. È lei che salva la situazione; è lei che salva il mondo. Gli equilibri si invertono e invece di essere la classica “principessa/protagonista” da salvare è la salvatrice. L’unica e sola che agisce, facendo ricorso agli altri solo per avere supporto, sostegno e suggerimenti. Lei è la protagonista, il “problema” e la soluzione. Sembra prendere alla lettera la frase “ognuno è artefice del proprio destino”. Suzu se lo crea, lo modella su sé stessa, sui suoi interessi e sulle persone che la circondano senza, però, farsi troppo influenzare da queste ultime, e lo utilizza per diventare prima Belle e poi davvero Suzu.

Ed è questo il grande insegnamento che Mamoru Hosoda vuole darci. Quello di una libertà ricercata, agognata e finalmente pronta ad essere “utilizzata”. Tra le righe anche altre tematiche che trovano il loro sviluppo in parallelo a quella centrale.

Un film sulla forza di credere in sé stessi e sul sapersi sempre rialzare dopo una sconfitta o una perdita.

Mamoru Hosoda ha ancora tanto da raccontare, per fortuna.


Veronica Ranocchi

lunedì, novembre 01, 2021

ANNI DA CANE

Anni da cane

di Fabio Mollo

con Aurora Giovinazzo, Federico Cesari, Isabella Mottinelli

Italia, 2021

genere: drammatico, commedia

durata: 97’

Presentato in anteprima ad Alice nella città e adesso disponibile su Prime Video, “Anni da cane” è il nuovo film di Fabio Mollo con un cast di giovani e giovanissimi.

Come indicato dal titolo, il film si sviluppa a partire da un’idea un po’ bizzarra: quella di considerarsi un cane e quindi calcolare la propria età come quella dell’animale domestico. Per questo la protagonista Stella, dovendo compiere 16 anni, pensa di doverne fare 112, come il suo cagnolino al quale è legata a seguito della scomparsa del padre.

Dal quel momento la sua vita è incasinata, a casa e fuori. Dentro le mura domestiche la madre si affida ai tarocchi e la sorella di 18 anni la detesta. Considerando che pensa di essere ormai con un piede nella fossa, Stella ha compilato una lista di cose da fare prima di morire. Per completare il lungo elenco avrà, però, bisogno dei suoi due migliori amici, Nina e Giulio. E poi anche dell’arrivo di Matte.

Una storia di formazione che sembra avere tutti i presupposti per essere originale e diversa dalle altre. Purtroppo, però, la direzione presa dal film è un’altra.

Visto e descritto come una fiaba, il film gira intorno alla propria protagonista assecondandola in tutto e perde di vista gli spunti iniziali. I personaggi secondari sono fin troppo secondari e tutto lo sviluppo che potevano promettere fin dai primi istanti rimane in superficie. Vengono chiamati in causa solo nel momento in cui ci si riferisce alla protagonista.

Tematiche importanti, come amicizia, amore, crescita e anche morte, sono trattati in maniera “leggera” per adattarli a un pubblico teen o comunque molto giovane. Ma, talvolta, sono fin troppo accentuati. Il malessere della protagonista è messo in evidenza fin dal primo istante ed esibito per tutta la durata del film. Una differenza sostanziale, quindi, tra “Anni da cane” e un film come “Sul più bello” dove è presente una situazione di disagio, ma meno accentuata. Non si pone l’attenzione sul malessere, quanto su quello che può alleviarlo.

Quella di Stella è una corsa continua nella speranza di afferrare più elementi possibili, ma, al contempo, questo ha un effetto contrario sullo spettatore che si perde e disperde la propria attenzione e il proprio interesse su tutto il resto, senza mai entrare davvero in empatia con la protagonista, con i suoi amici e con il suo malessere.

Bravi gli interpreti, a partire dalla protagonista Aurora Giovinazzo, al momento in sala con “Freaks Out” di Gabriele Mainetti, convincente al punto giusto. Così come il cameo di Achille Lauro nei panni di sé stesso a uno pseudo concerto per un compleanno.

Tanti anche i riferimenti alla quotidianità che, soprattutto la generazione dei più giovani, riuscirà a cogliere e apprezzare.

Sicuramente una commedia carina e moderna, ma il rammarico è che, oltre a questo, poteva essere anche frizzante e fuori dall’ordinario e non solo per un pubblico di giovanissimi.


Veronica Ranocchi

MARILYN HA GLI OCCHI NERI

Marilyn ha gli occhi neri

di Simone Godano

con Stefano Accorsi, Miriam Leone, Thomas Trabacchi

Italia, 2021

genere: commedia

durata: 110’

Stefano Accorsi e Miriam Leone sono i protagonisti dell’ultimo film di Simone Godano. Una commedia leggera e godibile che niente toglie e niente aggiunge al panorama cinematografico.

Lei è Clara, una mitomane. Lui, invece, è Diego, un nevrotico cuoco che non riesce a tenere a bada le proprie frustrazioni. I due si incontrano in un centro diurno dove, insieme ad altre persone, cercano di portare a termine un percorso sotto la guida di uno psichiatra che va loro incontro provando a fargli gestire un ristorante per anziani bisognosi. Da questo input nasce la strana amicizia tra Clara e Diego, uno l’opposto dell’altra, ma in grado di compensarsi. Lei inizia a scrivere false recensioni su internet a proposito di un locale dal nome Monroe che altri non è che la descrizione, molto “romanzata” di quello che lei, Diego e gli altri stanno facendo al centro diurno. Ma cosa succede quando cominciano ad arrivare le prime prenotazioni?

Una commedia che cerca di raccontare con semplicità e attraverso un po’ di ironia tematiche importanti, senza cadere mai troppo nel banale o nella retorica.

Ogni personaggio coinvolto in prima persona nella narrazione ha una sua caratteristica distintiva che lo etichetta come “diverso”, ma che, col tempo, diventa un tratto distintivo in grado di incuriosire e affascinare. In base a come viene descritto e narrato un certo episodio esso assume un connotato diverso. Ed è proprio questo il caso. Fa, infatti, sorridere la reazione dei clienti di fronte al personale che li accoglie nel “ristorante”. Tra chi urla, chi non parla e chi parla da solo, i clienti, dopo un primo momento di smarrimento, ci ridono su pensando che, come affermato da Clara nelle recensioni, sia un tratto caratteristico delle “performance” del personale.

Un film che ruota intorno anche all’accettazione di sé e degli altri, non solo direttamente grazie ai momenti di condivisione con lo psichiatra, ma anche e soprattutto quando ognuno è veramente sé stesso. E allora poco importa se Diego butta nel cestino una carbonara perfetta perché per lui manca un solo ingrediente. O se Clara si immagina star internazionale con incetta di premi alle spalle. Ognuno ha la propria fragilità, più o meno in contrasto con il mondo, ma ognuno ha anche la propria unicità che lo contraddistingue. Ed è questa la lezione che Godano vuole dare allo spettatore.

A fare da cornice a questa commedia comunque riuscita e ben costruita, due attori completamente calati nella parte che non esagerano mai, né in un senso né nell’altro. Miriam Leone pungente e simpatica al punto giusto, dà una propria lettura del personaggio di Clara che non si può non amare, anche nelle sue imperfezioni. Ma è Accorsi ad avere il ruolo più difficile che, però, grazie alla sua interpretazione risulta quasi il più semplice. Mai troppo, ma sempre giusto, è attento a ogni singolo movimento, ogni singolo gesto e ogni singola parola. Non eccessivo, ma autentico e reale. E non era semplice rimanere in bilico su questa linea per tutta la durata del film.


Veronica Ranocchi