martedì, febbraio 28, 2017

50 SFUMATURE DI NERO: STORIA D'AMORE DEL XXI SECOLO O BANALE CLICHE' DI SESSO ESTREMO?


C'è innegabilmente un cambio di prospettiva in "50 Sfumature di Nero", rispetto al precedente film della saga.
Jamie Dornan e Dakota Johnson tornano nei ruoli di Christian Grey e Anastasia Steele in “50 sfumature di nero” (titolo originale “Fifty Shades Darker”), il secondo capitolo tratto dalla serie di successo e fenomeno mondiale "Cinquanta sfumature". 
Compare sulla scena un addolorato Christian Grey che cerca di persuadere una prudente Ana Steele a tornare nella sua vita. Lei però intende ritornare con Mr. Grey solo a patto che lui accetti di modificare l’originario accordo. L’azzeramento del precedente accordo e la sottoscrizione tacita di un nuovo “contratto” porterà la loro storia su binari completamente diversi rispetto al primo capitolo delle “50 Sfumature di Grigio”: il rapporto erotico e passionale si innesta ed incasella ora all’interno di una storia d’amore.
Christian e Anastasia iniziano a ricostruire un rapporto basato sulla fiducia e a trovare un equilibrio entro i binari più consuetudinari di una vera e propria love story che – come ogni che si rispetti  – è osteggiata da donne e figure del passato di Christian, gelose del nuovo amore appena nato.
Le scene di sesso sono sempre presenti ma si inseriscono nell’intreccio amoroso con modalità diverse e se vogliamo “più soft” rispetto all’episodio precedente in quanto non fini a se stesse ma incastonate nel sentimento che ora pervade sia Christian che Ana.

Perdono pertanto un po’ della loro scabrosità per finire ad essere “giustificate” da una grande e reciproca passione.

E conseguentemente dette pulsioni sessuali non possono che abbandonare parte del loro originario carattere “estremo” pur senza avvicinarle – come detto da alcune recensioni - alla categoria dei romanzi cd. harmony nel senso negativo del termine.

Il romanticismo ha qui una valenza positiva ed è si presente nel secondo capitolo, ma intervallato da scene di sesso sadomaso che però ora sono pienamente volute – anzi richieste – da Anastasia che diviene così assolutamente protagonista anche dell’appagamento sessuale ed erotico, non più semplice vittima come in “50 Sfumature di grigio”.

Dunque non c’è una dominazione sessuale tra i due, ma una coppia che nutre una reciproca forte ed intensa passione e che per appagarla non ha paura di superare clichè e stereotipi amorosi ma si avventura e vuole vivere e condividere un immaginario sessuale che è stato già proprio di molti altri film del passato, da “Bella di Giorno” di Luis Bunuel (“Belle de jour”), a “Nove Settimane e ½” di Adrian Lyne.

In “Bella di Giorno” la sessualità e la prostituzione però servono alla protagonista Severine  (Catherine Deneuve) per superare il suo atteggiamento freddo e distaccato nei confronti del marito. Per questo motivo cerca rifugio tutti i pomeriggi in una casa d'appuntamenti in una splendida Parigi degli anni sessanta, dove sperimenta, attraverso la prostituzione, una sorta di psicanalisi che la porti a uscire dalle sue fobie e dalla sua frigidità. 

In Nove Settimane e ½ , Kim Basinger viene sedotta dalla personalità intrigante e dal distacco di Mickey Rourke che la fanno sprofondare in una relazione tanto sensuale quanto avventata relazione che rapidamente si trasforma in un incubo erotico di fantasie e dominazione. Al punto che presto Kim Basinger di trova costretta a scegliere tra i suoi desideri o la sua salute mentale.

Invece in “50 Sfumature di nero”, Anastasia supera le problematiche di sottomissione a Mr. Grey presenti nel primo capitolo della trilogia:  non deve accettare un sesso sadomasochistico e “strano” per superare proprie frigidità o per  tenersi stretto il proprio uomo. Anastasia infatti acquisisce la consapevolezza della propria persona e delle proprie capacità e decide di accettare solo ciò che realmente ed intimamente desidera e sente e non ciò che gli viene imposto da Christian.

Dunque reagisce alla sua figura di “sottomessa” che ci aveva offerto in “50 Sfumature di grigio” e decide di tenere testa al suo innamorato, rivelandogli di non voler più sottostare supinamente a nessuna delle sue regole.
E’ la rinascita di Anastasia che con la forza del suo amore in realtà trascina anche Christian provocando in lui a sua volta una rinascita interiore profonda.

Mr. Grey ha un passato triste e doloroso che ha rimosso e che solo Ana riesce a far riemergere con dolcezza in Christian affinchè possa superarlo e andare avanti rinnovato.
E dunque sembra essere ancora una volta l’Amore con la A maiuscola la chiave di svolta anche tra Mr. Grey ed Anastasia: Christian comprende le cause che lo hanno portato ad essere una personalità “sadica” ed accettando il suo problema interiore compie il primo passo per mutare vestito.

Anastasia lo accompagna nel riconoscimento e superamento della sua devianza in un percorso sì di amore ma costellato anche da pratiche sessuali inusuali o quantomeno non dichiaratamente convenzionali come l’utilizzo di sex toys, o sculacciate che hanno un valore e sapore diverso dalle frustate inflitte dai cocchieri a Severine per ordine di suo marito in “Belle de Jour”.
In “50 sfumature di nero” Anastasia si fa sculacciare per sua scelta e dunque per suo piacere all’interno di questa nuova storia d’amore con Christian.
Elei la prima a godere nel sottoporsi a certi giochini. In altre parole i due innamorati hanno un’intesa e una complicità sessuale reciproca e non subita. E ciò non può non far invidia a molte coppie.

Recentemente una sessuologa ha sostenuto in un suo articolo commentando “50 Sfumature di nero” che lo stesso ed anche il primo capitolo riporterebbero in auge il vecchio e stereotipato clichè del  mito di Cenerentola e del femmineo “io ti salverò” ».
Liquidare il film utilizzando il canone del principe azzurro e della buona crocerossina innamorata in realtà risulta fin tropo sbrigativo atteso che in realtà in “50 Sfumature di nero” Anastasia supera e non si riconosce affatto nella dolce infermiera dell’amore pronta a giustificare ogni cosa del suo amato pur di averlo con sé. 

Il sesso non viene sdoganato perché va solo di moda ma diviene una chiave di lettura e un tassello prezioso della stessa storia d’amore tra Mr. Grey e Anastasia.
Il dolore nella pratica sessuale non assume la valenza di risveglio dal torpore della società addormentata sui social come sosterrebbe la sessuologaQuesto dolore nel piacere è una componente del piacere stesso e affronta proprio la relazione tra due persone che sono emotivamente riscaldate (e non congelate), non è un escamotage per fuggire dalla profondità di un rapporto a due.

Il regista James Foley nel secondo capitolo della saga confeziona dunque un prodotto cinematografico elegante in un passaggio continuo attraverso ossessioni e devianze dovute a traumi dell’infanzia per arrivare ad un riscatto raggiunto attraverso la sessualità per approdare all’amore.
Sembra altresì alquanto riduttiva la critica al film secondo cui storie di questo tenore porterebbero poi al femminicidio e che dunque una donna dinanzi ad un Mr. Grey così nevrotico dovrebbe solo scappare.
Mr. Grey infatti ha superato la propria nevroticità del primo capitolo e ha stabilito una complicità con Anastasia che si rivela e si esterna in diverse scene “hot” del film, come in quella in cui Christian è con lei ad una cena romantica e le chiede di togliere gli slip. Lei esegue e il partner chiede il conto e la scena si sposta in un ascensore, in cui Christian  - tra molte altre persone che affollano l’ascensore - regalerà alla compagna un piacere quasi istantaneo.
La positività di questa storia che si trasforma in storia d’amore completata dal sesso anche inusuale è una caratteristica del tutto insolita e nuova e non avvezza anche alla tradizione passata dei cd.  hot movie. La mente si posa indietro nel passato su “Ultimo tango a Parigi” di Bertolucci, un film cult degli anni ’70, censurato e poi reinserito nella programmazione al pubblico negli anni ’80. In quella storia il sesso estremo rimaneva fine a se stesso, non sbocciava in alcuna storia ed empatia reale tra i due. Emblematica la frase finale laddove la protagonista chiede a Marlon Brando il suo nome che questi non le aveva mai rivelato. E Brando risponde dicendo “Non ho nome” e aggiungendo che neanche vuole sapere il nome di Maria Schneider la quale vorrebbe rivelarglielo.

Perché conclude Brando: “Tu non hai nome e io nemmeno: nessun nome. Qua dentro non ci sono nomi, non esistono nomi, capito?”.
I due devono rimanere intrappolati nello schema esclusivamente sessuale che si sono creati, non riescono e non vogliono andare oltre. Come invece avviene in “50 Sfumature di nero”.  

Da ultimo merita di essere segnalata una chicca che è tra le scene finali del film ed è un esplicito rinvio ad un film in cui recitò negli anni ‘80 la mamma di Dakota Johnson, Melanie Griffith. Il film è “Una Donna in carriera“, storia di una segretaria che vuole a tutti i costi sfondare nel mondo della finanza, anche con metodi non proprio ortodossi.
Nel film della Griffith è rimasta celebre la battuta finale del film quando la Griffith nel suo nuovo ruolo di capo elenca ciò che si aspetta dalla sua nuova segretaria. 

Ebbene, Anastasia Steele ripete la stessa identica frase alla sua nuova assistente Hannah dopo aver preso il posto di Jack Hyde come caporedattore.
 La frase è : “Anzitutto che ci diamo del tu. Non pretenderò che tu mi faccia il caffè, a meno che tu non lo faccia anche per te e il resto lo vedremo a mano, mano che andremo avanti”.
Chiaro omaggio a Melanie Griffith attraverso le parole della figlia Dakota per chiudere il secondo capitolo delle 50 Sfumature.

Michela Montanari

lunedì, febbraio 27, 2017

VENEZIA 73: LA LA LAND

La La Land
di Damien Chazelle
con Ryan Gosling, Emma Stone
Usa, 2016
genere, drammatico, musicale,commedia, sentimentale
durata, 126'




Una giornata qualsiasi nella vita di un uomo e di una donna: serpenti di macchine messe in fila da un ingorgo cittadino, rumori di clacson, motori fuori giri e il brontolio delle stazioni radio costituiscono il sostrato dell'esplosione energetica che scandisce la scena d'apertura di "La La Land", il film di Damien Chazelle scelto per inaugurare la 73esima edizione del festival di Venezia. Balzati fuori dalle rispettive autovetture e scatenati in un'orgia di balletti pirotecnici che sembrano farsi beffa della gravità dei corpi e della vita i ragazzi di Chazelle con la loro voglia di esserci e con lo spettacolo che mettono in scena si incaricano di annullare le distanze tra film e spettatore, invitando quest'ultimo ad abbracciare senza remore la fantasia visiva e la libertà espressiva di un regista cinefilo che al suo terzo film compie un doppio salto mortale realizzando una storia d'amore che è allo stesso tempo un omaggio ai musical hollywoodiani degli anni d'oro - quelli che tanto per capirci realizzava Vincent Minnelli - e dal punto di vista personale la messa a punto di un dispositivo cinematografico che dopo "Whiplash" rafforza il connubio tra musica e settima arte.


Di fronte all'importanza dei rimandi cinematografici che è possibile rintracciare durante la visione di "La La Land", primo fra tutti quello con il Martin Scorsese di "New York, New York", ripreso da Chazelle nelle similitudini biografiche dei personaggi (il Jimmy Doyle sassofonista interpretato da De Niro sta al pianista jazz di Ryan Gosling come la giovane cantante di Liza Minnelli sta alla Mia, aspirante attrice, di Emma Stone) così come negli esiti delle loro aspirazioni, la priorità assegnata da questa analisi al film del 2014 potrebbe sembrare inappropriata. E invece se si ricorda la storia del giovane batterista Andrew Neiman disposto a tutto pur di sfondare nel mondo della musica (il mito del successo e le rinunce che esso comporta è anche in "La La Land" uno dei temi principali) viene da se che il Sebastian di Gosling altri non è che una versione romantica dello studente di batteria incarnato da Miles Teller. A muoverli nelle loro ossessione di purezza è infatti una radicalità che "La La Land" sembra a prima vista mitigare grazie all'inserimento della componente sentimentale (in "Whiplash" rimossa a priori dalle scelte del protagonista) costituita dalla storia d'amore tra Mia e Sebastian e invece destinata a farla da padrone tanto negli sviluppi della liaison tra i due protagonisti, come pure nelle conseguenze delle scelte che decideranno il destino della coppia (di cui evitiamo di riferire per lasciare il piacere di scoprirle guardando il film), tanto nella scelte operate in sede di regia dal talentuoso cineasta.



Il quale per nulla spaventato dall'impresa di richiamarsi agli esempi di cui parlavamo poc'anzi si confronta con i modelli in questione senza timore di sorta: da una parte dichiarando il suo tributo al cinema che fu (dalle effigie di James Dean e Marylin Monroe ritratti sui murales della città losangelina alla scoperta di "Gioventù bruciata" il film sembra una Hall of Fame dedicata agli anni d'oro del divismo americano); dall'altra reinterpretandoli senza prenderne le distanze (come avevano fatto per esempio Woody Allen in "Tutti dicono I Love You" ) ma anzi provando a non sfigurare ne in termini di glamour - e in questo senso il binomio Gosling/Stone riesce a non far rimpiangere le star di un tempo - ne in termini di performance, con gli attori impegnati da par loro a cantare e ballare con ingenua disinvoltura. Girato come si faceva all'epoca del technicolor e del cinemascope, "La La Land" accarezza il cuore dello spettatore coinvolgendolo nella tenzone amorosa di Mia e Sebastian senza dimenticarsi di ottenere il massimo dal potenziale visivo tipico del genere. In questo senso anche chi non è un fan dei vecchi musical non potrà non apprezzare una per una le coreografie messe a punto da Chapelle che arriva a far volare gli amanti sulla città di Los Angeles pur di soddisfare il bisogno di infinito che muove i loro passi. Oltre allo straniamento prodotto da una versione mai vista della città delle luci, stilizzata in maniera da rimanere sospesa tra passato e presente, non è da trascurare poi, l'apporto artistico di Gosling e di Emma Stone: il primo pronto a confermare una capacità di lavorare di sottrazione davvero rara per una star hollywoodiana, la seconda davvero strepitosa nel tour de force che le da modo di mostrare la completezza del suo repertorio. Per entrambi prevediamo una stagione che li vedrà in prima fila tra le candidature ai premi di categoria. Iniziando da Venezia dove "La La Land" potrebbe trovare estimatori nella giura del concorso ufficiale che Chapelle non poteva aprire nel migliore dei modi.
(pubblicata su ondacinema.it/speciale 73 festival di Venezia)

domenica, febbraio 26, 2017

BEATA IGNORANZA

Beata ignoranza
di Massimiliano Bruno
con Marco Giallini, Alessandro Gassmann, Valeria Bilello 
Italia, 2017 
genere, commedia
durata: 102' 


Ernesto e Filippo si conoscono da una vita, ma non si rivedevano da 25 anni: a dividerli è stato l'amore per la stessa donna, Marianna, e la nascita di una figlia, Nina. Ora, però, si sono ritrovati ad insegnare nello stesso liceo, l'uno italiano, l'altro matematica, e a dividerli è subentrato il loro modo di gestire il rapporto con le tecnologie: Ernesto ha un Nokia del '95, non possiede un computer ed è indignato davanti al dilagare dei social media; Filippo, invece, vive di selfie, chat e incontri in rete. Le rispettive preferenze non possono non influire sullo stile dei due docenti nonché sulle loro relazioni personali e l'attrito esplode proprio in classe, debitamente filmato e condiviso su Internet. Nina intercetta quel video virale e decide di girare un documentario creando un esperimento antropologico, secondo cui Ernesto dovrà imparare a utilizzare computer, smartphone e social, mentre Filippo dovrà disintossicarsi da qualsiasi comunicazione virtuale, con l'aiuto di un gruppo di sostegno per la dipendenza online. Poichè Nina conosce personalmente entrambe le sue cavie, la situazione è destinata a complicarsi e ad assumere sfumature tragicomiche. Massimiliano Bruno e la Italian International Film di Fulvio Lucisano si buttano a pesce sulla nuova tendenza cinematografica italiana, che individua nel suo capostipite "Perfetti sconosciuti", ma come ogni progetto successivo che rincorre un'ispirazione originale, "Beata ignoranza" non riesce a trasformare un'idea interessante, il confronto fra due modi opposti di gestire un aspetto chiave della contemporaneità, in una narrazione cinematografica soddisfacente. Il principale problema di "Beata ignoranza" è proprio la sceneggiatura, firmata da Bruno insieme a Herbert Simone Paragnani e Gianni Corsi, piena di implausibilità, che riguardano soprattutto la costruzione dei due protagonisti. Se da un lato Ernesto è divertente nella sua avversione granitica alla modernità, dall'altro risulta del tutto incoerente nella gestione del suo rapporto con Nina e nell'attrazione per un'altra insegnante, Margherita, assuefatta a quei social che lui dovrebbe detestare. Ma va ancora peggio a Filippo, ignorante anche della materia che insegna, ex elettore di Forza Italia che vive alla Balduina insieme a due perdigiorno cannaioli, in un assetto domestico che sarebbe concepibile al Pigneto, non in uno dei quartieri più conservatori di Roma. 


Tra queste incoerenze e assurdità, Alessandro Gassman si vede costretto a recitare il suo ruolo contradditorio e bidimensionale con sguardi e smorfie che non fanno onore alla sua abilità di attore. Va meglio ai personaggi di contorno: l'operatrice Iris (Emanuela Fanelli) è spassosa nella sua caratterizzazione della virago con accento "etnico"; il coinquilino di Filippo, Gianluca (Giuseppe Ragone), diverte con i suoi talenti inutilizzati strizzando l'occhio a "Smetto quando voglio"; il bidello Alessandro Di Carlo appare e scompare come una maschera goldoniana e Teresa Romagnoli fa del suo meglio per restituire a Nina un briciolo di autenticità. Pessimo, invece, il personaggio di Marianna, interpretata da Carolina Crescentini con sguardo lacrimoso. Tra l'altro tutti e tre i principali ruoli femminili, Marianna, Nina, Margherita, sembrano incapaci di gestire la propria sessualità in modo maturo, o anche solo di conoscere l'uso dei contraccettivi. Il linguaggio cinematografico è un pasticcio: l'obiettivo di preparare quella sorpresa finale che caratterizzava il prototipo "Perfetti sconosciuti" distorce tutta la costruzione narrativa, interrompendo il flusso del racconto con inserti da web serie che la conclusione dovrebbe giustificare e che, invece, rendono faticoso per lo spettatore seguire la trama. Quello che manca è soprattutto una verità di fondo nella gestione delle relazioni interpersonali, che si limitano a interazioni da spot televisivo, senza quella profondità che, anche nel contesto di una commedia, è necessaria perché la storia funzioni.
Riccardo Supino

LA FOTO DELLA SETTIMANA


























Cabaret di Bob Fosse (USA, 1972)

sabato, febbraio 25, 2017

DEAD MAN

Dead Man
di Jim Jarmusch
con Johnny Depp, Gary Farmer, Crispin Glover, Lance Henriksen, Michael Wincott, Eugene Byrd, John Hurt, Robert Mitchum, Iggy Pop, Gabriel Byrne, Jared Harris, Billy Bob Thornton, Alfred Molina
Usa, 1995
Genere, western, metafisico
Durata, 121’


William Blake (Johnny Depp) è un giovane orfano che, spesi gli ultimi risparmi, si reca a Machine nel West per un lavoro come contabile. Arrivato a destinazione, però, il lavoro è già stato assegnato a un altro e, dopo le sue proteste, malamente cacciato dal proprietario della fonderia John Dickinson (Robert Mitchum). Solo e senza soldi, viene aiutato da una giovane prostituta, ma viene coinvolto in una sparatoria dove uccide l’ex amante della donna (figlio di Dickinson), la donna muore e lui è colpito al petto. Inizia una fuga accompagnato da un indiano, Nessuno, che ha vissuto in Europa, che pensa sia l’incarnazione del poeta di cui porta il nome e vuole condurre verso il Grande Spirito. Inizia un viaggio metafisico, inseguito da tre bounty killer ingaggiati da Dickinson.
Jim Jarmusch con Dead Man mette in scena un on the road poeticoutilizzando un genere come il western, ormai in disuso, giocando sui stilemi e facendoli suoi. L’incipit, ad esempio, del viaggio sul treno che va verso laFrontiera, è non solo un movimento fisico, ma sociale, politico, poetico. In quella sequenza viene mostrato tutto: l’industrializzazione selvaggia che viaggia veloce, la violenza gratuita (i cacciatori che improvvisamente sparano dai finestrini verso i bisonti), il volto sperduto di Blake, uomo comune travolto dagli eventi che vittima sacrificale designata e inconsapevole va verso un destino già disegnato. Del resto, il macchinista, in un dialogo straniante, gli chiede se si ricorda della sua morte, della barca che scorre sulle acque del lago, preannunciando il finale e quasi come se il film sia un lungo flashback non dichiarato, non mostrato dal linguaggio cinematografico, ma solo dalla struttura narrativa che lo spettatore comprende appieno solo dopo la fine della visione.

William Blake diventa simbolo di una morte annunciata, di un’umanità già sconfitta: nel suo movimento, in realtà è un immobilismo di un individuo che alla fine è costretto a confrontarsi con una realtà moderna, è presentificato, senza futuro. Blake è un ricordo, un’icona del passato e il suo ricongiungimento con ilGrande Spirito è un tornare indietro, abbandonare l’oggi violento e cannibale (rappresentato da uno dei killer che insegue Blake, interpretato da un inquietanteLance Henriksen). Blake è un moderno Ulisse che affronta una serie di stazioni di sofferenza (e metamorfosi), un mostrare una passione verso la liberazione materiale e il ricongiungimento con la propria spiritualità perduta.


Jim Jarmusch con Dead Man abbandona (apparentemente) i suoi personaggi contemporanei che si muovono in ambienti urbani liminali per affrontare un discorso con un respiro ampio che parla di Storia (quella americana). Ma il volto di Depp potrebbe essere quello di un qualsiasi “eroe” del quotidiano dei suoi film e quindi molto moderno. Jarmusch sceglie una fotografia in bianco e nero, prediligendo i grigi, che danno un sapore di un vecchio album di fotografie, utilizzando la macchina da presa in modo molto più statico, con primi piani che si contrappongono a paesaggi in campo lungo, desolati, solitari. Paesaggi spogli dove i personaggi sono elementi estranei, di passaggio. Accompagnati dalla musica di Neil Young, una ripetizione di tema che dona forza alle immagini, incardinando la messa in quadro come una lunga sequenza senza fine.
Con Dead Man il regista dell’Ohio raggiunge uno dei punti più alti della sua arte cinematografica, raggiungendo un risultato epifanico e maturo di un percorso composto da una visione personale e unica del mondo e della vita. Un autorepostmoderno, dove alto e basso si ricongiungono in storie rarefatte, un cinema di idee e immagini riconoscibili. Un cineasta che interpreta l’anomia della società contemporanea con sguardo distaccato e leggero come i suoi personaggi.
Antonio Pettierre
“Omaggio a Jim Jarmusch”, Fondazione Cineteca Italiana, Spazio Oberdan, Sala Alda Merini a Milano rassegna dal 11 al 21 febbraio 2017.

venerdì, febbraio 24, 2017

BARRIERE

Barriere
di Denzel Washington
con Denzel Washington, Viola Davis
USA, 2017
genere, drammatico
durata, 138'

La scelta di fare del teatro una materia cinematografica si lega a una serie di caratteristiche che inevitabilmente finiscono per influenzare il risultato finale. Se pensiamo ai film come beni di consumo e allo spettatore medio come possibile fruitore non c’è dubbio che la dilatazione dei tempi narrativi, la collocazione degli attori all’interno di un unico ambiente e soprattutto la tendenza a sviluppare la storia attraverso le parole anziché l’azione sono fattori destinati ad appagare un ristretto numero di appassionati. D’altro canto in un’epoca di avvilimento culturale e di mancanza di idee la possibilità di uno spettacolo che si riappropri in maniera corretta dei principi dell’arte e della drammaturgia costituisce di per sé un valore aggiunto in grado di fornire al film la ragione per essere visto.


“Barriere” diretto dal tre volte regista Denzel Washington offre ne è la dimostrazione perché lungi dall’essere un film destinato alle vette del box-office (nonostante la presenza dello stesso Washington in veste d’attore principale e di Viola Davis in qualità di coprotagonista)la vicenda di Troy Maxon, promessa del baseball costretto ad abbandonare lo sport per una vita di stenti e di fatiche non è solo il resoconto di una parabola umana ed esistenziale segnata dall’ingiustizia sociale e dalle conseguenze della discriminazione razziale che imperversava negli Stati Uniti degli anni cinquanta. Certo il malessere del protagonista e quello che di riflesso si riversa sul resto dei suoi familiari e in prima istanza su Rose - la moglie che in qualche modo ne stempera i lati più duri del carattere – è senza margine di dubbio la conseguenza della ghettizzazione subita dalla comunità nera in ogni angolo del paese. Al contrario però, ciò che occupa la parte centrale della narrazione è il dramma da “gruppo di famiglia in un interno” generato dalla debordante personalità dell’egotico patriarca, tanto efficace nel prendersi cura della propria famiglia quanto dispotico nell’affermazione del diritto di padre padrone che Troy impone al resto della compagine.

Se “Barriere” si regge sulle straordinarie interpretazioni degli attori (anche quelli di secondo piano)  e sulla capacità che ha il testo di parlare la lingua del nostro tempo non va dimenticata la regia di Denzel Washington soprattutto quando si tratta di far coincidere il sentimento d’oppressione che grava sui personaggi con lo stile claustrofobico delle riprese e con una messinscena che nella densità degli elementi scenografici rende come meglio non si potrebbe lo stato d’assedio vissuto dal contraddittorio protagonista.  

giovedì, febbraio 23, 2017

DAVID LYNCH: THE ART LIFE

David Lynch: The Art Life
con David Lynch, Lula Lynch
USA, Danimarca, 2017
genere, documentario
durata, 90'


Che David Lynch sia sempre stata una persona riservata e un artista poco disposto a parlare del suo lavoro è un dato inconfutabile soprattutto per chi, nel corso delle (rare) interviste rilasciate dal cineasta americano, ha cercato di trovare una risposta ragionevole alle iperboli narrative e alle vertigini di senso provocate dalla visione delle sue opere. A tal proposito ne sanno qualcosa i critici presenti alla conferenza stampa organizzata a suo tempo dal festival di Venezia per l'anteprima di "Inland Empire" i quali, frastornati dalla continua metamorfosi dei personaggi e dalle digressioni spazio temporali che costituivano l'architettura narrativa dell'opera, ebbero come risposta alle loro domande affermazioni ancora più evasive delle premesse poste in essere dal lungometraggio in questione. Punto d'arrivo di un percorso cinematografico che negli anni ha permesso al regista di affrancarsi dalle categorie del cinema più tradizionale - diventando strumento di ricerca personale e insieme poliedrica espressione di un talento fuori da ogni canone - l'esempio fornito da "Inland Empire" non è citato a caso perché il film del 2006 riecheggia più di una volta dietro le immagini e nelle parole che fanno da corredo a "David Lynch: The Art Life", il documentario diretto a più mani da Jon Nguyen, Rick Barnes e Olivia Neergaard, registi danesi ai quali è stato permesso di affacciarsi nelle stanze in cui l'ispirazione lynchiana fa le prove di ciò che poi dovrà essere.


Filmato all'interno dello studio dove la creatività si manifesta attraverso liturgie di segno opposto e in cui un'alacre attività manuale si alterna a improvvise stasi meditative "David Lynch: The Art Life" riassume attraverso un album di ricordi, pensieri e prerogative personali quella che è stata e ancora è la filosofia artistica dell'autore dai primi anni passi all'esordio nella Settima arte, avvenuto nel 1979 con "Eraserhead - La mente che cancella". Diversamente da ciò che lo spettatore sarebbe portato a credere a fare le spese di questa "eccezionale" dissertazione intorno al mondo del regista americano è proprio il cinema che, se da una parte è impossibile estromettere dal computo finale per il collegamento tra gli elementi autobiografici contenuti nel documentario e l' immaginario cinematografico che nutre le storie del regista, dall'altra ne viene sostanzialmente escluso per il fatto che gli episodi e le situazioni prese in esame (ivi compreso il materiale visivo a corredo degli stessi) appartengono alla vicenda umana del protagonista: quella che si forma e prende coscienza del significato della cosiddetta "vita artistica" in cui arte e vita confluendo nella medesima pratica finiscono per esercitare una presa talmente forte da subordinare gli aspetti della vita psicologica e sociale a cominciare da quelli legati al rapporto con le persone a lui vicine, in molti casi determinanti nel favorire le aspirazioni del giovane virgulto: dalla famiglia, fautrice delle aspirazioni del giovane apprendista al genitore del suo migliore amico (il pittore Bushnell Keeler) che lo avvia all'esercizio della pittura perorandone la causa quando sembra che il padre del virgulto inizi a dubitare sulla liceità delle scelte operate dal proprio figlio. Perché la vita artistica, cosi come emerge dai ragionamenti di chi ne è artefice oltre alle ripetizioni di una gestualità rituale ("si beve caffè, si fumano sigarette e si dipinge") è intesa non come attività fine a se stessa ("sapevo che i miei quadri facevano schifo" dichiara Lynch senza falsa modestia) ma nella misura in cui permette al giovane apprendista di trovare il proprio posto nell'universo ("e l'unico modo per farlo era continuare a dipingere e a dipingere per arrivare a qualcosa").


Così facendo, nel susseguirsi di sensazioni e rimembranze opportunamente testimoniate dal repertorio offerto dalla cineteca personale del regista come pure dalla visione di alcuni dei suoi dipinti, qui utilizzati per amplificare i significati delle affermazioni pronunciate da Lynch, il racconto di questa singolare iniziazione da modo allo spettatore di rintracciare l'origine di alcuni degli stilemi rintracciabili nei lungometraggi del regista. Dalla compartimentazione dell'esistenza che il nostro utilizza quando si tratterà di dare a ciascuna parte della sua vita una forma adeguata alle circostanze ("parlavo e agivo in un modo con gli amici, in un modo diverso con la mia famiglia,") alla sensazione di minaccia connessa con la possibile entrata in campo di qualcosa o di qualcuno che non rientra nell'ordine stabilito dalle consuetudini, a cui si lega la tendenza di Lynch a proteggersi dalla realtà limitandola in senso spaziale (da cui l'abitudine a circoscrivere il proprio raggio d'azione riparandosi dentro le mura di casa) e facendola esistere come altrove immaginato dal regista, sogno a occhi aperti in cui le paure dell'inconscio prendono vita al solo scopo di essere esorcizzate. In questa direzione va letta la sequenza conclusiva relativa al backstage di "Eraserhead" (l'unica dedicata alla settima arte) nel cui set il regista si rinchiuse e visse in una sorta di eremitaggio ad alto tasso creativo: "Eraserhead è stata l'esperienza più bella e felice del cinema" dice il regista, e ancora "Mi piaceva che quello fosse il mio posto, il luogo dove potevo costruire tutto come volevo che fosse con pochissimi soldi. Ci voleva del tempo ed è stato bellissimo". Frasi e immagini di un "impero della mente" ante litteram su cui "David Lynch: The Art Life" prova a fare luce con risultati davvero ragguardevoli.
(pubblicata su ondacinema.it)

mercoledì, febbraio 22, 2017

GIMME DANGER

Gimme Danger
di Jim Jarmusch
con James Osterberg, Ron Asheton, Scott Asheton, Kathy Asheton, Mike Watt
Usa, 2016
Genere, documentario
Durata, 108’



L’ultimissima opera di Jim Jarmusch è un atto d’amore nei confronti di uno dei suoi personali idoli musicali e del suo gruppo più famoso: Iggy Pop e The Stooges. Il titolo del film riprende quello dell’omonimo brano dell’ultimo album del gruppo Raw Power del 1973.
Il documentario si basa essenzialmente su una lunga intervista fatta a James Osterberg, in arte Iggy Pop, intervallata da testimonianze registrate degli altri componenti della band (tutti morti e a cui il film è dedicato), filmati di repertorio, cartoni animati. Icona del rock, innovatore e precursore di generi come il punk o il psichedelico, Iggy racconta la sua vita dall’infanzia e poi l’esperienza con The Stooges dal 1968 al 1974.


Gimme Danger diventa una rappresentazione dei momenti della nascita della creazione artistica che ha ispirato Iggy. Il musicista cresce in una roulotte ad Ann Arbor con dei genitori eccentrici che gli permettono di suonare la batteria in quel piccolo spazio. Iggy è affascinato dal rumore delle macchine industriali e quel sonoro lo voleva riprodurre con la batteria. Così come fin da piccolo vedeva in televisione un programma per bambini che lo divertiva molto dove il conduttore invitava gli spettatori a scrivergli, ma raccomandandosi che le lettere fossero di massimo venticinque parole. Il cantante memore di questo imprinting infantile, poi decise che le sue canzoni non dovevano superare quella cifra. Il suo nome d’arte deriva dal primo gruppo in cui milita, Iguanas, durante gli anni dell’adolescenza, suonando, appunto, la batteria.  Il documentario illustra poi la storia dal 1968 al 1974 dei The Stooges, che rivoluzionano la musica rock e con Iggy che trasforma ogni concerto in un evento che rasenta la performing art con esibizioni fisiche e canore estreme, arrivando alle autolesioni, provocando continuamente il pubblico sessualmente e antesignano dello stage diving, cioè lanciarsi dal palco in mezzo al pubblico.
Il regista americano registra la creazione degli album The Stooges del 1969,Fun House del 1970 e appunto l’ultimo Raw Power. Il gruppo si sciolse nel 1974 dopo un concerto che finisce in rissa con dei bikers per poi riunirsi nuovamente negli anni 2000 registrando altri due album The Weirdness (2007) e Ready to Die (2013).


Jarmusch definisce i The Stooges “probabilmente la più grande band nella storia del rock‘n’roll” e il rispetto nei confronti di Iggy Pop è dato dal mettersi a disposizione del cantante, che con la sua voce profonda racconta con serietà e lucidità la propria storia, la sua visione della vita, la musica, i rapporti con i compagni - condividendo tutto in quegli anni, vivendo come “comunisti” nel senso primigenio del termine di dividere il denaro, il cibo, la casa - e restando in disparte.

Se un difetto dobbiamo trovargli è proprio l’univocità del punto di vista, con una vistosa sudditanza nei confronti del soggetto ripreso, senza dare spazio alla scena musicale di quegli anni - che rimane sullo sfondo -  e senza aggiungere interventi di terzi che non siano del mondo di Iggy e della band. Ma come abbiamo detto, si tratta di un atto d’amore di un fan e Gimmi Danger è creato prima di tutto per loro e per gli amanti della musica rock.
Antonio Pettierre
“Omaggio a Jim Jarmusch”, Fondazione Cineteca Italiana, Spazio Oberdan, Sala Alda Merini a Milano rassegna dal 11 al 21 febbraio 2017.

AGONIA DELL'IMMAGINARIO I: IL RIFLUSSO INEVITABILE DI "STRANGER THINGS

“Agonia dell’immaginario I: il riflusso inevitabile di Stranger Things”





Tutto tende a ripetersi, in genere col sovrappiù di una o diverse sfumature peggiorative. Già questo, in teoria, dovrebbe invitare alla cautela, se non alla resipiscenza. Ma tant’è. Il mondo, si dice, non funziona così. Figurarsi, comunque, una società intera e una Cultura (la nostra) che da tempo, più o meno consapevolmente, più o meno colpevolmente, affida alla propaganda e a poco altro l’auto-convincimento circa la propria indefettibile propensione al futuro continuando, d’altro canto, a mantenere mani, piedi e sguardi, ben dentro il passato, secondo un continuo e schizofrenico ribaltamento delle prospettive che oltre ad incorrere spesso nell’indulgente repertazione di uno ieri a portata di memoria mass-mediologica (quindi, all’incirca, relativo a qualche decennio addietro) svela, assieme all’ovvia strategia commerciale sottesa ad una scommessa operata su un prodotto relativamente sicuro perché agganciato alla solidità di un azzardo collaudato, la misura attuale raggiunta dal livello di stagnazione di un intero immaginario.


Il successo fulmineo quanto capillare riversatosi su una serie televisiva (visti i risultati, confermata  almeno per un’altra stagione) come Stranger Things - prodotto originale della galassia Netflix,  ad opera di Ross e Matt Duffer, quasi esordienti e poco più che trentenni, trasmesso di recente in un corpus unico di otto episodi con accortezza e indubbia abilità tenuti in tensione tra loro da millimetrici glissando e suggestivi rilanci - stupisce e, volendo, dà da pensare, proprio in virtù della sua ampiezza (notevole, pare, anche se Netflix nicchia ancora a dire la sua riguardo cifre e percentuali), collocando, invece, di fatto (e in tal senso è da considerarsi inevitabile il riflusso di un gesto come quello dei Duffer) la possibilità stessa della sua ideazione, in un territorio della reminiscenza oramai vasto e frequentato, luogo d’elezione a cui l’immaginario moderno non si stanca mai di tornare, ripercorrendo e riproponendo un intero campionario di coordinate geografiche (nel caso, Hawkins, località inventata dell’Indiana: la provincia americana, quindi), di riferimenti anagrafici (la pre-adolescenza e l’adolescenza), di percorsi narrativi (affini al racconto di formazione di stampo fantastico, arricchito da innesti fantascientifici, thriller, horror e sviluppati nei modi tipici della prassi investigativa scomparsa/ricerca), che ad ogni occasione riavvolge il nastro di precedenti visivi conosciuti, sedimentando e indurendo un senso di familiarità sovente confortevole, come pure non di rado consolatorio, al punto da risultare difficile da scalzare (probabilmente non è un caso, al netto di specifici pregi e difetti, il sostanziale fallimento del ritorno di un altro mondo - quello di X-files - nella sua versione attualizzata, ossia adeguata alla contemporaneità, priva cioè di parte di quei connotati i quali, una volta storicizzati dalla consuetudine, avevano contribuito a delimitarne uno spazio speciale nell’immaginario comune).




Si aggiunga a quanto detto che lo sforzo minuziosamente e amorevolmente cinefilo della coppia di autori in questione - il cui frullatore d’influenze ha contato, senza esagerazione, sull’apporto di decine d’ingredienti (dai rimaneggiamenti di un già geniale recuperatore come J.J.Abrams, alle atmosfere carpenteriane; dalle arditezze anatomiche di Giger, agli stupori spielberghiani e agli addii prematuri alla giovinezza di Reiner, passando per i volti vissuti di W.Ryder e M.Modine e per le note irreconciliate o melanconiche di Clash, Joy Division, Jefferson Airplane, Smiths, Echo and the Bunnymen, e solo per evidenziare i più macroscopici) - giunge ad insistere, sovrapponendocisi, su un contesto, l’odierno, in superficie disteso sul comodo sofà a nome eterno presente ma al di sotto, e anche per via della suddetta persistenza, intriso di un’inquietudine sorda, dai contorni ancora incerti quanto dalle epifanie poco rassicuranti. Diventa cioè intuibile il cortocircuito - e la conseguente sensazione di staticità del nostro immaginario - che si produce - tra proiezione sentimentale e immedesimazione emotiva; ineliminabile desiderio di rassicurazione e innegabile nostalgia: interessata manipolazione e ipotetico stallo da saturazione - tra, a questo punto, presunta attualità, dilatata nella percezione dei suoi estremi fino ad inglobare ampie porzioni di tempo trascorso, e un supposto passato che, tutto sommato e per così dire, non è mai stato messo nelle condizioni di risultare unicamente tale, non avendo mai smesso di intersecarsi col futuro ossia - il gioco di parole non inganni - col presente.




In altre parole: se da un lato resta innegabile la perizia con cui lavori come Stranger Things utilizzano e rielaborano cliché consolidati, luoghi, corpi, temi, oggetti, effetti speciali, et. (un piccolo centro ai margini di un bosco; la sparizione di un giovane: qui, il piccolo Will Byers; gli amici solidali e spavaldi subito impegnati nella sua ricerca; una madre complicata ma indomita; uno sceriffo solo in apparenza arrendevole; una base segreta dove si compiono strani esperimenti; una ragazzina dai prodigiosi poteri; la possibilità di accedere ad un universo parallelo abitato da una spaventosa creatura, et.), confidando, quasi, su un istintivo coinvolgimento e, di conseguenza, fornendo energia nuova al meccanismo di un intrattenimento assurto ai giorni nostri ad eccitante blando dell’emotività di massa, parimenti, l’innegabile coesistenza a viscosità zero dell’eterno presente con un passato che, come detto, non è mai del tutto alle spalle, cela con sempre minore agio il tentativo - e si tenga presente che la scala di riferimento di un fenomeno del genere, oggi come oggi, è planetaria - di arginare uno spiacevole stupore attonito conseguente alla latenza sotterranea eppure indiscutibile di un’angoscia collettiva identificabile con un sentore di catastrofe che aleggia stabilmente nel cuore della modernità, come se il sempre promesso futuro migliore, il domani-a-portata-di-mano delle narrazioni globali sulle sorti e progressive fosse legato (e, per certi versi, dipendesse) non ad un passato inteso come generica ed eventuale sommatoria virtuosa di esperienze e saperi di cui magari tener conto scaturiti da un mondo in ogni caso non più esperibile, ma ad un passato che mescolandosi e confondendosi naturalmente al presente nelle forme di un vaghissimo tempo fa, ne condiziona, altera e sfalsa nella valutazione il decorso al modo del riverbero fittizio della luce di una stella il cui bagliore in realtà non è che l’eco di un corpo inerte, finendo gradatamente per far sì che domani venga sempre più avvertito come minaccia che come risorsa e innescando, a mo’ di automatismo difensivo, il riflesso che spinge a volgersi indietro. 


Va da sé che un assunto arguto e provocatorio come “ogni epoca ha il futuro che si merita” trovi terreno fertile all’interno di una transizione storica complicata e violenta come quella che stiamo vivendo. In tal senso, ciò che stiamo meritando, assieme alle immagini che abbiamo scelto per esprimerlo, sembra essere un futuro avviato su un sentiero che tende a negare al tempo la liberazione d’invecchiare, ovvero di rendere materializzabili quelle premesse per cui ciò che ora non è, potrà essere, vale a dire il pieno dispiegarsi della libertà creatrice dell’avvenire. Disponiamoci, dunque, a consumare ulteriori dosi di quelle che Douglas Coupland ha definito mitologie pastorizzate, chiudendo bene entrambi gli occhi, però, dovessimo accorgerci, tra qualche tempo, struggendoci per gli anni ’90 e poi per i cosiddetti anni zero, che quelli e questi sono scaduti e che è troppo tardi, anche per rimpiangere altro.

TFK

domenica, febbraio 19, 2017

RESIDENT EVIL: THE FINAL CHAPTER


The Resident Evil 6: final chapter

di Paul W. S. Anderson

Con Milla Jovovich, Ali Larter, Iain Glen 
Germania-Australia-Canada-Francia, 2017 
genere: azione
durata: 106'




A seguito degli eventi accaduti in "Resident Evil Retribution", l'umanità è ridotta ai minimi termini dopo che Alice è stata tradita da Wesker a Washington D.C. Come unica sopravvissuta del gruppo che avrebbe dovuto combattere le orde di non morti, dovrà fare ritorno nel luogo in cui l'incubo ha avuto inizio, a Raccoon City, dove la Umbrella Corporation sta radunando le sue forze per sferrare un colpo fatale agli unici superstiti dell'Apocalisse. In una lotta contro il tempo, Alice si unirà agli amici di una volta e, grazie a una nuova improbabile alleanza, si scontrerà con orde di non morti e con nuovi mostri mutanti. Fra la perdita delle sue capacità sovrumane e l'imminente attacco dell'Umbrella, Alice vivrà la sua avventura più difficile, nella lotta per salvare il genere umano, che rischia di precipitare nell'oblio.
Il modo in cui Paul W.S. Anderson aggredisce lo spettatore nelle sequenze iniziali, dopo i primi cinque minuti d'inutile riassunto delle puntate precedenti, è frutto di un montaggio iper-frenetico che riduce le inquadrature in schegge taglienti e impazzite: l'azione, in questo modo, risulta spesso incomprensibile.
Se a questo aggiungiamo la studiata pesantezza della colonna sonora che accompagna le scene e il fatto che solo lentamente, e mai del tutto, il regista abbandoni la sua caratteristica, estremizzata firma autoriale, si può capire come questo capitolo finale di una saga iniziata quindici anni fa sia rivolta principalmente agli amanti del genere.

Questo Final Chapter è assurdo, sproporzionato, infantile, talvolta ovvio.

A salvare le sorti della pellicola ha contribuito in maniera determinante Milla Jovovich, che ne è la protagonista e la colonna portante, la presenza costante e immanente.


Quando Milla, con i suoi 41 anni, fa la sua performance, quando inizia a menare come un fabbro mentre volteggia come un'acrobata del Cirque du Soleil, sfidando a mani nude o all'arma bianca creature che nemmeno si saprebbe da dove iniziare a descrivere, l'adesione al film è totale, l'incredulità non è qualcosa da sospendere, ma che non esiste nemmeno.
Alice dovrà specchiare i suoi bellissimi occhi azzurri nel buio delle sue vere origini, infilare la mano nel groviglio misterioso del suo rapporto con la Umbrella, mentre armate di non morti marciano al seguito di pazzi esaltati e altri pazzi esaltati si credono Dio alle prese col Diluvio.
Alice lo farà, è il suo destino, non potrebbe essere altrimenti. Un destino ovvio e banale come la trama del film; un destino che seguirà, fino alle estreme conseguenze, con un atteggiamento simile a quello di Frederick in Frankenstein Junior, quando dice "il destino è quel che è, non c'è scampo più per me."

Riccardo Supino 

LA FOTO DELLA SETTIMANA






















Glory di Edward Zwick (USA, 1989)

sabato, febbraio 18, 2017

FESTA DEL CINEMA DI ROMA: MANCHESTER BY THE SEA

Manchester by the Sea
di Kenneth Lonergan
con Casey Affleck,  Michelle Williams, Kyle Chandler
USA, 2016
genere, drammatico
durata, 135' 



Che il cinema sia in primo luogo una questione di immagini in movimento nessuno lo mette in dubbio; è così fin dal principio e cioè dal 1896 quando i fratelli Lumiere presentarono il loro "Arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat", accolto da sentimenti di meraviglia mista a paura per la caratteristiche di verosimiglianza causata dalla percezione che la locomotiva da un momento all'altro potesse uscire dallo schermo e investire gli spettatori. Lo conferma la produzione contemporanea sempre più attenta al rendimento degli aspetti formali e all'efficacia del comparto visuale. Un interesse, quest'ultimo, che ha fatto venir meno la centralità della funzione narrativa, quand'anche presente nelle forme più classiche, depauperata delle istanze di coerenza e di approfondimento che dovrebbero appartenergli. Ad equilibrare la partita almeno qui a Roma e perlomeno in queste prime due giornate della Festa del cinema ci pensano una manciata di titoli che si impongono per la qualità della scrittura e della direzione attoriale. "Manchester By the Sea", terzo lungometraggio di Kenneth Lonergan rispondeva ai requisiti appena detti, potendo contare su un regista sceneggiatore (il testo del film era stato scritto da Lonergan per Matt Damon a cui è a sua volta subentrato dopo la rinuncia della star americana) e su un attore - Casey Affleck - adatto al ruolo principale per averlo ricoperto più volte nel corso della carriera.



Come era già successo in "Conta su di me" (1999) Lonergan pone a premessa della storia un lutto famigliare (figurato quello del primo film, reale quello del secondo) dal quale scaturisce il ritorno a casa del protagonista che alla pari del Terry Prescott di Mark Ruffalo si ritrova con l'inadeguatezza che lo contraddistingue a a fare le veci della figura paterna nei confronti del nipote adolescente. Le analogie però finiscono qui perché se è vero che anche "Manchester by the Sea" inquadra il rapporto tra un giovane e un adulto all'interno di schemi e dinamiche familiari assimilabili a quelli che si instaurano nella relazione tra genitori e figli, in questo caso il punto focale della narrazione risiede in qualcosa di più intimo e personale che prova a scavare nel dolore di Lee Chandler (Affleck), il protagonista dilaniato da un passato che torna a perseguitarlo nel momento in cui giunto nel paese natale (Manchester by the Sea, città del New England) per far fronte all'improvvisa morte del fratello vede materializzarsi i fantasmi dei propri trascorsi.



Con l'intento di non perdersi nulla dei propri personaggi ma anzi preoccupandosi di valorizzarne il potenziale umano e drammaturgo Lonergan colloca Lee e chi gli sta attorno all'interno di un contesto ambientale e scenografico minimale che non offre altre informazioni (come il dettaglio del mare improvvisamente increspato o un cambio improvviso di luce) che non siano riferibili ad allo stato d'animo del momento; e poi ne potenzia la presenza scenica regalandogli un palcoscenico che gli consente di essere assoluti protagonisti grazie a una tecnica di ripresa che limitando ampiezza e profondità di campo e mantenendo la mdp all' altezza del soggetto scenico impedisce allo spettatore di trovare altri motivi di interesse che non siano quelli indicati dalla volontà del regista. Un processo di sottrazione che da un canto metteva l'opera al riparo dalla retorica insita nella delicatezza dei temi trattati - il dolore, la perdita, il senso di colpa - e che dall'altro rischiava di farla risultare bloccata e priva di slanci. Ad evitare questo pericolo ci pensa soprattutto il montaggio di Jennifer Lame che altera la successione degli avvenimenti considerati non più nella loro scansione cronologica ma secondo un tempo interiore e quindi emotivo corrispondente a quello di Lee/Affleck, che di "Manchester by the Sea" sono i veri e propri factotum del copione imbastito da Lonergan. Il quale memore della lezione dei vari Risi, Germi e Monicelli realizza un melodramma struggente e appassionante che pur mantenendosi costantemente sulle note della tragedia vissuta da Chandler trova modo di alleggerire la tensione con momenti di ilarità che paradossalmente - ma non troppo - rendono ancora più credibile il calvario del protagonista. Preceduto dai rumors che lo danno tra i favoriti nella corsa ai prossimi Oscar "Manchester by the Sea" per quanto ci riguarda ha già un vincitore nella persona di Casey Affleck che abbonato ai ruoli da perdente tiene lontana la routine con un interpretazione sofferta e trattenuta che lo impone ai vertici della sua categoria.
(pubblicata su ondacinema.it)