giovedì, marzo 31, 2016

LA COMUNE

La comune
di Thomas Vinterberg
con Ulrich Thomsen e Trine Dyrholm
Danimarca 2016
genere, drammatico 
durata, 111'


Quando parliamo di un film in termini autoriali  lo facciamo nella consapevolezza che le  caratteristiche dell’opera si pongono in continuità con il resto della filmografia del suo realizzatore. E questo non perché in qualche modo s’intenda sminuire l’unicità dei singola esperienza ma al contrario per apprezzare dettagli e sfumature che in mancanza dei riferimenti presenti nei lavori precedenti  rischierebbero di essere compresi in maniera parziale . Rispetto a quanto detto la carriera di Thomas Vinterberg potrebbe essere paradigmatica perché, riposte nel cassetto le velleità stilistiche del dogma di cui il nostro fu seguace della prima ora, il danese sembra non potersi staccare dai temi affrontati nel suo film d’esordio, tornando ogni volta a raccontare esistenze segnate dall’appartenenza a famiglie disfunzionali e borghesi. Un leit motiv a cui La comune, già in concorso  Berlino, aggiunge un nuovo tassello derivato – a testimonianza dell’identificazione tra opere e cineasti – dal fatto che le vicende raccontate nel lungometraggio sono la trasposizione di quelle vissute dallo stesso Vinterberg che, giovanissimo, seguì i propri genitori nell’esperienza di vita collettiva realizzata secondo i principi sessantottini.



Con i dovuti distinguo, dovuti più che altro ad alcuni accenni a un contesto storico che entra in campo con le notizie del conflitto vietnamita di cui si discute all’interno della redazione giornalistica in cui lavora uno dei protagonisti e, qua e là, da qualche affermazione che prende in prestito alcune delle idee tipiche del periodo in questione La comune potrebbe essere per Vinterberg un proseguimento delle puntate precedenti, in questo caso alleggerito nei suoi risvolti più drammatici da quello spirito del tempo – il 68 -  che in qualche modo giustificava la fluidità dei legami sentimentali. Ed è proprio la difficoltà di tener fede ai proclami di partenza nel tentativo di conciliare le ragioni del cuore e quelle degli ideali a fare da sfondo alle vicissitudini di Erick e Ana, i protagonisti della storia, la cui unione vacilla quando l’uomo si innamora della sua studentessa e, d’accordo con gli altri membri, decide di accoglierla all’interno del consesso umano. A differenza di altre volte – Festen, Il sospetto – Vinterberg, rimasto orfano di verità da scoprire e quindi di quei meccanismi da thriller esistenziale che caratterizzavano le sue narrazioni, gioca a carte scoperte, arrivando  solo nel finale ad elaborare una parvenza di senso alle vicende che abbiamo appena visto proiettandole all’interno dell’ineluttabilità dei comportamenti umani. La comune diventa quindi un confronto di caratteri e psicologie tenute insieme dalla capacità degli attori di rendere verosimile il gioco al massacro previsto dalla sceneggiatura. Debole nella caratterizzazione dei personaggi di secondo piano La comune brilla per quelle di Erick e Ana nelle quali ritroviamo due vecchie conoscenze del cinema di Vinterberg come Ulrich Thomsen e Trine Dyrholm. Quest’ultima meritatamente premiata a Berlino con l’orso d’argento per la migliore interpretazione femminile.       

mercoledì, marzo 30, 2016

USTICA

Ustica
di Renzo Martinelli
con Marco Leonardi, Caterina Murino, Tomas Arana
Italia, Belgio, 2016
genere, thriller
durata, 106'


Il grado di civiltà di un popolo si misura anche dall’importanza assegnata alla memoria delle cose passate. Ricordare chi siamo e da dove veniamo ci permette di governare il presente diminuendo il rischio di ripetere errori già fatti. La difficoltà di mettere in pratica tale proposito deriva soprattutto  dalla paura di guardarsi dentro e di scoprirsi diversi da ciò che credevamo. Una possibilità di cui è certo consapevole Renzo Martinelli, regista di film discussi e discutibili – "Vajont", "Piazza della cinque lune" -  proprio in ragione di un cinema che è sempre stato un mezzo per evocare e fare luce su alcuni degli episodi più tragici e oscuri della vita repubblicana e a cui appartiene di diritto "Ustica", il suo nuovo film ispirato agli avvenimenti che il 27 giugno 1980 provocarono la morte degli 81che viaggiavano a bordo del DC 9 della compagnia aerea Itavia inabissatosi tra le isole di Ponza e Ustica per circostanze ancora lontane dall’essere chiarite. Rispetto alle tre ipotesi che si sono avvicendate nel corso degli anni – cedimento strutturale e abbattimento causato da un missile sono le altre due -  il regista sceglie quella emersa dalle circa tremila pagine redatte da Giancarlo Priore, il giudice incaricato di occuparsi del caso.




Integrando il materiale processuale con le informazioni provenienti dalle interviste ai familiari delle vittime e le perizie degli esperti Martinelli procede in senso opposto rispetto alla tendenza con cui il cinema del reale si rivolge all’ambiente circostante. Così se è vero che molte delle opere documentarie del panorama italiano e internazionale hanno fatto propri la forma e i codici tipici del cinema di finzione, "Ustica" è il risultato di un’ibridazione di segno opposto. I protagonisti della storia per l’appunto non sono ne persone reali, messe davanti alla mdp  per assolvere alla loro funzione testimoniale ne attori sociali, chiamati a portare sullo schermo se stessi e la propria vita come per esempio accade nei film di Marcello e Minervini. Così sia il politico di Marco Leopardi, deciso a fare luce sui depistaggi operati per occultare la verità sulle cause della sciagura, che la giornalista impersonata da Caterina Murino, distrutta dal dolore per la perdita della sua bambina e per questo disposta ad unirsi all’uomo nel tentativo di identificare i colpevoli, sono prima di tutto personaggi di finzione, creati dalla penna del regista per soddisfare le esigenze drammaturgiche e di spettacolo tipiche del cinema di intrattenimento ma sono anche il mezzo utilizzato dall’autore per dare voce alle carte processuali, parafrasate nelle parole e ricostruite nelle azioni poste in essere dai protagonisti durante lo svolgersi della vicenda. 


Tenuto conto che "Ustica" è un prodotto indipendente e low budget il risultato è a dir poco stupefacente non solo perché l’esposizione dei fatti è tanto agghiacciante quanto puntuale nella dimostrazione della tesi sostenute e cioè che la tragedia di Ustica fu causata dall’impatto del DC 9 con un caccia americano impegnato ad intercettare un mig libico infiltratosi in territorio italiano. Infatti, dando per scontato che in termini di pathos il film di Martinelli non può prescindere dall’oggetto dei propri contenuti bisogna dire che "Ustica" funziona bene anche come thriller grazie a una regia che evitando di mostrare la violenza in maniera diretta utilizza il fuori campo per rielaborare sul piano artistico la mancanza di risposte rispetto alle responsabilità dell’immane tragedia. Davvero un bel traguardo per un film che nessuno voleva fare e che invece sarà da domani nelle sale italiane per impedirci di dimenticare.

martedì, marzo 29, 2016

WAX - WE ARE THE X

Wax - We Are The X
di Lorenzo Corvino
con Jacopo Maria Bicocchi, Gwendolyn Gourvenec, Davide Paganini
Italia, 2014
genere, avventura
durata, 103'

L’indefinito, vacuo sentore di non indispensabilità che permea la generazione ora a cavallo tra i trenta e i quarant'anni sembra un riflesso del senso d’impotenza che caratterizza le nuove generazioni, costrette ad entrare nel mondo della maggiore età tra precarietà lavorativa, crisi finanziarie e problematiche sentimentali. Tematiche che creano un collante tra le differenti ondate giovanilistiche, proponendo loro una scelta inevitabile tra alternative impensabili e lasciando terminare la loro corsa soggiogati alla logica del servilismo. La generazione x, la vera protagonista del bellissimo film di Corvino,  è una spaurita e sparuta minoranza che tenta di farsi largo nel marasma generale italiano, portando avanti una lotta personale e quotidiana contro ogni ostacolo che la società sembra gettargli lungo il percorso. Qualsiasi sia il proprio settore d’impiego, la generazione x è costretta a subire ricatti, sotterfugi dei propri superiori o datori, scorciatoie poco lecite che li vedrà inequivocabilmente implicati, loro malgrado. Sacrificabili nella loro totalità, vendibili come merce di scambio al peggior offerente, gli appartenenti a tale categoria si barcamenano alla costante ricerca di una stabilità irraggiungibile, un lido di pace interiore ed esteriore che sembra sempre più un’illusione, un miraggio in un desolato deserto di infelicità. Dario e Livio sono i due esponenti di tale vizio di forma societatis, un regista ed un factotum di produzione assoldati per girare uno spot di una nascente azienda automobilistica italiana per conto di una società di produzione che sembra avere, come di prassi nel cinema , il rientro economico come unico e imprescindibile scopo. Inviati a Montecarlo per i sopralluoghi incontreranno Joelle, addetta ai casting in loco, con la quale legheranno un intenso rapporto e con lei affronteranno le insidie che il lavoro sembra seminare sul loro cammino. 


Corvino alla sua prima regia in un lungo si butta a capofitto in una storia che sembra avere particolarmente a cuore, una pagina della vita sociale contemporanea in cui è stato coinvolto lui stesso, portando sullo schermo una vicenda amara ma tristemente reale.  Immerse in una luce che vivifica ed esalta i colori della Francia, le peripezie dei tre giovani si alternano ad un crescendo di consapevolezza del loro reale ruolo sia sociale che lavorativo. L’unico elemento che a tratti può sembrare debole in una struttura narrativa quanto mai efficace è la cornice, all'interno della quale sono racchiuse le storie dei ragazzi; il racconto fornito da un perentorio ex-avvocato ad un giornalista d’inchiesta italiano appare, come è giusto che sia, secondario e quasi scontato, contrariamente all'intreccio vero e proprio, avvincente pur nella sua lunga durata. Il ritmo è ben sostenuto da uno stile registico davvero interessante, originale nell'adozione di punti di vista inusuali ed armamentari tecnologici di uso domestico, e da un montaggio che riesce nell'intento di non annacquare un buono script con inutili lungaggini. L’ambientazione francofona è visivamente appagante, offre scorci naturalistici e artificiali che permettono alla fotografia di agire su di essi aumentandone l’efficacia in maniera esponenziale. 

Giocando in sede di missaggio, Corvino unisce presa diretta, suoni diegetici e colonna sonora in un serrato crescendo narrativo, giungendo al suo apice nella sequenza dell’elicottero quando il montaggio pressa lo spettatore, intimorendolo con il suono delle eliche in avvitamento e l’annichilimento di ogni altro sonoro, in maniera simile a quanto poi accadrà nel pre-finale in cui anche una indicazione luminosa d’emergenza annullerà il mondo circostante, lasciandoci soli all’interno dell’auto dei ragazzi, in balia degli avvenimenti che stanno accadendo attorno. Se Sartoretti ed Hauer sono attori ad utilità limitata nell’impianto filmico e Renzi assurge a deus ex-machina della situazione, stesso non dicasi dei tre protagonisti, calati a perfezione nei loro ruoli, pur con leggerissime sbavature, quasi impercettibili. Il rapporto che viene a formarsi tra i giovani è costantemente sotto il controllo di Dario, a sua volta manovratore della narrazione tramite i suoi astrusi metodi di ripresa, e giunge a maturazione nel finale, quando le carte vengono a scoprirsi e per il curioso trio si aprono nuove prospettive di vita. La nostalgia che attanaglia Joelle, la sua vita circense e gli amori che la tormentano fanno da sfondo ad una vicenda ricca di risvolti, importante nel suo procedere critico nell’asfittica contemporaneità, priva di intenti moraleggianti ma ammonitrice su un possibile, (s)venturo, futuro.
Alessandro Sisti

lunedì, marzo 28, 2016

AVE, CESARE

Ave, Cesare
di Joel ed Ethan Coen.
con Josh Brolin, George Clooney, Alden Ehrenreich, Scarlett Johansson, Ralph Fiennes, Channing Tatum, Tilda Swinton, Jonah Hill, Frances McDormand.
USA, 2016 
genere, commedia
durata, 105' 


Quantunque l'umana Idiozia - idiozia nei comportamenti, a ritroso nelle intenzioni e negli scopi - assieme alla confidenza assimilata con l'Immaginario Americano e col Cinema (la Storia del), siano tratti ricorrenti nel discorso della coppia di St.Louis Park (dalle parti di Minneapolis, Mn), è indubbio che, in specie la prima, sia stata al tempo con oculatezza vezzeggiata, dopodiché arginata dal guinzaglio avvertito di determinazioni concordi circa l'inevitabilità del suo imporsi, quanto persuase del valore antalgico della di lei emersione senza infingimenti, come della sistematica sottomissione della medesima al regime dello sberleffo. Più o meno da sempre, cioè, la ditta Coen sbircia il termometro della dabbenaggine sapiens e, con pazienza pari alla sagacia, annota a margine glosse in forma di referti cinico-sarcastici: all'assommarsi ominoso delle insensatezze oppone poi, comunque, somministrazioni omeopatiche di humour  freddo e sommesso disincanto.

Stavolta si torna nel cuore della Hollywood-del-cuore - quella dei musical del prediletto Busby Berkeley o, nel caso, dei marinai canterini e danzanti alla Gene Kelly; delle pellicole acquatiche con Esther Williams; dei western ingenui e delle high-society comedies - che è poi quella di "Barton Fink" e della Capitol Pictures, tutta presa - allora - a mettere in piedi un film sul wrestling da cucire addosso a Wallace Beery, e qui è quella tenuta alla stanga dal polso di Eddie Mannix/J.Brolin, scaltro risolutore-di-problemi, nix-man il cui solo intento è di far funzionare il meccanismo/il Cinema, oltre il quale - suggeriscono con la nota impassibilità i Coen - forse c'è solo, addirittura, la fine-del-mondo (occhio alla Lockheed e ai progetti di sperimentazione della Bomba H a spasso per gli atolli del Pacifico: leve teoriche e pratiche, queste - lauto stipendio e prospettiva di "non dover lavorare più dopo la pensione" inclusi - che a ripetizione tentano Mannix al fine di convincerlo a recidere il cordone che lo lega al circo delle evasioni di celluloide).


Tra l'apocalisse e la placida dittatura dell'Idiozia, ecco che si frappone il rapimento della star in mezza tunica e sandaloni Baird Whitlock/G.Clooney, fatto sparire durante la lavorazione dell'"intrattenimento per le masse ansiose di sognare" dal titolo Hail, Caesar - A story of Christ, ad opera nientepopodimeno che di un manipolo di vendicativi sceneggiatori/intellettuali sedicenti comunisti (siamo in zona pre-McCarthy, per intendersi, ennesimo crinale all'interno di un lavoro della ditta, a scongiurare, nella ciclica chimera di una metanoia impossibile e forse immeritata, il vecchio, doloroso sospetto di un altro mesto azzeramento funzionale sempre e solo ad una nuova e più feroce Idiozia), capitanati da un perplesso, non per questo meno vaniloquiente, Herbert Marcuse. In contrapposizione allo sgangherato disegno, s'adopera ancora il tetragono Mannix - barlume di pragmatismo (coeniano) in un oceano di scipita demenza - più che mai deciso a far sì che, bene o male, l'illusione sia ancora possibile nonostante tutto, eminentemente nonostante il brancolare a casaccio di una vasta torma d'inetti, di uomini-che-non-ci-sono: divi vacui e/o capricciosi (Whitlock/Clooney non trova di meglio che punzecchiarsi il sedere con la daga di scena ogni volta che i movimenti richiedono un minimo d'accortezza; DeeAnna Moran/Johansson litiga col suo "culo di pesce" che le comprime, nelle fogge plastiche della sirena in eterno ammollo, le incipienti morbidezze di una maternità casuale); maneggioni annoiati (Joe Silverman/Hill sbarca il lunario, blindato in un'ebetudine tutta sua che gli risulterà paradossalmente fruttuosa, garantendo per le scempiaggini commesse dai nomi di cartellone); eroi proprio malgrado (l'inghippo viene fiutato - non a caso, in modo quasi incidentale - dal cowboy ritardato Hobie Doyle/Ehrenreich, incapace d'intonare una battuta che è una ma pronto a seguire la più evidente delle tracce); pensatori frustrati e ipocriti (ossessionati dal demone del Capitale al punto di giocarselo in maniera grottesca e, giustamente, umiliante); giornalisti astiosi, queruli e... doppi (a dire che la stampa, come la giri, quella è: non un granché): tutti con lo stesso stupore prossimo ad un nirvana cretino stampato su visi nove volte su dieci assorti o increduli, specchi sbilenchi della grinta di Eddie the fixer, il cui sguardo, al contrario strizzato e diffidente, soppesa e distanzia come può l'universale Idiozia.

Tra giochi grafici e quinte fasulle, campi/controcampi scientemente didascalici, inquadrature strette ad isolare, evocativa attenzione agli oggetti e ai congegni, la luce soffice ma nitida di Deakins a palesare/camuffare la finzione di un'onnicomprensiva messinscena atta a dissimulare, nel migliore dei casi, l'inutilità di qualunque agitazione che voglia proporsi come rimedio ad una realtà vuota perché, di fondo, non tragica ma caricaturale, "Ave, Cesare" si propone all'occhio in una nudità quasi inerme - il film si apre e si chiude con una confessione - mostrando di sé oltre all'ordito (le singole figure, i loro atteggiamenti manierati, il frasario stereotipato, l'annaspare nella futilità persino con fatica), la trama, ossia quello sfondo imponderabile e con ogni probabilità insensato (l'esistenza ? La sua allucinazione ?) su cui stagnano le miserie di un umano mediocre e vile, sconfitto in partenza causa tare ineliminabili quanto - spesso - compiaciute, impossibilitato a migliorare e a trovar tregua se non nella ripicca senza scopo del Cinema, ingranaggio pretestuoso ma ludico, scherzo costruito allo scopo di non andare mai a vedere come-va-a-finire, perché lo si sa già e non vale la pena. Continuare, allora. Differire, procrastinare. A qualunque costo (la montatrice interpretata da F.McDormand rischia di strangolarsi alla consolle per mantenere in vita il girato), secondo lo schema di Mannix per cui "la gente non vuole i fatti, vuole credere". E per indurre a credere, vale tutto. Anche protrettici sganassoni. AveCinema, dunque. Morituri te salutant.
TFK

domenica, marzo 27, 2016

sabato, marzo 26, 2016

LAND OF MINE - SOTTO LA SABBIA

Land of Mine - Sotto la sabbia
di Martin Zandvliet
con Roland Møller, Mikkel Boe Følsgaard, Laura Bro
Danimarca-Germania, 2015
genere: Guerra
durata: 101'

Danimarca, 1945. La lotta per la sopravvivenza sembra ormai non conoscere limiti, consumandosi lenta e inesorabile. L'incubo della guerra ancora vivo negli occhi dei sopravvissuti giustifica una distorsione del concetto di giustizia nelle vittime del Nazismo. Sono questi gli ingredienti della tragedia che ha risucchiato la Danimarca e il mondo nel vortice nero della seconda guerra mondiale e delle sue conseguenze. Una parabola umana in cui vittime e carnefici si confondono R che racconta come la disperazione generi uomini bestiali.
Nei giorni che seguirono la resa della Germania alla fine della seconda guerra mondiale, gli alleati deportarono migliaia di soldati tedeschi con l'onere di sacrificarsi per riparare al danno inferto al mondo dal regime nazista. Molti di quei soldati non erano addestrati, ragazzi costretti a percorrere in lungo e in largo le coste occidentali danesi per disinnescare più di due milioni di mine; quelle che l'esercito di Hitler aveva posizionato in previsione di un ipotetico sbarco degli alleati. Una storia poco conosciuta, che Martin Zandvliet sceglie di raccontare dal punto di vista di quattordici giovani costretti a muoversi carponi su spiagge assolate, affidando la vita alla capacità di un bastoncino di scendere quanto più possibile nelle profondità della sabbia umida, con il sangue freddo di esperti artificieri.
Disposti a sacrificarsi l'uno per l'altro, ma anche spaventati e pronti a scappare quando il primo compagno resta mutilato da una deflagrazione, i ragazzi appaiono in tutta la loro fragilità di fronte alla brutalità della guerra. È disumano il freddo comportamento con cui il sergente danese Rasmussen fa marciare la sua squadra sulle dune ogni giorno. La tirannia, universale per definizione, ha le stesse regole ovunque: manca di morale ed evita la riflessione sul peccato, trovando, a seconda dei casi e degli individui, una sua propria, seppur sempre differente, legittimazione. Così uomini in divisa costringono altri uomini in divisa alla paura, al terrore e alla negazione di se stessi, stando ben attenti ad evitare il confronto, sfruttando come unico contatto quello visivo, per sottolineare la sudditanza del prigioniero.

Il film percorre le tappe di una storia carica di tensione emotiva, che costringe lo spettatore a trattenere il fiato difronte ai primissimi piani di un esercito di bombe pronte ad esplodere. I volti puliti dei giovani prigionieri simboleggiano un intero popolo che, dopo aver messo l'Europa a ferro e fuoco, è stato costretto a richiamare alla leva ragazzini di tredici anni. Ci sono tutti i tipi umani: Vediamo Sebastian, perfetto leader, il cinico insofferente Helmut o i dolcissimi gemelli Ernst e Werner strappati ai sogni infantili per riscoprirsi affamati e impauriti in un mondo che desidera solo vederli morire.
La fotografia di un'ambientazione incantevole stride con i caratteri infernali di cui è imperniata la vicenda, in cui l'aridità degli animi si contrappone ai panorami mozzafiato di un deserto in riva al mare. Lo spettatore è in balìa di una narrazione ben costruita che genera una tensione costante, con una regia che predilige, il più delle volte, l'omissione alle immagini esplicite. La scelta di silenzi carichi d'intensità rafforza l'efficacia delle lunghe sequenze del film, con le musiche a fare 
da contrappunto con brevi sonorità. 

Ne risulta un'immagine di desolazione e impotenza, addolcita solo dal sergente Rasmussen, che riporta tutto ad un senso di rettitudine ammirevole grazie a una rinnovata empatia con i ragazzi. Il bagliore alla fine del tunnel, il confine con la Germania a poche centinaia di metri, risulterà però pretenzioso e un po' poco credibile laddove il cambio di tendenza sentimentale del capitano per i suoi prigionieri è un pretesto debole per il disgelo totale delle relazioni che conducono alla liberazione. Per un film che è riuscito a mantenere una linea lucida e realistica, il rischio era quello di scadere nella retorica, ma Zandvliet riesce a sublimare l'importanza degli sguardi dei ragazzi scomparsi a scapito delle parole dei superstiti, relegando la salvezza solo a un'anomalia.
Riccardo Supino

giovedì, marzo 24, 2016

BATMAN VS SUPERMAN: DAWN OF JUSTICE

Batman vs Superman:  Dawn of Justice
di Zack Snyder
con Ben Affleck, Henry Cavill, Jeremy Irons
USA, 2016
genere, azione, avventura, fantastico, drammatico, fantascienza
durata, 151'



All’inizio fu solo polemica. A scatenarla l’idea di assegnare la parte di Batman a Ben Affleck al quale gli Oscar di "Argo" non erano bastati per cancellare il ricordo di Devil, preso di mira per la scarsa predisposizione al ruolo da parte dell’attore americano. A distanza di tempo e dopo aver visto "Batman vs Superman Dawn of Justice" i fatti sembrano aver dato ragione ai produttori perché, favorito dall’espressività marmorea di Bruce Wayne e aiutato dall’aspetto leggermente attempato del personaggio che gli permette di rinnovare il proprio look, Affleck si dimostra a conti fatti all’altezza del compito. Ancor più in considerazione che, rivelandosi come l’ennesimo tripudio di computer graphic e sound design "Batman vs Superman" alla pari dei suoi colleghi è condizionato poco o niente dalle capacità del suo cast, come dimostra lo scarso peso di Amy Adams, prima della classe a cui nell’impersonare Lois Lane non serve nemmeno una briciola del proprio talento. Ma questa è un’altra storia i cui discorsi ci porterebbero lontano da quella filmata dalla cinepresa di Zack Snyder, per caso ma non troppo impegnato a dare credito a una vicenda che, tra le altre cose, arriva a macchiarsi di lesa maestà, mettendo alla sbarra niente di meno che  Superman, chiamato a difendersi dall’accusa di agire per tornaconto personale. 


Tenendo conto che da Watchmen – diretto dallo stesso Snyder - in avanti gli eroi non sono più così intoccabili e che, anche quando non muoiono hanno comunque il loro bel da fare a mantenersi lindi e pinti – Deadpool e Jeeg Robot docent – "Batman vs Superman" si distingue sotto il profilo narrativo per adottare la modalità del crossover, termine preso in prestito dai fumetti per segnalare l’incrocio tra personaggi appartenenti a testate diverse ed eccezionalmente coinvolti nella medesima avventura. Giustificata dall’operato del cattivo di turno– Lex Luthor incarnato da Jesse Eisenberg ancora una volta alle prese con una personalità sociopatica -  la contemporanea presenza di Batman e Superman coadiuvati da una new entry come Wonder Woman in realtà rappresenta una dichiarazione di guerra allo strapotere della Marvel che la Warner Bros  ha deciso di giocare alla pari con gli avversari sia in termini di impegni finanziari che di tipologia produttiva, con una una serie di progetti, primo fra tutti The Justice League, vero e proprio clone dei più famosi Avengers già in fase di realizzazione. 

In attesa che la sfida prenda quota Snyder si mette sulla scia di Nolan, prendendo in prestito le estetiche e la magniloquenza della trilogia dedicata all’uomo pipistrello per dare vita a un film magniloquente e cupo che estremizza i comportamenti di buoni e cattivi per dare vita a una palingenesi finale che al cinema non si era mai vista e di cui non anticipiamo nulla per non togliere allo spettatore il gusto della sorpresa. Per arrivarci il film si serve di un plot complicatissimo e, nella seconda parte, di un flusso ininterrotto d’immagini ad alto tasso sensoriale. Uno schema risaputo che non dispiacerà a più giovani e che invece rischia di deludere tutti gli altri.

mercoledì, marzo 23, 2016

LA MACCHINAZIONE

La macchinazione
di David Grieco
Massimo Ranieri, Libero de Rienzo, Roberto Citran, Matteo Taranto
Italia, 2016
genere, drammatico, thriller, biografico
durata, 100'


Ci sono titoli di film più efficaci di altri. Quello utilizzato da David Grieco per tornare a parlare dei misteri che si celano dietro l’omicidio di Pier Paolo Pasolini appartiene di diritto a questa   categoria. Sul piano commerciale il richiamo al complotto che armò le mani dei carnefici ha infatti il pregio di chiarire le caratteristiche di un’offerta che nel ricostruire secondo il punto di vista del regista gli ultimi giorni dell’intellettuale friulano si presenta nelle vesti di una vero e proprio thriller, accumulando i pezzi del suo mosaico con il ritmo e la tensione tipici di un percorso esistenziale – quello di Pasolini – sospeso tra la vita e la morte. Su quello dei contenuti invece "La macchinazione"  attraverso il  sostantivo in questione  sintetizza come meglio non si potrebbe la coincidenza tra l'argomento del libro – Petrolio - di cui come vediamo nel corso del film Pasolini si stava occupando prima di morire e che appunto riguardava la scoperta delle manovre ordite a discapito del paese da parte di un sistema di potere occulto e colluso e, in senso opposto, la reazione delle persone che si sentivano minacciati da quelle rivelazioni, culminata per l'appunto nel piano organizzato per uccidere Pasolini facendone ricadere la colpa su Pino Pelosi, la cui colpevolezza è definitivamente smontata dai fatti messi in scena nel film. 


Sulla complessità di una ricognizione intorno alla figura di Pasolini è inutile dire. A testimoniarlo basterebbe la circospezione con cui il cinema si è preso cura di rimuovere gli aspetti legati al pensiero e alla creatività dell’artista, appena lambiti da resoconti interessati più che altro ad approfondirne i dettagli scandalosi e cronachisti del privato, quelli che nell’affermazione della sua libertà d’uomo e d'artista gli costarono la vita. Oltre a questo il film di Grieco doveva mettere in conto il rischio di arrivare fuori tempo massimo rispetto alla rappresentazione di un periodo storico – a cavallo tra i sessanta e i settanta -  diventato nel corso degli anni uno dei paesaggi privilegiati dal filone del crime movie nostrano. 


"La macchinazione" risponde a queste sollecitazioni nel segno di un’eccezionalità che investe non solo la materia investigativa, mai come questa volta così precisa nel fare nomi e cognomi della rete cospirativa che fu coinvolta nell’uccisione di Pasolini ma anche nelle diverse componenti della messinscena che si avvale tra l’altro dell’interpretazione mimetica di Massimo Ranieri volutamente tradita dalla decisione  di continuare a parlare con il proprio timbro linguistico e non con quello  proprio delle zone del nord est italico e di una colonna sonora firmata dai mitici Pink Floyd presenti tra l’altro con la celeberrima Atom Heart già negata allo Stanley Kubrick di  "Arancia Meccanica" e qui essenziale nel restituire con la sue acide sonorità il viaggio all’inferno del protagonista.  L’opzione  divulgativa operata sulla materia narrativa sacrifica qualcosa alla profondità dei caratteri e degli ambienti ma alla lunga la passione con cui Grieco si rivolge al suo personaggio, ritratto in maniera più dolorosa che vitale a testimonianza della consapevolezza che Pasolini nutriva rispetto agli orizzonti della propria esistenza, e finanche la qualità delle singole interpretazioni  tra cui oltre a quella di Ranieri vale la pena di ricordare la straordinaria performance di Matteo Taranto nel ruolo del ferino e malavitoso Sergio, riescono a colmare le mancanze di un film importante e necessario.

martedì, marzo 22, 2016

10 FESTIVAL DI ROMA - TRUTH

Truth
di James Vanderbilt
con Robert Redford, Cate Blanchett, Dennis McQuaid
Usa. 2015
genere, biografico, drammatico
durata, 125'



A differenza di altri Paesi, in quelli di matrice anglosassone l'egida morale è ancora qualcosa che attiene al giornalismo. Una dimensione etica che appartiene tanto alla versione dei fatti quanto alla loro pubblicazione; senza dimenticarsi del principio di tutto e quindi della notizia stessa che, per essere tale, deve nascere e svilupparsi in un contesto di indispensabile verità. Ed è proprio all'interno di questi pilastri dell'informazione che si muove la storia di "Truth", il film di James Vanderbilt che ha inaugurato la decima edizione della Festa del cinema di Roma con il racconto della vicenda di Mary Mapes e Dan Rather, rispettivamente produttrice e anchorman di 60 minutes, il programma d'inchiesta giornalistica della CBSche, alla vigilia delle elezioni del 2004 denunciò gli illeciti di cui si sarebbe reso colpevole il presidente in carica George Bush quando, durante la guerra del Vietnam evitò il fronte, riparando nelle fila della Guardia Nazionale. Il clamore dello scoop non dipendeva dalla gravità dei contenuti ma piuttosto dal tempismo della sua uscita, che rischiava di vanificare il vantaggio con il quale Bush aveva fin li distanziato il rivale John Kerry, messo in crisi dalle voci che ne avevano messo in discussione il valore militare tributatogli per le missioni in terra vietnamita.



Ma la particolarità di "Truth" non è quella di presentare l'indagine compiuta dalla Mapes e dalla squadra di giornalisti che diedero corpo alle prove di quell' accusa. O per dirla meglio, non solo. Perché il film di Vanderbilt è in parte anche questo, quando, durante il primo inserto di film ci mostra alla maniera di un classico come "Tutti gli uomini del presidente" le varie fasi dell'investigazione, filmate con il susseguirsi di alti e bassi che almeno al cinema, rendono il mestiere di giornalista uno dei più pericolosi e stressanti che si conoscano. A fare la differenza invece, è la scelta da parte della sceneggiatura di occuparsi delle conseguenze scaturite dagli effetti della trasmissione televisiva, quando la veridicità dei documenti forniti dalla Mapes per comprovare la sua tesi fu sconfessata da una serie di perizie che al contrario e in maniera definitiva ne accertarono l'improbabilità. Lasciando agli storici l'ultima parola sull'esistenza o meno dei presunti favoritismi di cui Bush avrebbe goduto, quello che interessa a "Truth" è di entrare nel cuore della questione di cui accennavamo all'inizio, mostrando attraverso il dramma dei due protagonisti quanto sia alto il prezzo da pagare per mantenere fede ai principi della deontologia professionale. Per mostrarlo nella sua brutale evidenza il regista ribalta le posizioni di partenza, mettendo i buoni sul banco degli imputati e facendo dei rappresentanti dello schieramento opposto - presenti nella commissione interna convocata dalla CBS per vagliare l'operato dei propri sottoposti e formata da elementi di fede repubblicana - gli arbitri della loro destino lavorativo.




Il cambio di direzione produce uno scarto anche in termini cinematografici, con lo stile da reporterd'assalto messo in mostra nel primo arco di film, progressivamente assorbito da un andamento più meditato, in cui "Truth" attraverso il tormento e la disillusione dei suoi personaggi riflette sul senso di un mestiere che mette in gioco i valori dell'individuo ma anche sui limiti stessi della democrazia americana. Con molto pragmatismo l'esordiente Vanderbilt confeziona un prodotto che non si prende alcun rischio ne in termini di scrittura, organizzata su una solida applicazione degli stilemi di genere, ne in termini di recitazione, assicurata dal raffinato manierismo di due attori come Cate Blanchet e Robert Redford, impegnati a rifare se stessi e i ruoli che li hanno resi famosi. Ciononostante rispetto alla prima veneziana quella di Roma è un esordio ben più felice.
(pubblicata su ondacinema.it)

lunedì, marzo 21, 2016

THE LESSON - SCUOLA DI VITA

The lesson - scuola di vita
di Kristina Grozeva, Petar Valchanov
con Margita Gosheva, Ivan Barnev, Ivanka Bratoeva
Grecia, Bulgaria, 2014
genere, drammatico 
durata, 105'


Nadyezdhna insegna inglese in una scuola di provincia bulgara. Più delle regole grammaticali le preme trasmettere quelle di convivenza onesta e civile: per questo decide di  non lasciare impunito il caso di un furtarello avvenuto tra i banchi della sua classe. Mentre s'ingegna per offrire più di una chance al colpevole di redimersi, scopre che il marito non ha pagato il debito contratto con la banca e che le rimangono soltanto tre giorni di tempo per evitare che la casa in cui vive con l'uomo e con la figlia finisca all'asta. Inizia per Nade un periodo in cui si susseguono abusi di potere,  sfortuna e scelte sbagliate, in un crescendo che pare non avere fine.
Ed è proprio questa lezione, che la protagonista vorrebbe dare al piccolo ladro e che il destino recapita invece a lei stessa, nel più beffardo e inevitabile dei modi, che copre il tempo del film e tiene in sospeso fino a pochi minuti dal termine.

Esordio di Kristina Grozeva e Petar Valchanov, "The Lesson" trae ispirazione da un fatto di cronaca e racconta, con la logica del pedinamento, la trasformazione di una donna. L'esito sa di grande sconfitta così come di piccola rivoluzione, ma è evidente che agli autori non interessa dare un giudizio di merito, quanto piuttosto segnalare le trappole istituzionali e le angherie umane di cui è disseminato il percorso; la miglior qualità del film sta indubbiamente nella scrittura: nella capacità di organizzare un ottimo sviluppo narrativo con una successione costante di elementi che arricchiscono la trama, e nella sintesi allegorica con cui racchiude in un'immagine, anziché affidarsi al dialogo, la condizione di prigionia e al tempo stesso di estrema determinazione della protagonista (che sia l'immagine più banale dell'insetto incastrato tra la finestra e la tenda, o quella più eloquente della valutazione dei compiti).

L'interpretazione di Margita Gosheva, che lascia trasparire appena la violenza della disperazione, facendo, invece, chiaramente emergere la rigidità esteriore del suo personaggio, così come la scelta di regia di inquadrarla spesso a confronto con il ritratto della madre e di un passato idealizzato, chiudono il cerchio, contribuendo ad arricchire di colori un film essenziale, amaramente impietoso, mai superficiale.
Riccardo Supino

domenica, marzo 20, 2016

sabato, marzo 19, 2016

FRANKENSTEIN

Frankenstein
di Bernard Rose
con Xavier Samuel, Danny Huston, Carrie-Anne Moss
USA, 2015
genere, drammatico
durata, 89'


Nella storia dell’uomo il tentativo di superare i limiti della propria condizione si è spesso trasformata in una lotta di pulsioni convergenti e opposte, in cui vita e morte si sono scambiate vicendevolmente il ruolo del vincitore. Di questo dualismo il personaggio di Frankenstein, creato dal calamaio dell’inglese Mary Shelley, ne è senza dubbio uno dei portati più conosciuti e celebrati per le molteplici trasposizioni cinematografiche e, più in generale, per l’influenza che ha avuto sulle arti e nelle lettere il mito di una scienza capace di invertire e controllare il naturale corso delle cose umane. Quanto mai attuale, per le discussioni generate dall’applicazione delle ultime scoperte in materia di genetica, l’utopia dell’uomo che si fa Dio ritorna in tutte le sue nefaste conseguenze nel Frankenstein scritto e diretto da Bernard Rose, noto ai più per aver firmato un horrorCandyman – di buon successo ed oggi sugli schermi con l’ennesima versione dei fatti a proposito del Dottor Frankenstein e della sua abominevole creatura.



Adottando il punto di vista del mostro invece di quello dell’ambizioso scienziato Rose cambia lo sguardo della storia ma non il suo svolgimento che, seguendo il canovaccio originale arriva alla fine assicurando ognuno dei personaggi al destino già scritto. Ora, tenendo conto che la validità di un simile progetto dipendeva non tanto dall’ortodossia filologica nei confronti del testo della Shelley ma, al contrario, dalla capacità del regista di trasgredirlo con un’efficacia in grado di giustificare l’urgenza dell’operazione, bisogna dire che ne l’ambientazione contemporanea e pauperista fornita dalla Los Angeles dei nostri giorni, ne l’aspetto da angelo caduto derivato dalla scelta di riservare al protagonista un’estetica raffinata ed efebica e la coscienza di un bambino appena nato riescono a farlo. Se a questo aggiungiamo l’incongruenza della voce fuori campo – dello stesso Frankenstein adulto e consapevole -  che commenta fatti ai quali non è sopravvissuto il dado è tratto così come il giudizio sul film non certo positivo.

venerdì, marzo 18, 2016

LA CORTE

La corte
di Christian Vincent
con Fabrice Luchini, Sidse Babett Knudsen, Miss Ming, Berenice Sand 
Francia, 2015
genere, drammatico
durata, 98'


Scorrendo la carriera cinematografica di Fabrice Luchini e prendendo in esame la personalità dei personaggi portati sullo schermo dall’attore francese si fatica a ricordare una tipologia umana diversa da quella appartenente a Michele Racine, il presidente della corte d’assise che impariamo a conoscere nel corso degli avvenimenti che scandiscono il nuovo lungometraggio di Christian Vincent, "La corte", di cui Luchini è assoluto protagonista. Imperniato sulle sedute del processo a un presunto infanticida il film racconta il quotidiano dell'uomo, diviso tra le procedure dibattimentali all’interno dell’aula e le serate trascorse nella camera d’albergo in cui si è trasferito dopo la separazione dalla moglie. Uno scarto, quello tra pubblico e privato, che ben presto diventa lo specchio di una duplicità caratteriale evidenziata dalla straordinaria padronanza con cui Racine presiede le attività legate al suo incarico, alle quale il regista oppone in una sorte di contrappasso l’inadeguatezza esistenziale dello stesso, meschino e impacciato quando si tratta di dare corso alla normalità più prosaica dell'esistenza.



Detto che come spesso ai tipi umani incarnati da Luchini anche questo è destinato a risolvere le proprie idiosincrasie grazie all’intervento provvidenziale di una figura femminile che La corte gli serve su un piatto d’argento, essendo la donna in qustione uno dei membri della giuria del processo a cui Racine è stato assegnato, il film di Vincent si serve della maschera attoriale del suo interprete per rappresentare una commedia umana di miserie e nobiltà a cui oltre al protagonista partecipano in diversa misura imputati e testimoni chiamati a raccontare la propria fetta di verità nel corso delle varie udienze. In questo modo il film oltre ad essere l’indagine su un cittadino al di sotto di ogni sospetto, tanto è conclamata la disistima che di Racine hanno conoscenti e colleghi, diventa anche il ritratto di un microcosmo che alla maniera di Simenon il regista racconta facendo risalire le ragioni del delitto all’analisi psicologica e sociale dell’ambiente in cui si è verificato. E se la riproduzione del consesso umano è ricco di sfumature e da modo alla storia di ampliare gli orizzonti del suo sguardo è anche vero che gli inserti processuali faticano a inserirsi con altrettanta armonia nel flusso narrativo che, per questo motivo, risulta a tratti un po’ macchinoso. Presentato nel concorso ufficiale della 72 edizione del festival di Venezia"La corte" ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura andata allo stesso Vincent e quello per il miglior attore, meritatamente assegnata a Luchini.

giovedì, marzo 17, 2016

BROOKLYN

Brooklyn
di James Crowley
con Saoirse Ronan, Emory Cohen, Domnhall Gleason, Jim Broadbent
USA, 2015
genere, drammatico
durata, 113


Nell’ultimo lavoro del regista Todd Haynes interpretato da Cate Blanchett e Rooney Mara c’è una scena che gli spettatori più attenti non possono aver dimenticato tanto è la sua importanza all’interno del film. Come avrete capito stiamo parlando di "Carol" e la sequenza a cui ci riferiamo è quella all’interno del grande magazzino che fa da sfondo al primo incontro tra le due protagoniste. Oltre a fornire il movente per il più classico dei colpi di fulmine la scelta dell’ambiente lavorativo permette al regista di tracciare un quadro abbastanza preciso della dimensione emotiva che si respirerà nel corso del film, caratterizzato da rapporti umani freddi e distaccati, sul tipo di quelli adoperati dal capo reparto nei confronti del personaggio interpretato dalla Mara e più in generale del mondo circostante rispetto alla relazione intessuta dalle due donne. Sebbene meno acclamato – anche se per la parte della protagonista  Saoirse Ronan è stata in lizza per l’Oscar come migliore attrice – "Brooklyn" del regista irlandese John Crowley oltre a condividere con "Carol"  le medesime coordinate spazio temporali – in entrambi i casi la storia è collocata nella New York del 1952 – ci introduce alla storia che stiamo per vedere con un passaggio del medesimo tenore di quello sopra descritto, con il personaggio femminile dietro il bancone delle vendite intenta a soddisfare le richieste delle clienti. Ancora una volta a definire il cuore della storia viene in aiuto un dettaglio certamente secondario ma non meno importante a fini della comprensione.


Succede infatti che a fronte delle difficoltà della giovane Eilis appena immigrata dall’Irlanda e alle prese con le nostalgia del luogo natio il film di Crowley risponda con una serie di figure secondarie – a cominciare con i datori di lavoro e continuando con affittuaria e coinquiline – pronte a fornire sostegno e consolazione alle ansie della ragazza. Uno scarto emotivo rispetto al modello offerto da Haynes a partire dal  quale Brooklyn costruisce una drammaturgia in cui  i dolori della giovane Eilis così come l’irrequietezza sentimentale che la porterà a mettere in discussione l’amore nei confronti di Tony vengono stemperati da una visione dell’esistenza speranzosa e positiva. Senza alcuna pretesa di ricostruzione epocale – peraltro impossibile per un produzione low budget come quella di "Brookyn"  -  Crowley orienta la mdp sui volti dei protagonisti lasciando allo sguardo degli attori il compito di far rivivere un tempo che non c’è più. In questo senso il biancore virginale del viso della Roonan riassume come meglio non si potrebbe l’innocenza e l'ingenuità che fanno da sfondo ai sentimenti raccontati nel film.