martedì, gennaio 30, 2018

MADE IN ITALY

Made in Italy
di Luciano Ligabue
con Stefano Accorsi, Kasia Smutniak, Fausto Maria Sciarappa, Alessia Giuliani
Italia, 2017
genere, drammatico
durata, 104'



Parlando di un film italiano o straniero, non succede quasi mai di incontrare un regista versatile ed eclettico come Luciano Ligabue. Consultando un ipotetico archivio oltre al nome di Franco Battiato, musicista che al pari di Ligabue si è cimentato un alcune prove di regia, peraltro accolte con favore da pubblico più colto e cinefilo, non risultano agli atti esempi altrettanto eclatanti. Se, poi, aggiungiamo che il nostro ha pubblicato a varie riprese racconti, romanzi e pure poesie, inducendo i milioni di fan a seguirlo con il medesimo entusiasmo in ognuna di queste prove, si capisce quale fosse l'attesa per l'uscita del suo terzo lungometraggio. Se si esclude "Ligabue Campovolo", testimonianza filmata del concerto tenuto dal rocker di Correggio all'aeroporto di Reggio Emilia del 2011 in cui Ligabue figurava assoluto protagonista davanti e non dietro la macchina da presa, era dal 2002 ("Da zero a dieci") che Ligabue non dirigeva un nuovo lungometraggio. Un'assenza che "Made in Italy" dà la sensazione di voler colmare con una voglia di esserci presente in ogni fotogramma, e che viene testimoniata a partire dalla locandina, in cui il bacio nuziale dei protagonisti Riko (Stefano Accorsi) e Sara (Kasia Smutniak) si sposa con un tripudio di un'umanità che fatica a contenere il proprio entusiasmo. Tutto questo, nonostante Ligabue - pur sullo sfondo di una fiducia che non viene meno anche nei momenti più drammatici della vicenda - continui comunque a esplorare (come aveva già fatto in "Radio Freccia") sentimenti e stati d'animo che si confrontano con il male di vivere nella consapevolezza di quanto sia faticoso mantenersi coerenti di fronte alle contraddizioni del mondo. Come sanno bene Riko e Sara, coppia quarantenne con adolescente a carico, colta nel pieno dell'empasse matrimoniale, quello in cui i tradimenti (di lui) e le stanchezza (di lei) gli fanno considerare se è il caso di mollare tutto e ricominciare da qualche altra parte. Ed è è proprio il dove, inteso sia nell'accezione esistenziale di luogo in cui vivere, sia in quella legata al concetto di paesaggio, preso in esame soprattutto dal punto di vista estetico e culturale, ad avere una ruolo importante nell'economia della storia. 



Nella sua natura derivativa (ricordiamo che il film nasce come estensione dell'omonimo album pubblicato alla fine del 2016) "Made in Italy" presentava due incognite: la prima gli veniva dal dover conciliare il formato musicale con quello cinematografico, il secondo dalla necessità di far coesistere - sul piano narrativo - due tipi di innamoramento. Quello interno al film, relativo alla storia tra Riko e Sara e l'altro, frutto dello sguardo con cui il regista si rivolge ai personaggi. A questo proposito non tutto risulta utile alla causa. Non certo la cornice del filmino girato dal figlio di Riko che, inserendosi di tanto in tanto come spazio di riflessione e commento al corso delle vicende, sembra più che altro il pretesto per giustificare la presenza di immagini che altrimenti faticherebbero a conciliarsi con il resto del tessuto narrativo. Altrettanto debole è l'andamento della narrazione, organizzata su una struttura che appare suddivisa in tanti episodi quanti sono i brani che compongono il disco in questione, e perciò a mal partito quando si tratta di evitare che il passaggio da un capitolo all'altro sia più meccanico che spontaneo. Cosa che al contrario non succede all'interno delle singole sezioni, in cui, oltre alla consueta energia fornita dal sound di Ligabue, a far la parte del leone sono l'alchimia e la bravura della coppia formata da Accorsi e Smutniak, così come le performance di coloro che sono chiamati a fargli da spalla, come Fausto Maria Sciarappa e Alessia Giuliani, impeccabili nei ruoli degli amici di turno. Di Ligabue stupisce la capacità di parlare al proprio pubblico indipendentemente dallo strumento utilizzato e senza perdere nulla di ciò che da sempre lo ha reso popolare presso milioni di italiani. Da non sottovalutare come molti sono tentati di fare.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

lunedì, gennaio 29, 2018

L'UOMO SUL TRENO

L'uomo sul treno
di Jaume Collet Serra
con Liam Neeson, Vera Farmiga, Patrick Wilson
USA, 2018
genere, thriller, drammatico
durata, 104'


Tra i film di genere quelli basati sul funzionamento del meccanismo che tiene insieme le singole parti sono tra i più difficili da realizzare. A renderli vincenti non sono gli attori, solitamente scelti per motivi funzionali alla storia ne la trama, prevedibile e scheletrica, ma piuttosto la capacità del regista di saper padroneggiare il dispositivo che ha in mano. “L’uomo sul treno - The Commuter” dello spagnolo Jaume Collet - Serra appare in sintonia con le premesse di cui abbiamo appena scritto. L’intreccio, per esempio, è esemplare nella sua intellegibilità: l’uomo del titolo è Michael MacCauley (Liam Neeson) pendolare come tanti altri costretto dalle circostanze e, soprattutto dalla minaccia di vedere uccisi i propri famigliari, a eliminare il testimone di un omicidio che sta viaggiando sulla sua stessa tratta. A complicare il compito di MacCauley non è solo il fatto di non conoscere l’identità del ricercato ma anche la brevità del tempo messogli a disposizione per risolvere il caso. Dal punto di vista cinematografico, l’indagine che ne consegue porta il film a un cortocircuito spazio temporale che, da una parte,  vede l’ambiente angusto dei vagoni e la calca della folla trasformarsi per  MacCauley in una sorta di montagna da scalare, dall’altra, rappresenta la velocità del treno e il suo frenetico incedere nel conto alla rovescia che separa il protagonista dalla fine della corsa. 

Come Duncan Jones in “Source Code” , anche Collet mette in circolo la lezione di Alfred Hitchcock, nascondendo il nemico e lasciando che il pericolo si trasfiguri nelle manifestazioni più prosaiche del quotidiano, trasformando ogni gesto in una potenziale minaccia.  Liam Neeson, al suo terzo film con Collet, replica il ruolo del salvatore da ultimo minuto, contribuendo con la sua normalità  a rendere verosimili situazioni che in realtà non lo sono. Il resto lo fanno adrenalina e tensione che “L’uomo sul treno” dispensa a piene mani.
Carlo Cerofolini

domenica, gennaio 28, 2018

UN SACCHETTO DI BIGLIE

Un sacchetto di biglie
di Christian Duguay
con Dorian Le Clech, Batyste Fleurial, Patrick Bruel
Francia, 2017
genere: drammatico 
durata, 110’
       

A Parigi Joseph e Maurice Joffo sono due fratelli ebrei che, bambini, vivono nella Francia occupata dai nazisti. Un giorno il padre dice loro che debbono iniziare un lungo viaggio attraverso la Francia per sfuggire alla cattura. Non dovranno mai ammettere di essere ebrei.
Nel panorama della memorialistica dedicata alla Seconda guerra mondiale e alla Shoah, uno spazio particolare lo occupa un romanzo autobiografico del 1973 in cui l’autore, Joseph Joffo, raccontò la sua esperienza personale di ragazzino in fuga, insieme al fratello e separatamente dal resto della famiglia, dalla Parigi occupata alla zona libera del sud, guidata dal maresciallo Petain. La particolarità risiede nell'essere considerato anche un classico per ragazzi, con lo slancio di un romanzo d’avventura, con tanto di tappe da superare e ostacoli rappresentati dagli orchi nazisti, affrontati con grande ingegno e coraggio da due ragazzi, per poter finalmente ristabilire lo status quo: tornare a vivere insieme ai genitori e ai fratelli più grandi, vivendo sopra il negozio di barbiere che il capo famiglia gestisce con professionalità e spirito di accoglienza.
Evidente è la motivazione che hanno portato alla realizzazione di questo film: la voglia di mantenere vivo il ricordo delle persecuzioni alle quale furono sottoposti gli ebrei europei in quegli anni. L’etica, sicuramente, è la principale valenza da riconoscere avvicinandosi a questo film, che però, rispetto a progetti simili, propone un materiale di partenza avventuroso e picaresco che intrattiene senza annoiare, nonostante qualche caduta nello sdolcinato che ne attenua la portata. È stato fatto un buon lavoro in sede di casting, con il piccolo e irresistibile Dorian Le Clech, che entra presto nel cuore degli spettatori, con la giusta dose di impertinenza e coraggio. Fa piacere ritrovare in un ruolo convincente, quello del padre tutto coraggio e amore, Patrick Bruel, dopo il passo falso italiano di “Una famiglia”. La madre è interpretata dalla sempre brava Elsa Zylberstein, i cui veri nonni scamparono ai rastrellamenti.


Sono proprio gli interpreti, sempre sinceri e verosimili, insieme a una ricostruzione d’epoca di buon livello, a dare forma a una storia sovrabbondante di cliché, a tratti anche divertente, di un’ironia tragica tipica delle situazioni disperate, nel ritratto velenoso dei collaborazionisti, delle piccole meschinerie che in epoca di guerra diventano tragici crimini, “Un sacchetto di biglie” regala i suoi momenti meno consueti, più efficaci, oltre che sempre tristemente attuali, tanto quanto lo è la nostra natura fallace.
Riccardo Supino

LA FOTO DELLA SETTIMANA


  Scott Pilgrim vs The World di Edgar Wright (USA, 2010)

venerdì, gennaio 26, 2018

DOWNSIZING - VIVERE ALLA GRANDE

Downsizing - vivere alla grande
di Alexander Payne
con Matt Damon, Kristen Wiig, Hong Chau, Christoph Waltz
USA, 2018
genere, commedia, drammatico, fantascienza
durata, 135'



Che i personaggi delle storie di Alexander Payne non siano il prototipo ideale della mascolinità americana c’è lo dice il manifesto di "Downsizing – Vivere alla grande". Nel lungometraggio in questione Matt Damon incarna il ruolo di un uomo di mezz’età che attraversa una crisi esistenziale dalla quale spera di uscire aderendo al programma di miniaturizzazione che rimpicciolisce le persone fino a farle diventare non più grandi dei  lillipuziani de I viaggi di Gulliver. Peccato che nel prosieguo della vicenda la scoperta, nata per salvare il pianeta dal problema della sovrappopolazione, diventi (come sempre succede nelle storie del regista) il pretesto per mettere in scena la crisi del sogno americano, con la scoperta che anche nel mondo creato per ospitare i nuovi cittadini i problemi rimangono sempre gli stessi.
Tra gli espedienti utilizzati dal regista per far passare il messaggio c’è quello di prendere attori dotati di una certa prestanza fisica e con elevato fascino presso il pubblico femminile, per fargli interpretare personaggi agli antipodi delle caratteristiche di cui abbiamo appena scritto. La conferma ci viene, appunto, dalle strategie della produzione e, in particolare, dalla scelta della locandina, in cui il personaggio di Damon, invecchiato e fuori forma sullo schermo, vi appare come se fosse appena uscito da una clinica della salute, tornando ad aderire a quell’immaginario da super eroe americano che l’ordinarietà di Paul Safranek gli aveva tolto. Un’accorgimento, questo, che ha tutta l’aria di essere una sorta di compensazione delle libertà artistiche di cui Payne ha goduto sul set. Se, infatti, dal punto di vista artistico, l’espediente di normalizzare la fisiognomica degli interpreti è funzionale al minimalismo cinematografico tipico del cineasta di origine greche, da quello commerciale il fatto di non trarre vantaggio dall’appeal della star di turno è una scelta che in tempi di crisi economica nessuno Mogul hollywoodiano è in grado di sostenere.

In realtà sul grande schermo, eccezion fatta per la presenza in cartellone di nomi di richiamo (e tante volte, vedi Nebraska, neanche per quelli), i lavori di Payne rappresentano la quintessenza del cosiddetto cinema d’essai, a cominciare dalla peculiarità delle trame in cui a prevalere è l’impressione che non succeda mai nulla e che i protagonisti, seppur perennemente in viaggio, girino quasi sempre a vuoto. Da questo punto di vista Downsizing – Vivere alla grande sembra fare eccezione nella filmografia del regista. Lo diciamo non solo per una questione di budget (il film è costato oltre 60 milioni di dollari, una fortuna per un tipo come Payne) ma anche in virtù dell’evidente apertura verso forme cinematografiche in grado di dare un’impronta spettacolare alla ricognizione umana effettuata dall’autore.

In realtà Payne è sempre lo stesso, e la storia, pur concedendosi effetti speciali in grado di rappresentare la visione di un’America tanto luminosa quanto apocalittica, è permeata da quell’intimismo malinconico e un po’ depresso che costituisce il mood dei suoi film. Ciò detto, il mix tra vecchio e nuovo funziona nella prima parte, quando il film non ha ancora scoperto tutte le sue carte, mentre nella seconda la presenza di metafore, allusioni (non mancano i soliti riferimenti critici alla politica di Trump) e visioni salvifiche finisce per far perdere al regista (e non solo a lui) il bandolo della matassa, sfilacciando irrimediabilmente le maglie del tessuto narrativo.


Presentato in anteprima all’ultimo festival di Venezia, Downsizing – Vivere alla grande è passato nelle sale americane senza lasciare particolare traccia. La curiosità è quella di vedere se nel vecchio continente sarà oggetto di miglior fortuna.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)

mercoledì, gennaio 24, 2018

CHIAMAMI CON IL TUO NOME

Chiamami con il tuo nome
di Luca Guadagnino
con Timothée Chalamet, Armie Hammer, Michael Stuhlbarg,
Italia, Francia, Brasile, Stati Uniti d’America, 2018
genere, drammatico, sentimentale
durata, 132’

L’educazione sentimentale di Elio, efebico liceale ancora acerbo di sentimenti troppo forti, dura sei settimane.  Tempo e luogo sono definiti nel loro essere atemporali e aspaziali – da qualche parte nel nord Italia (ndr.: la campagna cremasca), durante un 1983 scipito che affiora con nonchalance da un abbigliamento tiepidamente vintage. Come d’abitudine Elio (Timothée Chalamet) si reca assieme ai genitori (Michael Stuhlbarg e Amira Casar), due colti ebrei sefarditi, in quell’oasi di cultura dove passa le giornate nell’otium decadente della letteratura e della musica, fra bagni in piscine assolate e panismi creativi. Come ogni anno il padre, insigne professore, ospita un giovane dottorando per aiutarlo nelle sue ricerche. Astuto stratagemma, quello dell’estraneo che piomba all’improvviso in un contesto cristallizzato da una liturgia immobile, specie se l’estraneo in questione ha le sembianze di Armie Hammer, ora nei panni di uno scultoreo studente di filologia classica. Bell’espediente, soprattutto perché il nuovo venuto non acuisce tensioni già esistenti o disequilibri intestini, ma contribuisce a mettere il protagonista spalle al muro con sensibilità che non pensava gli appartenessero. 


La pulsione che si innesca tra i due, tanto turgida e languida da mal sopportare l’etichetta di “omosessuale”, è scenograficamente valorizzata dalla presenza fisica dei suoi attori, gracile e apollineo l’uno, un fascio di muscoli di fidiana memoria l’altro. Non a caso i riferimenti alla classicità si rincorrono senza sosta, dalle querelle etimologiche fra Oliver e il Professore, alle immagini di statue classiche che aprono i titoli di testa. Dopo Io Sono L’Amore e A Bigger Splash, il regista completa il suo trittico del desiderio, rendendo onore alla sceneggiatura non originale che il Premio Oscar James Ivory trasse dal romanzo autobiografico del 2006 di André Aciman, e non senza difficoltà lasciò alla paternità del solo Guadagnino. Ottima la scelta di eliminare la narrazione via flashback in favore di un narratore emotivo musicale (candidato all’Oscar Sufjan Stevens con The Mystery of Love), che riesce ad arricchire il pansessualismo multisensoriale che fa da cornice al viaggio sentimentale del giovane protagonista. Se i tempi lunghi e le atmosfere ovattate ci rimandano a Io Ballo da Sola di Bertolucci, l’idea della parentesi di evasione in uno scenario che fisicamente e temporalmente si fa altro (a poco valgono i continui rimandi a Craxi e alla resistenza) ci porta alla memoria il Racconto d’Estate di Romher. Dopo La Vita è Bella (Benigni - 1997 ) e L’Ultimo imperatore (Bertolucci, 1987), Call me by  your name  entra nella triade delle presenza italiane record agli Oscar, reduce da un tour de force di consensi internazionali pressoché unanimi (Festival di Berlino,Sundance Film Festival, Golden Globe), che si spera possano emancipare la critica italiana dal binomio Guadagnino-Melissa P. 
Erica Belluzzi

TUTTI GLI UOMINI DI VICTORIA

Tutti gli uomini di Victoria
di Justine Triet
conVirginie Efira, Vincent Lacoste, Melvil Poupaud, Laurent Poitrenaux, Francia, 2016 
genere: Commedia, Drammatico, Sentimentale
durata: 97’


Bionda. Avvocato penalista. Con due figli. Separata. Victoria, la protagonista vive caoticamente ogni propria giornata, barcamenandosi tra lavoro, figli. E uomini: il suo ex marito, blogger senza etica, un amico, Vincent, che deve difendere in tribunale in quanto imputato di tentato omicidio della propria compagna e Sam, un giovane ex spacciatore che lei ha difeso con successo in passato. Quest'ultimo si offrirà a Victoria come babysitter delle bambine e suo assistente.

“Tutti gli uomini di Vitoria”, film d'apertura della Settimana della Critica del Festival di Cannes del 2016 e nominato a 5 premi César (tra cui quelli a Miglior Film e Miglior Attrice), per la regia di Justine Triet, ha come protagonisti Virginie Efira (Victoria) e Vincent Lacoste (Sam) .

Victoria – come detto - è una donna avvocato, per giunta penalista e separata. E’ in cura da uno psicanalista e spesso va da una cartomante perché le predica il futuro. E’ una cd. Drama Queen, instabile sentimentalmente al punto che è alla continua ricerca di un piacere sessuale che consuma o tenta di consumare nella camera di letto di casa sua per mezzo di incontri fatti anche sui social. In realtà tutti questi “uomini di Victoria” rappresentano vuoti a perdere, non lasciano alcuna traccia di se stessi sul loro cammino. In primis, l’ex marito, privo di alcuna propria qualità artistica, che tenta di calcare la strada della celebrità pubblicando un libro sulle confidenze professionali fatte a Victoria dai propri clienti. E ovviamente Victoria lo denuncia per diffamazione. Poi c’è Vincent, un suo ex fidanzato, uomo indeciso e assolutamente incapace di vivere una relazione sana con una donna. E poi una serie di uomini incontrati on line che non riescono a dare alcun valore aggiunto alla vita di Victoria, né sotto il profilo sessuale, né sotto quello umano-relazionale. Una sequela dunque di uomini incapaci di voler veramente “incontrare” la protagonista, anaffettivi e senza capacità di comunicazione. Solo un uomo di Victoria” si rivela diverso da questi stereotipi ed è Sam, un ragazzo molto più giovane di lei ma accogliente dal punto di vista relazionale. Sam infatti “c’è”, ovvero ha voglia di conoscerla e di aiutarla, è accogliente e non giudicante. Sam è innamorato di Victoria (non è spoiler perché ciò è evidente sin dai primi fotogrammi), la vede bella e non ne ha paura. Ma chi è quest’uomo che - nonostante non sia affascinante e di converso si mostri apparentemente sfigato – non si lascia impaurire dal fascino di Victoria ed anzi ne carpisce la sua più intima essenza?


Victoria con la sua irrequietezza e disarmante fragilità ci obbliga a metterci davanti allo specchio, ma non per causarci angoscia, bensì per farci accettare, soprattutto noi donne, sempre così complicate. D’altronde tutte le persone sono complicate e Victoria ci insegna che occorre molta autoironia per non perdersi. La vera forza del film è proprio l’instabilità di Victoria che si esplica nelle sue gag esilaranti, nelle sue scelte di difesa in tribunale assolutamente fuori dall’ordinario come il fatto di citare un cane dalmata ed una scimmia come testimoni chiave a difesa del suo cliente Vincent. Se “Tutti gli uomini di Victoria” fosse stato un film americano, probabilmente la protagonista sarebbe stata una donna sì avvocato ma in carriera, algida e fallica, o se non forte, estremamente fragile e apatica. Ma la regista francese Justine Triet invece riesce a creare una Victoria “europea” verosimilmente fragile e vigorosa, egocentrica ed empatica, sensuale e sciatta (proprio come sarebbe una qualsiasi una donna con la storia di Victoria nella vita reale). Ed è sola.

Sì, Victoria è una donna sola “nella” sua vita. Sola come lo sono di fatto le sue bambine che le vogliono bene anche se sono costantemente affidate alle cure altrui. E sola rimarrà Victoria finchè continuerà a nascondersi dietro i problemi e le realtà degli altri, occupandosi delle loro vite per non occuparsi della propria. Il cambio di passo, la svolta avverrà solo quando Victoria diverrà consapevole del proprio spazio, del proprio diritto ad essere felice ed a esistere, riappropriandosi del timone della propria vita, affidandosi ad un altro. Solo in quel momento “Tutti gli uomini di Victoria” si riuniranno per divenire “l’uomo di Victoria”.


La necessità e l’importanza di potersi affidare agli altri è il perno centrale del film, ma per riuscirci si deve essere, di converso, pronti ad offrire qualcosa di vero di noi stessi.
Michela Montanari

martedì, gennaio 23, 2018

IL MIO FILM SENTIMENTALE: LUCIANO LIGABUE PARLA DI "MADE IN ITALY"



Nella veste di regista il ritorno al cinema di Luciano Ligabue è uno di quelle anteprime a cui non si può mancare. Se l’interno della sala dove si proietta“Made in Italy” è gremito in ogni ordine di posto, anche fuori l’assembramento non è da trascurare, con i fan del rocker emiliano pronti a salutare l’apparizione del loro beniamino. Accompagnato da Stefano Accorsi, Kasia Smutniak e dal resto degli attori che hanno preso parte al film, Ligabue sta al gioco con garbo, determinato a non lasciare spazio al divismo assegnatogli dallo status di star musicale. Pronto a scherzare sulle ragioni che lo hanno tenuto lontano dal set per cosi tanti anni “Telefonavo ai produttori per proporgli un nuovo film ma il telefono squillava sempre a vuoto” Ligabue parla della paura di cambiare del suo protagonista ma assicura che il movimento è l’unica costante della vita. “Rico (Accorsi) e Sara (Smutniak) vivono in una realtà consolidata fino a quando non emerge la necessità di cambiare lo sguardo  sul mondo. La crisi della loro vita di coppia altro non è che il percorso necessario a mettere in atto la trasformazione”. 


Sul mestiere di regista non ha dubbi “ Fare film è faticosissimo. Con la musica mi basta lasciare uscire le emozioni, mentre nel cinema devo elaborarle, farle passare prima dalla mente e poi dal cuore”, così come sulle ragioni che lo hanno riportato dietro la mdp “Essere un musicista fa si che possa dedicarmi al cinema solo se ho davvero una storia da raccontare. Quella di “Made in Italy” nasce come prosecuzione dell’omonimo concept album pubblicato nel 2016. Mi rendo conto che in tempi in cui la musica viene fruita velocemente un disco del genere è del tutto anacronistico ma sentivo la necessità di tornare su una canzone scritta in precedenza (Non ho che te) per raccontare di Rico che perdendo il lavoro rischia di smarrire la propria identità”. 

Se il nucleo narrativo del film si concentra sulla storia d’amore dei protagonisti  non mancano riferimenti alla contemporaneità italiana e ai problemi che l’ affliggono. “Ho cominciato a raccontare il mio sentimento verso il paese dieci anni fa con “Buona notte all’Italia” - dice Ligabue - mettendovi sempre un’amore che non viene meno nonostante i suoi molti difetti. Qui come altrove l’ho fatto attraverso uomini e donne che non hanno i miei stessi privilegi e la cui vita normale diventa improvvisamente straordinaria ”. L’interesse verso le persone che di solito non vengono raccontate perché troppo brave e oneste per risultare interessanti è frutto di un’esperienza diretta: “Le conosco bene perché sono gli amici della mia infanzia che continuo a frequentare e che mi dicono spesso che essere bravi in Italia non paga”. Per questa ragione il regista definisce “Made in Italy un film sentimentale, ispirato dai sentimenti e dagli stati d’animo delle persone che non urlano e fanno il loro dovere”.


Stefano Accorsi che nel film vediamo ballare e dimenarsi in un ambiente occupato da un gigantesca mortadella si dice privilegiato a lavorare con Ligabue. “Luciano si fida di quello che ti costruisci dentro, lascia spazio alle  tue emozioni. L’ho ritrovato in grande forma, capace di adattarsi senza problemi alle novità tecnologiche che nel frattempo hanno sostituito quelle utilizzate nel film precedente. Essere in un’opera pensata per così lungo tempo non è cosa da poco”. Chiude un altrettanto entusiasta Kasia Smutiak, alla sua prima esperienza con Ligabue: “Non sapevo cosa avrei trovato sul set però ascoltare il disco di Luciano mi ha chiarito il mondo in cui stavo. Questo mi ha permesso di corrispondere al personaggio che Luciano voleva che fossi”.
Carlo Cerofolini

domenica, gennaio 21, 2018

IL VEGETALE

Il vegetale
di Gennrao Nunziante
con Fabio Rovazzi, Ninni Bruschetta, Luca Zingaretti
Italia, 2017
genere commedia


Anche se il suo nome è passato in secondo piano rispetto a quello del divo Zalone, è opportuno ricordare che parlare di un film di Gennaro Nunziante significa porsi di fronte al lavoro del regista più vincente degli ultimi anni, un tipo che, a fronte di investimenti economici tutt'altro che rilevanti è stato capace di far guadagnare decine di miliardi ai suoi produttori, battendo ogni volta il record d'incassi al botteghino e lasciandosi alle spalle i grandi colossi dell'industria hollywoodiana. Nonostante il curriculum però chi conosce le cose della settima arte - e quindi lo stesso Nunziante - sa che nulla può essere dato per scontato. I galloni conquistati sul campo poco contano rispetto alla volubilità dello spettatore, e in questo caso la conferma di re Mida del cinema italiano doveva passare attraverso un ulteriore incognita. "Il vegetale" infatti, quinto ultimo lavoro firmato da Nunziante, è il risultato di un doppio divorzio: quello da Checco Zalone (avvenuto, si dice, per divergente artistiche), protagonista assoluto dei suoi titoli precedenti e, non meno importante ai fini commerciali, da Pietro Valsecchi, produttore storico della coppia, lautamente ripagato dall'aver scoperto e sostenuto la coppia quando farlo non era poi così scontato. Per giocare la partita Nunziante compie una specie di salto nel vuoto, scommettendo sul talento di Fabio Rovazzi, beniamino dei giovanissimi per essere stato l'autore di un famoso tormentone musicale (Andiamo a comandare) ma fin qui a digiuno di esperienze davanti alla macchina da presa che non siano state quelle necessarie a girare video clip e spot pubblicitari. Particolare non da poco, quest'ultimo, perché il trapianto di un immaginario come quello di Rovazzi, forgiatosi - alla pari di certi personaggi televisivi - su tempi infinitamente più brevi di quelli cinematografici poneva il problema di esportare l'efficacia di un'arte di rapido consumo - abituata a cogliere il momento e a sfruttare il dettaglio fisionomico - in un territorio dove il tempismo deve fare i conti con il tempo necessario a raccontare una storia. Insomma, un ufficio non da poco per Nunziante poiché, per non farla tanto lunga e capirci ancora meglio, si trovava con la responsabilità di trasformare un centometrista in un maratoneta.



Ai nastri di partenza la soluzione scelta, seppur scontata, non è priva di senso. "Il vegetale" infatti ricalca pressappoco temi e situazioni già affrontate dal regista in "Quo Vado?", a cominciare dal tema del precariato che da lo spunto alle avventure del neo laureato Fabio Rovazzi, il quale, per ottenere il posto fisso è disposto a tutto, anche a lasciare Milano per un'entroterra campagnolo, dove la possibile assunzione è subordinata al superamento di uno stage moto particolare. Capita infatti che invece di occuparsi in qualche modo della materia per cui ha studiato, il Rovazzi si ritrovi a lavorare in mezzo ai campi insieme a una squadra di lavoratori extra comunitari. Poco cambia anche sotto il profilo dei rapporti del protagonista con l'umanità circostante. Come Zalone, anche quella di Rovazzi è una versione maschile che si confronta con gli altri all'insegna dell'incoscienza e del non sense. A fare la differenza tra uno e l'altro, l'atteggiamento più dimesso del secondo, al contrario del primo - sempre artefice delle proprio destino - costretto a un gregariato esistenziale che lo costringe a rincorre gli eventi, il più delle volte a subirli. Questo ci fa dire che, pur con uno scarto impercettibile, - probabilmente dovuto alle caratteristiche attoriali di Rovazzi - "Il vegetale" proponga una comicità meno ottimista del solito, se non fosse che l'intermezzo amoroso con la bella di turno (un must da queste parti) e la fisicità da cartone animato dell'attore (distribuisce Walt Disney Italia) finiscono per salvaguardare la generale leggerezza del contesto. Aspettando di conoscere il risultato del botteghino, a cui spetta l'ultima parola, il problema de "Il vegetale" la fa purtroppo la mancanza di Zalone. Senza di lui a riempire la scena, traspare in maniera ancora più netta l'esilità della trama, ma anche l'incapacità della sceneggiatura di dare manforte all'understatement comico di Rovazzi. Trovate e comprimari (per esempio Luca Zingaretti, neutralizzato da un ruolo che perde progressivamente consistenza) sono troppo poco caratterizzate per aiutarne la performance che in questo modo appare addirittura esangue, e, di certo , non in grado di lasciare memoria del suo debutto.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)

LA FOTO DELLA SETTIMANA

Registi di culto: Claudio Caligari

venerdì, gennaio 19, 2018

ESTREMI DEL DESIDERIO: LIZ

Estremi del desiderio/Liz




Magari è il senso di rivolta contro la cupa frenesia che ogni giorno tritura un po' di vita in brandelli di un unanime cupio dissolvi, però anestetizza con una sua aspra dolcezza mettere in fila adesso qualcosa su Elizabeth Rosemond Taylor, per tutti, Liz: per chi non si fa fregare, Maggie la gatta. Innanzitutto, Liz/Maggie è sempre stata qui, a fluttuare nei meandri ipotetici del desiderio, in specie per noi che, senza esitazioni, è sempre lei che abbiamo voluto, ben prima che apparisse. Proprio lei. Messa sotto contratto dai vampiri della bellezza quando le sue coetanee dovevano ancora imparare - a scanso di fastidiosi contrattempi - a distinguere il sapone dal dentifricio, lei, di fatto, era già qui. Ed era di nuovo qui, intorno ai diciott'anni, nel suo sacrosanto posto al sole, la schiena mezz'ammaccata dai privilegi maldestri di cavallerizza imberbe: la magnificenza bruna, insolente e indolente, in bella mostra, incontenibile e definitiva, come il nostro tormento. Diciotto anni precoci e procaci, una nuvola di capelli color corvo che, per perdercisi dentro, un esteta malinconico come Baudelaire avrebbe fatto carte false ("Laisse-moi respirer longtemps, longtemps, l'odeur de tes cheveux, y plonger tout non visage..."). E gli occhi impossibili d'ametista, contrariamente all'etimo in grado di stordire come e meglio del whisky delle Ebridi. E' sempre stata qui, Liz. Quindi non se n'è mai andata. Nemmeno dopo i film sbagliati, i matrimoni a grappoli, la grandeur fuori tempo massimo e il cuore stanco.

In una società come la nostra, iperborghese (nelle pose), iperconformista, iperformale, Liz rappresenta il desiderio più divorante: lei è la puttana (in visone, ci mancherebbe) che chiunque, uomo, donna, cyborg, mutante, gnomo, hobbit, silversurfer vorrebbe una volta almeno accanto nel letto per materializzare il sogno (borghese) per eccellenza: l'illusione del raggiungimento della bellezza/armonia attraverso l'abolizione della sua lontananza (una delle unità di misura della perfezione) per il tramite della sua profanazione, del suo abbassamento a oggetto di consumo a-portata-di-mano-della-massa, ossia di realtà ridotta al grado zero di accessibilità.


Nel suo piglio sempre sfuggente, nelle sue pose viziate, nei suoi sorrisi dal fondo enigmatico, Liz incarna il desiderio interdetto alle schiere piccolo borghesi (come da manuale, ipocrite, carogne e retrive fino al midollo): ovvero la Natura trionfante, altera e autosufficiente che - a ben vedere - nemmeno chiede o si cura d'essere ammirata e a cui non si può che opporre la frustrazione di un espediente, di un marchingegno psicologico o dialettico - cioè un tanto di Cultura - che infrangendo, oltraggiando, dissacrando, tenta scompostamente (nei deliri piu sconci) di avvicinare, ossia di controllare il fascino, mettere il guinzaglio all'attrattiva, in generale allaBellezza (Natura al suo meglio), sommo spauracchio per una mentalità che la teme, fondata com'è sulla razionalità, ossessionata dal controllo, indottrinata al rigore e alla rispettabilità.


Liz è la quintessenza e l'ennesima potenza di questo dissidio del desiderio: venustà conturbante, aplomb altamente sofisticato e miraggio senza approdo, delusione eterna del possesso esclusivo e totale. Davvero, Maggie la gatta, a conti fatti: sensuale e obliqua, appetitosa e infida, maliarda e doppia, con un margine vuoto, una specie di silenzio profondo tra sé e il suo offrirsi che aggiunge una nota quasi struggente - oltreché masochistica - al desiderio di lei e ne fa il contraltare perfetto di Marilyn, della sua esuberante carnalità, al contrario fin troppo evidente, fin troppo disponibile, ovvia quasi, nella sua estrazione popolare/proletaria e come passibile di esaurimento un istante dopo l'ipotetica conquista. Senza complicazioni, in ogni caso, soprattutto senza trappole: la girl next door che Liz non avrebbe mai potuto (né voluto) essere. Buona per gl'ingenui, insoddisfacente per gl'incontentabili, questi ultimi vessati pure dai non pochi fantasmi dislocati qua e là nel Cinema come interpreti involontari (?), comunque non meno fascinosi della speciale malìa che da lei s'irradia, da Liz/Maggie: quella aristocratica della Connelly; quella da adolescente afflitta della Rider; quella tipicamente britannica, quindi un tanto rigida, della Beckinsale. Persino quella tamarra della Fox. Come si vede, Liz è ancora qui. Difficilmente - fortunati noi - ci libereremo di lei.
TFK

giovedì, gennaio 18, 2018

IL FILM DELLA SETTIMANA: L'ORA PIU' BUIA




Affezionato ai film in costume Joe Wright conferma l’attaccamento al genere avendo cura (dopo il tonfo di “Pan - Viaggio nell’isola che non c’è”) di tornare a una delle realtà storiche che gli aveva dato maggior soddisfazione quando si era trattato di utilizzarla come sfondo delle vicende narrate in “Espiazione”. Alla stregua del film tratto dal romanzo di Ian McEwan anche il nuovo lavoro si colloca nel cuore del secondo conflitto bellico, raccontando - come dice il titolo - uno dei momenti più bui della storia inglese contemporanea. A renderlo tale non è solo la minaccia dell’invasione nazista all’alba degli avvenimenti che videro la Germania mettere sotto scacco l’intera Europa, ma anche la trepidazione per le sorti dell’esercito di sua Maestà, bloccato sulla spiaggia di Dunquerque e sotto tiro del fuoco nemico. Ampliando i risvolti che stavano alla base del film di Nolan e raccontandoli in maniera speculare attraverso le decisioni prese dal primo ministro inglese Winston Churchill, “L’ora più buia” è il frutto di un’idea opposta a quella di “Dunkirk”. Tanto il film di Nolan derogava alle regole del cinema classico, sostituendo la centralità dei personaggi con una rappresentazione della guerra che sembra prodotta dal subconscio di uno dei suoi partecipanti, tanto quello di Wright ne restaura i precetti, consegnandoci un protagonista a tutto tondo, raccontato con le forme del biopic più tradizionale. Il Churchill di Gary Oldman (premiato con il Golden Globe per la migliore performance maschile in un film drammatico), infatti, non è solo il deus ex machina del film, colui senza il quale non ci sarebbe alcuna storia, ma, nel trionfo della mimesi interpretativa messa in atto dall’attore britannico - tanto camaleontica quanto di maniera - ma la risultante di un cinema in cui ciò che appare conta di più di quello che non si vede. Se poi, non contenti, ci si volesse avventurare nel tentativo di trovare le ragioni che, ancora oggi, fanno di Churchill una figura di estrema attualità, basterebbe prenderne in considerazione i risultati della leadership politica e il coraggio mostrato nell'assumersi le responsabilità delle proprie azioni, per capire in che maniera "L'ora più buia" rifletta in maniera critica sulle vicende dei nostri giorni

DATA USCITA: 18 gennaio 2018
GENERE: Drammatico
ANNO: 2018
REGIA: Joe Wright
ATTORI: Gary Oldman, Lily James, Kristin Scott Thomas, Stephene Dillane
PAESE: Gran Bretagna, 2018
DURATA: 114 Min
DISTRIBUZIONE: Universal Pictures

VENEZIA 74: ELLA & JOHN

Ella e John
di Paolo Virzì
con Hellen Mirren, Donald Sutherland
Italia, 2017
genere, drammatico
durata, 

Nel battage pubblicitario che ha preceduto l’anteprima del nuovo film di Paolo Virzì, i produttori hanno insistito sul fatto che “Ella & John” fosse stato il primo film del regista realizzato oltre oceano, dimenticandosi che il cineasta livornese aveva già frequentato gli Stati Uniti, dirigendo nel 2002 lo sfortunato “My Name is Tanino”. Questo per dire che seppur italianissima, la commedia del nostro non era del tutto estranea agli umori del paesaggio americano. Con ciò non vuol dire che “Ella & John” non presentasse segni di discontinuità - rispetto al resto della sua cinematografia - individuabili nello spirito  profondamente americano dei personaggi raccontati da Virzì. Ella e John, interpretati rispettivamente dall’inglese Helen Mirren e dal canadese Donald Sutherland, ne hanno a tal punto che per l’addio alla vita, decidono di affrontare un ultimo viaggio, mettendosi in strada a bordo del mitico leisure seeker, il caravan che da sempre è stato testimone del loro amore, e che adesso diventa il simbolo di una fuga dal mondo effettuata nella maniera più tipica della loro cultura, che è appunto quella della  trasferta  on the road, effettuata per raggiunge la Florida, alla volta della casa di Hemingway (altro pilastro delle cultura americana) , di cui John, professore di letteratura americana, è da sempre appassionato. 


Scritto a più mani (oltre a Virzì e all’Archibugi firmano la sceneggiatura  Francesco Piccolo e Stephen Amidon) “Ella & John” ci presenta un Virzì sotto tono, forse bloccato dalla paura di andare sopra le righe e di non riuscire a cogliere lo spirito di un paesaggio umano, peraltro in larga parte simile a quello  pensato per  “La pazza gioia”. Ella e John infatti sono parenti stretti di Beatrice e Donatella, elementi fuori dal coro, e per questo artefici di una fuga precipitosa, contraddistinta, in entrambi i casi da una patologia mentale che trasferisce sullo schermo una precarietà allo stesso tempo vitale e malinconica. Sia ben chiaro, il regista toscano non sbaglia nulla, affidandosi all’esperienza degli attori ed evitando di fare degli Stati Uniti un paesaggio da cartolina. Così facendo, però da l’idea di rinunciare ad una parte di se, limitandosi a seguire le indicazione di attori e sceneggiatura. Priva di guizzi, la sua regia si accontenta del minimo sindacale, deludendo le aspettative di chi vedeva in “Ella & John” l’opportunità di una consacrazione internazionale da parte dell’autore.