venerdì, gennaio 12, 2018

TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI

Tre manifesti a Ebbing, Missouri
(Three billboards outside Ebbing, Missouri)
di, Martin McDonagh
con, Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, John Hawkes, Peter Dinklage, Abbie Cornish, Caleb Landry Jones, Kathryn Newton
GB, USA 2017 
genere, drammatico
durata, 115’



Canto il corpo elettrico… /E’ mai stato chiesto se quelli che contaminano il proprio corpo, lo facciano di nascosto ?/E se quelli che profanano i vivi non siano malvagi quanto quelli che insozzano i morti ?, si domanda dell’America, con la consueta retorica baldanza, il bardo Whitman, cogliendo, tra l’altro, la natura geneticamente intransigente, se non brutale, del suo idealismo, nonché un paio tra correlativi e opposti a esso riferibili: il senso di giustizia e l’insofferenza alla prevaricazione, da un lato; l’ingenuità aggressiva e l’aspro intruglio a base di cinismo e indifferenza, dall’altro. E simile è l’interrogativo che si pone - tra le circonvoluzioni imprevedibili dell’onere della responsabilità, dei sensi di colpa incrociati e delle rispettive più o meno colpevoli omissioni che paradossalmente giungono a non escludere l’ipotesi della tregua o persino l’inaugurazione di nuovi sentieri di riconciliazione (lettere pacificate scritte con un piede già nell’altro mondo; un succo d’arancia offerto in silenzio; un dossier, sempre sul punto d’essere archiviato, salvato dalle fiamme), su uno degli sfondi più tipici del malessere del Grande Paese (la provincia, con i suoi stagni morali, esistenziali e criminali tenacemente immoti) e all’interno di uno dei trans-generi dal Cinema odierno più frequentato (il crocevia di suggestioni che alterna e rimescola il dramma sociale, il ritratto in nero e la commedia amara) - Martin McDonagh, qui alla sua terza prova dopo “In Bruges” e “7 psicopatici” (un film ogni quattro, cinque anni), in questo “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”.


Se il casus belli risiede nella terribile linearità d’un episodio di cronaca - una ragazzina, Angela Hayes/K.Newton viene rapita, violentata, uccisa, arsa e seppellita nei dintorni della cittadina del titolo qualche mese prima dei fatti narrati - i rapporti tra le figure che ne incarnano i possibili sviluppi, al tempo delimitandone e specificandone il contesto - Mildred Hayes/F.McDormand, madre di Angela, divorziata da un marito manesco; Bill Willoughby/W.Harrelson, capo della Polizia locale minato dal cancro e Jason Dixon/S.Rockwell, agente buzzurro in odore di ritardo mentale (tutti e tre gl’interpreti in notevole forma recitativa, in specie Rockwell) - mano mano s’attorcono in un groviglio esperienziale-emotivo la cui inestricabilità non si esaurisce nel (mancato) scioglimento della (blanda) prassi investigativa, nell’ottusità programmatica di secolari rozzezze e di scostanti apatie, come pure nella pertinacia legalitaria che qui e là non nasconde accenti ossessivi al limite del mero revanscismo (Mildred, commessa in un piccolo negozio di articoli da regalo, quasi sempre vestita con una tuta blu da eterno guastatore, non esita ad apostrofare Willoughby che le confessa la sua condizione di malato terminale con un I manifesti non avrebbero avuto la stessa efficacia dopo che lei fosse crepato) ma rimanda al concetto fondativo di comunità nella sfumatura più primordiale del suo significato, ossia a quel nucleo ambiguo, intrinsecamente teso (qui, tensione degli sguardi, tensione del linguaggio, tensione d’un paesaggio florido ma ritroso) e violento, all’apparenza irriducibile, che sembra impregnare di sé qualunque atto sociale e che trova nei meandri della Storia americana puntuali e ripetute attestazioni del proprio stato di salute e della propria verità, originando nel corpo della nazione quei cortocircuiti fulminei e cruenti che lo slancio ottimista whitmaniano presupponeva di contenere iscrivendone la periodicità entro i rifiati accoglienti d’un tempo leggendario utile a realizzare il destino autentico di un popolo.

Il gesto provocatorio di Mildred, infatti - l’affissione a pagamento lungo un tratto di statale nei recessi disgraziati di Ebbing di tre grandi annunci su fondo rosso recanti, a mo’ di sintetica via crucis, le stazioni d’un tormento insanabile e il sospetto d’una sua vergognosa rimozione: Raped while dying; How come chief Willoughby ? e Still no arrests ? - declina con i toni palesi della protesta civile silenziosa la medesima sotterranea grammatica biblica dell’occhio per occhio che l’autorità applica o disattende al riparo del cosiddetto monopolio legale della forza e in cui l’americano medio non di rado indulge dall’alto dell’unico tribunale che alla fine davvero riconosce, quello della propria coscienza, in una continua frizione tra pulsioni ideali e meno confessabili istanze genericamente risarcitorie che hanno come unico punto di convergenza la difesa strenua della propria posizione/visione (Mildred è brusca e distante con chiunque le capiti a tiro, familiari compresi; Dixon non fa mai mancare sarcasmo al suo compiacimento dispregiativo: Willoughby si mostra più conciliante ma ritiene inutile insistere su un caso presto diventato freddo per mancanza di piste promettenti) e sottopongono a ulteriore usura principi importantissimi, peraltro nella pratica quotidiana pericolosamente scivolosi, dell’immaginario a stelle e strisce, quali quelli di Libertà, di Giustizia e di Ordine. McDonagh, irlandese, uomo di teatro spigoloso e spiccio ma attento alla matrice di fondo contraddittoria che alimenta anche il binomio Individuo/Sistema, mostra di conoscere l’aporia logica e psicologica che connette questi che sono i perni intorno a cui ruota un’intera interpretazione della realtà: ciononostante non dimentica che l’avventura umana, la sua sgangherata propensione a ripetersi in peggio è frutto, al netto dell’imponderabile, di scelte perlopiù avventate o stupidamente egoiste, in un assurdo palcoscenico della rassegnazione su cui ogni rilancio in chiave disperata chiama una congrua contropartita di grottesco disincanto e sorriso a denti stretti. In altre parole, si tratta di capire, suggerisce l’autore se, messe da parte le norme e le consuetudini, l’appagamento o il rimpianto, non rappresenti solo l’ennesimo spreco, oggi come oggi, pensare e promuovere una qualche forma di sentimento immune dal calcolo e dal rancore nel tentavo d’arginare la traiettoria chiusa e deterministica del sangue.


E’ proprio all’interno di tale rovello filosofico e morale che “Tre manifesti…” trova di fatto lo slancio per imprimere uno scarto non scontato alla vicenda, ovvero sollecitare uno spostamento deciso dalla progressione circolare (e sterile) tra beffarda insipienza istituzionale e incoercibile risentimento individuale, a quello scivolamento fatale verso l’apertura - sorta di movimento storico con annessa, sbilenca, consonanza d’intenti tra gli antagonismi in campo - che a volte solo la necessità contingente ma inderogabile del destino personale può favorire: nel caso, il vissuto di donne e uomini ordinari, epitomi loro malgrado ma per perfida antonomasia dell’America che-non-si-vede, che lotta e subisce astiosa ai margini del grande sogno, merce di scambio per altri e più subdoli manifesti, quelli magari inneggianti alle prosopopee isolazioniste e/o imperiali, al di sotto e dissimulati tra i quali sempre ammiccano gli strateghi del desiderio senza limiti ma senza scopo. Non esistendo ricompensa soddisfacente al dolore che non sia l’aria pesante di futili ripicche lasciate marcire a edificazione d’un’arresa incompetenza verso la vita, ecco che allora, tra le maglie delle catene della colpa, a guardare senza rabbia e odio, è possibile intravedere la scommessa di riservare appena un fuggevole pensiero alle tenebre a venire.
TFK

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