venerdì, settembre 30, 2016

BEN-HUR


Ben-Hur
di Timur Bekmambetov 
con Jack Huston, Morgan Freeman, Toby Kebbell
USA, 2016
drammatico, storico, avventura
durata, 123'

Se il cinema è un’arte che più delle altre lavora sull’immaginario collettivo e popolare della gente non c’è dubbio che il remake in quanto copia conforme di qualcosa che già esiste funziona come una macchina del tempo che senza farsene accorgere cancella l’eta anagrafica di un determinato film riproponendolo come fosse la prima volta. Apparentemente semplice il compito di chi se ne fa carico è tutt’altro che facile perché il nodo della questione non è solo quella di mettersi in competizione con un modello il più delle volte irraggiungibile ma di giustificarne la necessità di farlo. Nel caso di “Ben-Hur” questi vincoli risultavano moltiplicati dal fatto che quello di Timur Bekmambetov oltre a seguire il classico di William Wyler che nel ’59 era stato capace di portarsi a casa ben 11 statuette  rappresentava la quarta versione cinematografica del romanzo di Lee Wallace. A priori quindi quella di Bekmambetov più che una sfida si profilava come una missione impossibile da vincere e così risulterà al termine della sua visione. Tanti i motivi della disfatta, primo tra tutti la decisione di dimezzare la lunghezza del film ridotto di circa due ore rispetto al lungometraggio di Wyler mantenendone inalterata la trama. 


Giova ricordare che “Ben Hur” nel  raccontare l’odissea di Judah Ben Hur, principe giudaico ridotto in schiavitù per una colpa mai commessa e come tale deportato nella capitale dell’impero romano  si imbatte più di una volta nella figura di Gesù di Nazareth la cui vicenda esistenziale e il paesaggio che fa da sfondo alla sua predicazione finisce per determinare le scelte del protagonista nel modo che lo spettatore avrà modo di vedere. Quello che a noi interessa in questa sede è però far notare la complessità del materiale letterario per sottolineare quale sia la ragione del mancato funzionamento di “Ben-Hur” che nella drastica sintesi rilasciata dal regista perde coerenza drammaturgia quando dopo oltre 2 ore di guerra fratricida in sole 3 minuti riesce a far conciliare Ben Hur e Messala, il fratello adottivo nel frattempo diventato il maggiore persecutore della sua famiglia. Il resto è occupato da un sottotetto politico che in maniera didascalica  paragona l’Impero Romano agli Stati Uniti di Bush e Obama e dalla performance di un attore - Jack Huston, nipote del grande Jack - privo del necessario carisma. La cosa più bella sono i Sassi di Matera che insieme a Cinecittà forniscono le location di un film che non riesce a decollare.

mercoledì, settembre 28, 2016

CAFE' SOCIETY

Cafè Society
di Woody Allen
con Jesse Eisemberg, Kristen Stewart, Blake Lively, Parker Posey
USA, 2016
genere, commedia
durata, 26'



Un po' come succede quando si guarda a quello di Ken Loach anche il cinema di Woody Allen tende ad essere sottovalutato per quanto riguarda gli aspetti tecnici e formali, dimenticandosi che il regista newyorkese per sua stessa ammissione ha cercato di colmare le proprie lacune nell’uso del mezzo tecnico affidandosi ad alcuni dei migliori professionisti del settore e tra gli altri a direttori della fotografia come Gordon Willis (“Manhattan”) Sven Nykvist (“Crimini e misfatti”) fino al compianto Carlo Di Palma (“Mariti e Mogli”) che hanno contribuito a rivoluzionare le caratteristiche dell'immagine cinematografica."Cafe' Society” il nuovo film del talentoso ottuagenario ne è la conferma perché accanto alle qualità di scrittura e della direzione degli attori ad emergere con un'evidenza maggiore delle ultime volte e' il contributo visuale fornito dal grande Vittorio Storaro. Compagni di viaggio in quella magnifica avventura che fu il cinema della New Hollywood, Allen e Storaro non si erano mai incontrati sul set di un film. L'occasione viene loro offerta dalla possibilità di portare sullo schermo la storia di Bobby Dorfman, ebreo newyorkese che negli anni trenta si trasferisce a Los Angeles con la speranza di sfondare nel mondo del cinema grazie all'aiuto dello zio produttore e nel frattempo si innamora della giovane segretaria che gli fa da guida per le vie della città. Considerato che ad un certo punto Bobby e' costretto a fare marcia indietro ritornando nella grande mela dove aprirà un night club di successo e si consolerà con un altra donna che diventerà sua moglie "Cafe Society" aveva le carte in regola per stimolare le genialità dell’inedito sodalizio.



Per il regista in particolare l’ambientazione, dislocata tra due metropoli che da sempre rappresentano gli antipodi artistici e culturali dell'universo alleniano, dava modo alla scrittura di pescare a piene mani nel divertente manicheismo che contraddistingue il dibattito interno al suo cinema, con Los Angeles come al solito frivola e falsa e popolata da persone e in particolare dalla gente del cinema che pensa solo agli affari e non perde occasione di fregare il prossimo e New York, a erigersi come modello di segno opposto, talmente ospitale e accogliente da essere simpatica anche quando si tratta di far sparire il vicino di casa troppo molesto o uomini d'affari un po' troppo zelanti. Inoltre le caratteristiche sociologiche di quei collettori di stravaganze e mondanità che furono la Hollywood degli anni d’oro e la società dei caffè e dei ristoranti alla moda frequentati da Bobby calzavano a pennello con la propensione al ritratto epocale tipica del nostro regista.


Allen dunque partendo dal legame sentimentale e molto romantico che unisce Bobby e l'amata Vonnie ragiona sui limiti delle cose umane e sul concetto dell'amore eterno provando a essere meno pessimista del solito  (e anche un po' meno spiritoso) sui destini delle vicende umane. Per l’occasione il regista rispolvera quel misto di sfacciataggine, ingenuità e buone maniere con cui la scrittura del prolifico cineasta si diverte a fare e disfare i sogni dei suoi protagonisti a cui gli interpreti offrono talento mimetico (Jesse Eisenberg nervoso e ) e calcolata spontaneità (Kristen Stewart, irresistibile nella parte della ragazza delle porta accanto). Ad aumentare il plusvalore di “Cafe Society” ci pensa però Vittorio Storaro; il quale non solo convince Allen a girare il suo primo film in digitale, cosa che ai tempi d’oggi non sarebbe un granchè se non fosse che per gli abitudinari del regista il cambiamento si prospetta come una vera e propria trasgressione (per non dire dello straniamento conseguente dal contrasto tra la pulizia della risoluzione visiva e il clima vintage derivato dai costumi e scenografiema riesce a influenzarne l’estetica conferendo all’immagine una profondità di campo e una spazialità (grazie al movimento a tutto campo della macchina da presa e in particolare della steadycam, che nelle intenzione degli interessatiesprime il punto di vista del narratore esterno) mai vista prima d’ora nell’opera del regista. Se poi aggiungiamo la scelta di definire le due metropoli secondo cromie inizialmente opposte - quella di Hollywood sono calde e soleggiate, mentre New York appare più luminosa e sgargiante- e poi gradualmente sempre più equilibrate (secondo uno stilema tipico utilizzato da Storaro) non si fatica a dire che il contributo del nostro artista è determinante per la riuscita di un lungometraggio che si pone ai livelli più alti tra quelli realizzati da Allen in questo scorcio della sua carriera.
(icinemaniaci.blogspot.it)

martedì, settembre 27, 2016

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI: ONE MORE TIME WITH FEELING

One More Time wIth Feeling
di Andrew Dominik
con Nick Cave
USA, 2016
genere, documentario, musicale
durata, 112'


Per Andrew Dominik era facile fare un con il materiale musicale presente in "One More Time with Feeling". Perché i circa 35 minuti che costituiscono la performance sonora realizzata da Nick Cave per promuove il nuovo disco si ritrovano a convivere con le parole a cuore aperto del cantante alle prese con il dolore di un lutto ancora in corso per la precoce morte del figlio Arthur. Fotografato in bianco e nero dalla splendida fotografia del Benoit Debie di "Enter the Void" e " Spring Breakers" il regista utilizza il 3D per ricreare quelle caratteristiche di spazialità che sono proprie della musica e, nello stesso tempo, amplificando la rilevanza del vuoto degli ambienti della casa di Cave e della sua famiglia riesce a tradurre in immagini la mancanza provocata dalla tragedia.
(pubblicata su ondacinema.it/speciale 73 festival di Venezia)



"One More Time with Feeling" è stato uno dei lungometraggi più belli della Mostra di Venezia. Qu le parole del regista Andrew Dominik intervenuto alla conferenza stampa per la presentazione del film

Ci racconti la genesi della tua collaborazione con Nick Cave.
La morte di Arthur, il figlio di Cave, è avvenuta quando il nuovo disco di Nick era a metà della produzione. A quel punto lui si è trovato di fronte a un bivio.:o rinunciava alla promozione dell'album oppure avrebbe dovuto trovava il modo per farla sentendosi al sicuro. E' così che ha pensato a me. E' accaduto tutto velocemente; all'inizio si trattava di filmare un mini concerto poi è nata l'idea del film. Tutto quello che abbiamo aggiunto è stato quindi improvvisato. Ti posso dire che per Cave questo lavoro non è stato terapeutico ma solo il modo che ha scelto per cercare di andare avanti.
Perchè la scelta di utilizzare il 3D.
A me il 3D piace ed avrei sempre voluto fare un film in cui poterlo utilizzare. L'ho fatto con "One More Time with Feeling" perché penso che la profondità di campo che si ottiene con questo sistema si addiceva alla qualità spaziale della musica. La scelta del bianco e nero è invece dovuta alla sua eleganza formale.

Il tuo uso del 3D è molto intimista.
Il 3D ti consente di raggiungere la profondità delle persone, di penetrare dentro il loro sguardo. Io poi ho preferito girare direttamente con questo metodo, evitando la procedura che prevede di filmare con il sistema normale per poi passare al 3D.

Cosa ti ha affascinato di Nick Cave.
Nick è di Melbourne come me e quando ero giovane era considerato come Dio, la gente lo amava e lo odiava, le ragazze facevano a gara per conoscerlo. E' un'artista che mi parla e che dice cose che per me hanno un significato. E' anche una persona più grande e quindi quando parla può darmi delle risposte su cose che io non ho ancora vissuto. C'è poi questa sua paura di stare davanti al microfono che contrasta con il suo modo deciso di stare sul palco. Entrambe le cose sono vere e questo dualismo rende ancora migliori i suoi lavori.

Parlaci del vostro rapporto sul set.
Nick è introverso e anche un po' permaloso. Con lui abbiamo fatto l'accordo che io potevo filmare tutto ciò che volevo a patto di avere l'ultima parola ssh eventuali scene che lo mettevano in difficoltà. Quando la sera guardavamo il girato si chiedeva continuamente quale fossero i limiti rispetto al dolore che metteva in scena. Molto spesso lui e la moglie non amavano le immagini che li ritraevano insieme per cui ne ho eliminate molte senza che ciò abbia mai creato un problema rispetto al rapporto di stima che si era creato tra noi due. Nick per forza di cose si è dovuto mettere a nudo e mi ha dovuto raccontare della morte del figlio. Adesso che il film è finito ci ritroviamo a sentire uno la mancanza dell'altro.

A proposito di Benoît Debie il direttore della fotografia, com'è andata.
Lui è una persona molto pratica che a differenza di me parla un sacco di lingue. La macchina da presa 3D è molto grande e ingombrante, difficile da manovrare. In più qui bisognava tenere presente che il nostro lavoro era subordinato a quello della produzione musicale. Eravamo noi che dovevamo adattarci a loro e non viceversa. Questo è stato liberatorio perché non esisteva un copione già scritto e ogni mattina andavo a lavorare senza un'idea di ciò che sarebbe successo e di cosa avremmo filmato. Abbiamo perciò lavorato d'istinto, impegnandoci più sulla ricerca degli obiettivi e delle lenti più adatte che sull'illuminazione.


Perché ad un certo punto hai scelto di girare una sequenza a colori.
Rispecchiava il mio sentimento rispetto alla canzone di Nick che per me rappresentava un momento di apertura rispetto al mood espresso da quelle precedenti.

Tornando  all'esperienza di questo film pensi di riuscire ad incorporare i processi istintivi di cui mi parlavi nel cinema di finzione.

Se c'è una cosa che ho capito da questo lavoro è quella di affidarmi di più al mio istinto. Nel documentario devi dimenticarti di te e ascoltare dove vuole andare il film. Nella fiction ci sono momenti tra ciak e montaggio che vengono scartati mentre nel documentario succede il contrario. In "One More With Feeling" sono i tempi morti a permettere al film di essere tale. In futuro spero di riuscirlo a intrecciare le parti di finzione con questi cosiddetti scarti, magari a cominciare dal lungometraggio su Maryiln Monroe che inizierò presto a girare. 

domenica, settembre 25, 2016

LA FOTO DELLA SETTIMANA





























I sette samurai di Akira Kurosawa (Giappone, 1954)

SOLARIS

Solaris
di Andrej Tarkovskij
con Donatas Banionis, Natal'ja Bondarčuk, Jüri Järvet, Anatolij Solonicyn, Nikolai Grinko, Olga Barnet
Urss, 1972
genere, fantascienza
durata, 167’

Nel trentennale della scomparsa di Andrej Tarkovskij, la Fondazione Cineteca Italiana dedica una personale al regista con la proiezione della filmografia completa originale e integrale. Fino al 4 ottobre potrete avere la possibilità di scoprire (per chi non lo conoscesse) o di rivedere le opere di uno degli autori più importati della seconda metà del Novecento della Settima arte. Di seguito la recensione di Solaris, tra i suoi film più famosi e acclamatii.


In un futuro dove l’uomo viaggia nello Spazio, da molti anni una base spaziale orbita intorno al pianeta alieno Solaris, mondo-senziente, completamente liquido, pianeta/cervello, con cui l’umanità cerca un contatto, creando una vera e propria branca scientifica: la “solaristica”. Ma tutti i tentativi di comunicazione falliscono per l’incapacità di creare un dialogo sotto qualsiasi forma. Ormai quasi abbandonata (ci sono solo più tre scienziati rimasti che continuano a compiere esperimenti), viene inviato lo psicologo Kris Kelvin per decidere la chiusura della base spaziale.
Tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore polacco Stanislaw Lem, Solaris è un esempio di fantascienza filosofica in cui si affronta la difficoltà dell’umanità (e la sua inadeguatezza) a comunicare con altre forme di vita aliene. L’Altro diventa personaggio per spiegare la Cosa irrappresentabile e Tarkovskij riprende e mantiene questo aspetto originale della fonte letteraria, introducendo la sua visione d’artista e sensibilità personale. Ecco che alla incomunicabilità con l’Altro-Cosa, il regista sovietico innesta un tema umanistico-naturalistico. Il film viene diviso in due parti. La prima (che dura quaranta minuti) è ambientata nella campagna, dove si trova la dacia del padre e dove Kris incontra anche un vecchio “solarista” per capire meglio cosa lo aspetta sulla stazione spaziale. Questa lungo segmento ha una continuazione con il viaggio e l’arrivo alla stazione e il primo incontro con gli ultimi superstiti e con il fantasma della moglie morta dieci anni prima, Hari. Qui è messo in scena il senso di abbandono e di solitudine, di incomunicabilità trasposta tra l’Altro-Cosa (Solaris) con l’alterità personale di Kris (il padre, la madre morta, la moglie suicida), dove la natura è una presenza metafisica che resiste al tempo. L’aspetto umanistico tarkovskijano è ancora più evidente dove la comunicazione con l’Altro-Cosa avviene tramite il subconscio dei personaggi: Solaris non fa che materializzare i ricordi e le fantasie più intime degli uomini e in questo caso della moglie morta di Kris, mentre lui sta dormendo. Il sonno della ragione (della razionalità) porta alla concretizzazione dell’irresolutezza dell’inconscio. Il rapporto con la moglie diventa una maieutica per immagini tra l’alterità interiore di Kris irrisolta e il dialogo incomprensibile con l’Altro-Cosa Solaris.
La lontananza dai sentimenti verso il padre da parte di Kris, il senso di perdita della madre, sono rappresentazioni simboliche della profondità dello Spazio-Tempo tra materiale e spirituale che viene messo in scena in Solaris, nella seconda parte dell’opera. La rappresentazione della stazione orbitante, caotica, spoglia, piena di rifiuti e di macchinari che funzionano poco e male; il silenzio, la luce proveniente dal pianeta, il liquido superficiale in continuo movimento (non acqua, ma umore amniotico da cui nascono e si materializzano i personaggi che il pianeta rievoca dal subconscio degli uomini); sono tutte metafore dell’annichilimento e della caducità dell’uomo di fronte al Mistero della Natura comunque rappresentata come alterità (sia terrestre sia solariana).


Kris dall’incomprensione prima alla paura poi, passa a cercare di dialogare e poi a innamorarsi della creatura fatta di neutrini (e non di atomi) che rappresenta la moglie. Più la creatura prende coscienza di sé, più lui si innamora e allo stesso tempo si dispera nei ricordi di un passato con cui non si è mai riconciliato e pieno di sensi di colpa.
Il cinema di Tarkovskij ha come tema portante questo bisogno di rappresentazione della natura, della solitudine dell’uomo (La casa isolata e la Zona in Stalker; la casa di campagna di Nostalghia; la taiga di Sacrificio) con inquadrature che sono long take messi in serie in modo addizionale e lineare. La fissità scopica sul mondo e sull’uomo, la pulsione verso l’Altro (sia esso interiore che esteriore) si delineano attraverso un’immagine-tempo di deleuziana definizione, in cui il movimento dell’anima e dei sentimenti dei personaggi sono rappresentati attraverso una messa in quadro che si dilata temporalmente nello spazio della visione.
Così, Solaris diventa un esempio di messa in scena del Tempo-Spazio all’interno dell’inquadratura e parla allo spettatore al proprio io interiore, ai sentimenti nascosti di solitudine (così come si è comunque soli nella visione collettiva della sala cinematografica) e di caducità della vita stessa.
La seconda parte di Solaris quindi si trasforma in un confronto tra scienza razionale e filosofia irrazionale, tra conoscenza e accettazione del Mistero, tra fideismo cieco e ricerca di una spiegazione. L’essere che materializza la forma della moglie di Kris, Hari, nel momento che prende coscienza di sé, si rende conto anche del dolore provocato a Kris e in una coazione a ripetere, si suicida con dell’ossigeno liquido. Ma essa vive perché vive la memoria nell’inconscio dell’uomo e si assiste alla sua contorsione corporea ed emotiva, della rinascita davanti a Kris, o meglio del ritorno da una diversa alterità, quella del Non-Essere.


Del resto, per far finire questo monologo da parte di Solaris (il tentativo di comunicare con la materializzazione dell’inconscio umano), i due scienziati trovano una doppia soluzione: da una parte inviare l’encefalogramma di Kris (che ha il contatto più avanzato e profondo con l’Altro-Cosa) e allo stesso tempo creare una macchina che annichilisce i neutrini, così da eliminare per sempre le forme materializzate. L’esperimento scientifico sembra riuscire: gli “ospiti” scompaiono (e la prima a sottoporsi al trattamento è il simulacro di Hari); Solaris recepisce l’encefalogramma di Kris provocando nuovi e numerosi sommovimenti sulla propria superficie. 


Per Kris forse è ora di ritornare sulla Terra e infatti nell’ultima sequenza abbiamo lui nella dacia paterna in mezzo alla natura terrestre e inginocchiato chiede perdono al padre, per lenire i sensi di colpa. Ma, con un lento movimento all’indietro della macchina da presa, ci accorgiamo che si tratta di un’isola sorta sulla superficie amniotica di Solaris: l’irrazionale quindi ha il sopravvento; l’inconscio prende forma nella sua totalità; il Mistero dell’Altro-Cosa rimane intatto.
Vincitore del Gran Premio della Giuria al 25° Festival di Cannes nel 1972, Solaris rimane un grande esempio di cinema di fantascienza e uno dei tasselli fondamentali per la comprensione della breve, ma intensa, filmografia di Andrej Tarkovskij e del suo cinema poetico e umanistico, fatto di sequenze e di immagini  di ampio respiro, che nel trentennale della scomparsa è ancora attuale e necessario.
Antonio Pettierre


“Rassegna Andrej Tarkovskij”, Fondazione Cineteca Italiana, Spazio Oberdan, Sala Alda Merini a Milano fino al 4 ottobre 2016 http://oberdan.cinetecamilano.it/eventi/andrej-tarkovskij/ 

sabato, settembre 24, 2016

LA VITA POSSIBILE


La vita possibile
di Ivano De Matteo
con Margherita Buy, Valeria Golino, Andrea Pittorino Italia, 2016
genere, drammatico
durata, 100'



Anna abbandona la sua abitazione romana insieme al figlio tredicenne Valerio, per sfuggire a un marito violento che la tormenta e che non si ferma nemmeno difronte a denunce e diffide. La donna si rifugia a Torino, nel microscopico appartamento soppalcato di Carla, attrice teatrale squattrinata ma ricca di entusiasmo, assai generosa nell'accogliere a braccia aperte l'amica in difficoltà. A Torino Anna cerca lavoro e una vita sicura per sé e per suo figlio, ma Valerio patisce la lontananza dal padre e dagli amici romani e cerca di alleviare la propria solitudine unendosi a due stranieri: una prostituta dell'est che potrebbe essere sua sorella maggiore e un ristoratore francese ex calciatore e, si dice, ex carcerato.

Dopo "La bella gente", "Gli equilibristi" e "I nostri ragazzi", Ivano De Matteo torna a raccontare una famiglia italiana di oggi, scegliendo l'ambiente borghese, che conosce a fondo e che è emblematica per rappresentare la crisi economica e sociale in corso nel nostro Paese. La sua attenzione è sempre per i più fragili: in questo caso Anna, vittima di un prepotente manesco, Valerio, esposto all'isolamento e alla paura, e Carla che, pur essendo caratterialmente ottimista, si ritiene fallita nel lavoro e nella vita, poiché non ha costruito né una famiglia né una carriera. In particolare la parabola di Valerio è la ricerca di un'identità maschile della quale non doversi vergognare, passando attraverso i punti nodali del percorso di crescita di un ragazzo italiano: il calcio, il sesso, la bicicletta.

Il passo della narrazione è lento, anche se il montaggio sagace di Marco Spoletini aiuta ad eliminare tempi morti ed eccessivi sentimentalismi. Resta, però, qualcosa di inerte e di irrisolto. Quel che manca a "La vita possibile" è un forte equilibrio fra le parti dolenti e quelle che potrebbero portare alla possibilità della rinascita suggerita dal titolo, che arriva solo in extremis, dopo che i protagonisti hanno affrontato una serie continua di peripezie.


"La vita possibile" è un melodramma, ma, a tratti, anche una storia di rivalsa e di riscatto: sarebbe stato più opportuno decidere per un genere solo, portandolo fino in fondo. Contribuisce a sminuire la credibilità della pellicola il personaggio di Valerio, che, se da un lato gode di una libertà forse esagerata per un tredicenne, dall'altro mostra comportamenti e reazioni da bambino, più che da preadolescente. Questo è in parte spiegabile con il trauma che ha vissuto, in parte però sembra denotare una scarsa conoscenza del mondo dei giovanissimi di oggi, cresciuti di fronte a Internet e ai tg: ragazzi per i quali, per esempio, la concretezza del lavoro di una prostituta non sarebbe certo una sorpresa.
Molto più convincente è la descrizione della stupidità di certe leggi inadeguate, che in Italia non tutelano le donne malmenate o i loro figli. Si fa fatica, però, a credere che un padre che non ha rinunciato alla patria potestà e che si comporta verso la famiglia con atteggiamento proprietario non mobiliti la polizia per rintracciare il proprio figlio minorenne, fatto scomparire dalla madre. 
Riccardo Supino

giovedì, settembre 22, 2016

SPIRA MIRABILIS

Spira Mirabilis
di Massimo D'Anolfi, Martina Parenti
con Marina Vlady, Leola One Feather, Shin Kubota
Italia, 2016
genere, documentario
durata, 121'





Il primo film italiano in concorso alla Mostra del cinema non fa nulla per nascondere le proprie ambizioni rifacendosi fin dal titolo - "Spira Mirabilis", la spirale meravigliosa come venne definita dal matematico Jackob Bernoulli - a ideali di bellezza e di infinito che rasentano il divino. In realtà nel lavoro di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti ogni cosa ha origine da principi concreti e diremmo quasi matematici che sono il frutto di un agire umano incessante e propositivo. In questo senso "Spira Mirabilis" lungi dall'essere una racconto avulso dalla realtà si immerge nella contemporaneità per trascenderla attraverso un'esperienza (cinematografica) che impone allo spettatore il recupero di facoltà sensoriali - e i primis della vista - impigrite dall'overdose di immagini al quale quotidianamente è sottoposto. Rieducare lo sguardo per rieducare la nostra anima: sembra questo il significato ultimo di un film come "Spira Mirabilis" che arriva nel concorso con la sua anima aliena per portarci sulle tracce di ciò che non riusciamo più a vedere. Sarà forse per questo che l'immagine più significativa del film (attraverso la quale è possibile osservare la cellula di una medusa immortale), quella utilizzata per la campagna promozionale, è il risultato di un ingrandimento effettuato al microscopio in cui siamo in grado di cogliere ciò che di solito sfugge a occhio nudo. Di certo "Spira Mirabilis" ha bisogno di un atto di fiducia da parte di chi lo guarda, al quale viene richiesto di accettarne lo forma anti narrativa per poter entrare in sintonia con il flusso di immagini e informazioni proiettate sullo schermo. Meno organico de "L'infinita fabbrica del Duomo" che a suo tempo fu girato in un unico luogo e maggiormente poliedrico per il fatto di seguire più filoni narrativi (cinque come gli elementi che formano la terra) ambientati in diversi angoli del mondo, "Spira Mirabilis" è ancora una volta la risultante di un puzzle dove il Tutto deriva dall'insieme delle singole parti, tenute insieme da un montaggio che fa ricorso ad assonanze poetiche ed a suggestioni impercettibili.

Abbiamo quindi l'inserto dedicato alla terra in cui i registi ritornano sull'episodio relativo alla fabbricazione delle statue del Duomo di Milano già documentata nel lungometraggio precedente; e poi l'acqua messa in campo per illustrare le diverse fasi che sono necessarie a uno scienziato per generare esemplari di una medusa dotata del dono dell'immortalità, l'aria, contemplata nello strumento costruito e suonato da due musicisti artigiani, il fuoco, ripreso negli esponenti di un'antichissima comunità che cerca di sopravvivere al sopravanzare della modernità e ancora l'etere, rappresentato dalla voce di Marina Vlady che riprende le parole dell' "Immortale" di Borges.



Strutturato in maniera classica con le sezioni dedicate ai diversi argomenti che si incrociano alla maniera dei film ad episodi "Spira Mirabilis" procede attraverso una coerenza che non è solo quella di sincronizzarsi su una progressione che procede per tutti nella stessa direzione cronologica e con un minutaggio assegnato in maniera equilibrata. Esiste infatti - ed è la cosa più bella del film - una corrispondenza tra la meraviglia che è propria della ricerca di assoluto di cui si rende artefice "Spira Mirabilis" e quella che invece appartiene allo sguardo dello spettatore; il quale è portato a cogliere il senso ultimo di ciò che sta vedendo in maniera tutt'altro che immediata ma attraverso una serie di disvelamenti successivi e di piccole epifanie (una su tutti quella del puntino rossastro che altri non è che la medusa capace di ringiovanire) che pur aggiungendo qualcosa alla sua conoscenza rimandano continuamente l'appuntamento con una piena comprensione delle cose. Un po' come succede nel corso della vita di cui "Spira Mirabilis" è splendido simulacro. All'anteprima della stampa avvenuta alla Mostra di Venezia sono stati molti i posti lasciati vuoti anzitempo. Il che non è sempre un segno negativo.
(pubblicato su ondacinema.it)

VENEZIA 73: I MAGNIFICI SETTE

I magnifici sette
di Antoine Fuqua
con Denzel Washington, Ethan Hawke, Chris Pratt
Usa, 2016
genere, western
durata, 132'


Remake del western del 1960 diretto da John Sturges "I magnifici sette" di Antoine Fuqua arrivava alla Mostra dopo aver inaugurato il festival di Toronto carico di spunti che lo rendevano diversi dai semplici blockbuster. A cominciare dal modo con il quale gli autori avrebbero fatto rivivere i fasti di un classico della cinematografia e poi per verificare in che modo la scrittura metropolitana di Nic Pizzolato (True Detective) si sarebbe adattata alla mitologia e agli archetipi propri del genere western. Dal canto suo il discontinuo Fuqua ritrovava gli attori - Denzel Washington e Ethan Hawke - che avevano contribuito ad alzarne le quotazioni commerciali oltre al divo in ascesa Chris Pratt chiamato a confermare l'ascendente da eroe del cinema avventuroso. Solitamente esuberante Fuqua non riesce mai a trovare il ritmo e deve fare i conti con una sceneggiatura monocorde e poco generosa nei confronti dei personaggi che per questa ragione tendono a perdersi nella confusione generale.
(pubblicato su ondacinema.it/speciale 73 festival di Venezia)

mercoledì, settembre 21, 2016

VENEZIA 73: FRANTZ


Frantz
di Francois Ozon
con Pierre Niney, Paula Beer
Francia, 2016
genere, drammatico
durata, 113


Preceduto dagli annunci della stampa francese che a proposito di "Frantz" aveva speso parole importanti al punto di scommettere su una sua possibile vittoria del suo rappresentante il film di Francois Ozon conferma la tendenza di una filmografia altalenante per l'incapacità del regista di mantenersi con costanza ai livelli delle sue opere migliori . Eppure, quella appena passata alla Mostra di Venezia aveva tutte le caratteristiche per ben figurare. La trama infatti, ambientata nella Germania del 1919 - quella uscita distrutta e sconfitta dal grande guerra - si avvaleva di un contesto storico che - caso più unico che raro - permetteva al cineasta di agganciarsi alla cronache più drammatiche della nostra contemporaneità, per le analogie tra le traumatiche conseguenze del conflitto bellico sulle vite dei personaggi con quelle sofferte da chi oggi si ritrova più o meno nella stessa condizione. Il film racconta dell'incontro tra una vedova di guerra e un musicista francese venuto a piangere sulla tomba del marito di lei a cui l'uomo era unito da amicizia fraterna. Assumendo che i parenti dello scomparso ignorano l'esistenza del suddetto legame, il lungometraggio mette in scena una storia d'amore che nasce e si alimenta sulla scia di un'assenza - quella di Frantz - che offre lo spunto per ragionare sul tema dell'identità, della dicotomia tra realtà e apparenza e sulla menzogna come condizione indispensabile della condizione umana che da sempre sono cari al cinema di Ozon. Questa volta però l'impeccabilità delle qualità tecniche (a cominciare dall'elegante bianco e nero della fotografia di Pascal Marti) il rigore formale e il controllo della messinscena non sono sufficienti a riscattare un film bello ma algido

martedì, settembre 20, 2016

BLAIR WITCH

Blair Witch
di Adam Wingard 
con James Allen Mc Cune, Valorie Curry, Callie Hernandez
USA, 2016
genere, horror
durata, 89'


Quando nel 1999 Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez realizzarono "The Blair Witch Project" l'utilizzo del found footage come espediente per elevare la verosimiglianza di delle immagini e dei contenuti presenti nei lungometraggi di finzione non era diffuso come oggi. In questo modo si spiega il successo di un film girato in maniera amatoriale e con una produzione indipendente e che però riuscì a conquistare le platee per il fatto di poter contare sul fraintendimento creato ad arte dai registi; i quali attraverso un'abile strategia di marketing riuscirono a diffondere (via web) informazioni che in qualche modo convinsero una parte dell’opinione pubblica circa  l’autenticità del materiale proiettato sullo schermo.  

Non potendo più contare sull’effetto sorpresa scaturito dall’escamotage del falso documentario - diventato nel corso degli anni un must del genere horror, - Adam Wingard procede in senso opposto enfatizzando il carattere fittizio del suo “Blair Witch” a partire dall’utilizzo del colore, in questo caso preferito al bianco e nero sporco e sgranato dell’originale; e poi divertendosi a confezionare un sequel che sotto mentite spoglie altro non è che il remake del primo film di cui “Blair Witch” si limita a cambiare solo le premesse che spingono i ragazzi ad addentrarsi nella foresta infestata dalla terribile strega. 


Qui infatti la mattanza è innescata dalla convinzione di uno dei protagonisti di poter ritrovare Heather, la sorella a suo tempo scomparsa nella spedizione filmata da Miryck e Sanchez. Per il resto, ove si eccettui l’aggiornamento delle tecniche di ripresa impiegate dai ragazzi per filmare il loro reportage, con il drone che si aggiunge a cellulari e videocamere, la forma del dispositivo rimane invariata tanto nell’uso del fuori campo, a cui è devoluto il compito di provocare lo spavento celando le sembianze della malefica persecutrice, che nella predominanza di sequenze girate in soggettiva, alle quali si devono il senso di claustrofobia e la dolorosa afflizione tipiche del brand.  Operazione puramente commerciale “The Blair Witch” è destinato a rimanere lontano dagli strepitosi incassi totalizzati dal suo riferimento cinematografico. 

lunedì, settembre 19, 2016

NOVITA HOMEVIDEO: WARCRAFT


 DISPONIBILE IN DIGITAL HD, 
BLU-RAY3D, BLU-RAY™ ,  DVD E VIDEO ON DEMAND (VOD)
IN 4K ULTRA HDTM  DAL 28 SETTEMBRE 2016 

                   CON UNIVERSAL PICTURES HOME ENTERTAINMENT ITALIA


Warcraft
di Duncan Jones
con Ben Forster, Paula Patton, Travis Fimmel
USA, 2016
genere, fantasy
durata, 123'




Tra le molte suggestioni messe in circolo dall'uscita di “Warcraft” ce n’erano due che risultavano più urgenti di altre. La prima, relativa al soggetto del film che come sappiamo è tratto dai personaggi di un famoso videogame, scaturiva dalla curiosità da parte di milioni di adepti di capire se la trasposizione cinematografica realizzata da Duncan Jones fosse stata in grado di cogliere lo spirito della materia che l’aveva ispirata.  La seconda invece, riguardava proprio il regista del film che, già in odore di culto per due lungometraggi (“Moon” e “Source Code”) di fantascienza realizzati con mezzi da cinema indipendente e comunque capaci di piazzarsi ai vertici delle classifiche stilate dagli appassionati del genere in questione, era chiamato a una confermare la propria fama dimostrandosi in grado di controllare la gigantesca macchina produttiva messa in piedi dalla Universal Pictures (centocinquanta milioni di dollari di costo a fronte dei 5 e dei 30 spesi dal regista per realizzare i film precedenti) assumendosi i rischi connessi con una tipologia di format – espressione del connubio tra cinema e video giochi -  che spesso e volentieri si è rivelato (“Max Payne” e “Prince of Persia ) incapace di conquistare i favori del box-office.






Detto che anche per “Warcraft” valgono le stesse considerazioni espresse in sede di giudizio per altri blockbuster, e cioè che la mancanza dei dati relativi alla tenuta commerciale del film - gli unici in grado di giustificarne l’onerosità degli investimenti - impediscono di formularne una valutazione certa e definitiva, dobbiamo dire che per quanto ci riguarda Duncan Jones si dimostra all’altezza della situazione. In primo luogo perché, pur lavorando su un materiale già codificato, “Warcraft” riesce ad emanciparsi dalla sua fonte presentandosi con le forme di un cinema tecnologico e spettacolare che si serve della sua magnificenza visiva e delle migliori possibilità della computer grahics per supplire alla mancanza di interattività tipica del prodotto da cui prende origine. E ancora più importante perché, alle prese con un genere – il fantasy – oramai inflazionato sia in termini di fantasia (“Il signore degli anelli” e “Avatar” sono ampiamente citati) che di meraviglia, Jones punta sull’empatia del fattore umano, riconducibile in parte alla scelta di facce e di corpi quasi del tutto inediti su questo tipo di palcoscenici. Sarà forse per questo che nella strenua lotta tra il bene e il male, e quindi, tra gli abitanti del regno di Azaroth e l’orda di Orchi intenzionata a conquistarlo, a rimanere nella memoria sono più le inadeguatezze dei vari protagonisti – resa con efficacia da attori scelti per l’adattabilità al ruolo e non per il divismo - che il loro straordinario coraggio. Con i personaggi di Garona (Paula Patton) e di Lothar (Travis Fimmel) destinati a mettere d'accordo l'intero spettro del pubblico pagante.

domenica, settembre 18, 2016

L'ESTATE ADDOSSO

L'estate addosso
di Gabriele Muccino
con Brando Pacitto, Matilda Lutz
Ita, USA 2016
genere, commedia, drammatico
durata, 103'


Diceva Alberto Barbera nel consuntivo sulla Mostra di Venezia che in assenza di capolavori la selezione dei film italiani nel concorso ufficiale corrispondeva alla volontà di dare conto delle tendenze che attraversano con più forza il nostro movimento cinematografico; e quindi da una parte di premiare le caratteristiche di sperimentazione e di novità apportate alla causa del genere documentario presente con due degli esponenti più coraggiosi e innovativi (i Parenti e D’Adinolfi di “Spira Mirabilis”), dall’altra di dare manforte all’industria dell’intrattenimento con scelte (“Piuma” e “Questi Giorni”) più discutibili almeno a questo livello ma sicuramente giustificate in termini di numeri e di successo popolare. In questo ambito “L’estate addosso” di Gabriele Muccino presente alla Mostra in una sezione collaterale era chiamato a fare da sparring partner ai vari Roan Johnson e Giuseppe Piccioni con una commedia che alla pari di quelle in gara narrava - attraverso storie d’amore e d’amicizia - la difficoltà di crescere della gioventù contemporanea. Per farlo Muccino aveva deciso di tornare all’antico senza però tradire l’anima del suo ultimo cinema, e quindi di raccontare un viaggio che dall’Italia avrebbe portato i suoi ragazzi in America e in particolare in quella San Francisco in cui aveva ambientato “La ricerca della felicità”. 


La coesistenza tra vecchio e nuovo riesce però solo in parte perché la combinazione tra i dolori sentimentali di “Come te nessuno mai” riassunti dalle intermittenze sentimentali tra Marco (Brando Pacitto, arruolato anche nel film di Johnson) e Maria (la fotogenica Matilda Lutz), complice una sceneggiatura poco ispirata, faticano a coesistere con la rappresentazione dello spazio americano così come era stato filmato da Muccino negli ultimi film della sua filmografia. Ridotte a mero depliant la geografia umana e territoriale di San Francisco offre a Muccino la possibilità di un outing artistico (gli amici americani Matt e Paul sono una coppia gay) che lo segnala come autore attento al sociale senza però fargli fare un’auspicabile passo in aventi in termini di maturità registica. Al contrario “L’estate addosso” è un ibrido che non regge il confronto con gli altri film dell’autore italiano. 

LA FOTO DELLA SETTIMANA




























"4 mesi, 3 settimane e 2 giorni" di Cristian Mungiu (Romania, 2007)

sabato, settembre 17, 2016

IL FIUME HA SEMPRE RAGIONE

Il fiume ha sempre ragione
di Silvio Soldini 
con Alberto Casiraghy, Josef Weiss 
Italia-Svizzera, 2016 
genere, documentario 
durata, 72' 


Alberto Casiraghy e Josef Weiss non sono due artisti nel senso che comunemente intendiamo. Sono tipografi che, a dispetto dei tempi, continuano a svolgere il proprio lavoro artigianalmente. Casiraghy è un uomo di poesia, aneddoti e aforismi (uno dei quali ha dato il titolo al film). La sua casa dice molto di lui: è piena di foto, disegni, memorabilia, statuette, cimeli vari, ma soprattutto tanti libri e lettere manoscritte. Sono tutti oggetti carichi di significato, ognuno con una propria storia. Molti artisti, disegnatori e poeti si fermano nella sua bottega a Osnago e insieme a lui stampano le loro opere per mezzo del suo gioiellino, la sua reliquia sacra: una stampante meccanica a caratteri mobili. Josef è grafico e restauratore di libri. Il suo atelier a Mendrisio, in Svizzera, nel Canton Ticino, viene definito da Casiraghy, con l'acume che lo contraddistingue, un "convento laico", a sancire l'aura di sacralità che avvolge il lavoro dell'artigiano. La dedizione e la maestria con cui praticano la loro arte è ciò che accomuna queste due figure. Silvio Soldini, autore con un'esperienza consolidata nel cinema documentaristico, che ha avuto inizio nel 1986 con "Voci celate", realizza un ritratto di due figure dei nostri giorni che consapevolmente hanno deciso di non smettere di praticare la stampa e la grafica, contro le logiche moderne che allontanano sempre di più dall'apporto umano. L'arte manuale è invece viva, vissuta, autentica e, proprio per questo, talvolta anche piacevolmente fallace. I


l regista milanese osserva i due poeti della tipografia in silenzio, seguendoli nella loro quotidianità. Con la stessa cura con cui Josef piega carta e cartoncino per riaccomodare un libro, taglia e cuce le carte e rifinisce i colori per la stampa, Soldini intesse un racconto fatto di dettagli e attenzione al particolare, esaltando la poesia della manualità: ad esempio stringendo sulle mani operose di Josef. La colonna sonora è affidata ai rumori ambientali, ai fruscii dei polpastrelli che scorrono sulla carta mentre viene piegata, stesa, e dai rumori sferraglianti, ma mai troppo invasivi, della macchina a caratteri mobili. Il documentario alterna in maniera molto armonica e complementare le sequenze nelle botteghe dei due tipografi. Così il regista struttura il film come il piegarsi di un foglio di carta che man mano mostra prima un lato poi l'altro. È un film in cui la manualità e la tipografia vengono esaltate come forme d'arte, che ci riportano contemporaneamente all'essenzialità delle parole e, di conseguenza, dei pensieri. L'attenzione per il carattere, per il dettaglio ha a che fare con la formulazione del pensiero, delle massime, degli aforismi, delle poesie in cui, come è noto, la posizione delle parole, delle sillabe, così come delle lettere non è casuale, ma è alla base dell'atto artistico-creativo. In fondo, anche lo stesso racconto audiovisivo si compone di un montaggio di tanti piccoli elementi visuali e sonori: i fotogrammi che si susseguono e si organizzano dando luogo al film stesso.
Riccardo Supino

venerdì, settembre 16, 2016

DEMOLITION - AMARE E VIVERE

Demolition - Amare e vivere
di  Jean Marc Vallèe
con Jake Gyllenhaall, Naomi Watts, Chris Cooper, Polly Draper
Usa, 2015
genere, drammatico
durata, 100'


Il cinema di Jean Marc Vallèe ha spesso a che fare con la perdita di qualcosa o con la morte di qualcuno. Con entrambe le cose avevano a che fare sia il Ron Woodroof di “Dallas Buyers Club” impegnato a prolungare esistenze già segnate dalla morte o la Julia di “Wild” che reagiva alla fine del matrimonio e alla scomparsa della madre attraversando il deserto in totale solitudine. In tal senso anche “Demolition”, il suo nuovo film, conferma questa tendenza perché il bancario di successo che dopo la morte della moglie inizia a fare a pezzi la propria casa e anche la sua vita (da qui il doppio significato del titolo) è parente stretto dei personaggi interpretati da Matthew McConaughey e Reese Witherspoon. Come questi ultimi infatti anche il Davis di Jake Gyllenhaall fa corrispondere la perdita delle sicurezze esistenziali con la scoperta di una realtà diversa da quella che aveva immaginato. E se nel lungometraggio del 2014 il cambiamento di Julia era segnato dal mutamento del paesaggio fisico (il deserto appunto) in “Demolition” il palesamento della verità avviene attraverso la rivelazione di dettagli - del menage matrimoniale e soprattutto dei segreti della moglie - che diventano il viatico per una presa di coscienza dolorosa ma salvifica.


Abituato a fare dei suoi personaggi il motivo portante della storia Vallèe anche stavolta tira fuori il meglio dai suoi attori e si affida alla sensibilità di Gyllenhaall per suscitare un’empatia in parte frenata da una sceneggiatura che anziché farci sentire il dolore del protagonista tenta di spiegarlo attraverso le parole che vengono messe in bocca ai personaggi. E anche la debolezza di taluni espedienti narrativi come quello della lettera di reclamo che permette a Davis di conoscere la segretaria interpretata da Naomi Watts offre la misura di come il film invece che approfondirle preferisca semplificare le zone più oscure della sua storia.

giovedì, settembre 15, 2016

QUESTI GIORNI

Questi giorni
di Giuseppe Piccioni
con Margherita Buy, Filippo Timi, Maria Roveran, Marta Gastini
Italia, 2016
genere, drammatico
durata, 120'


Cantore della generazione post sessantottina che agli inizi degli Ottanta si ritrovò priva degli ideali politici e culturali che nel bene e nel male avevano segnato l'esistenza di chi l'aveva preceduta, Giuseppe Piccioni attraverso i suoi film ha contribuito ad elaborare e poi, per volte successive, a definire il coté sentimentale ed emotivo di quella terra di nessuno che è stato il periodo seguito alla conclusione dell'età del terrorismo. Figlio del proprio tempo e autore a tutto tondo Piccioni in sede critica ha pagato in negativo tali caratteristiche che sono state scambiate più come la volontà di prendere le distanze da eventuali discorsi legati alla vecchia militanza che la fotografia reale di ciò che significava essere giovane nel periodo in questione. E questo, pur in presenza di qualità cinematografiche che erano parse oltremodo evidenti in quelli che ad oggi sono i suoi film migliori ossia "Fuori dal mondo", "Luce dei miei occhi" e "La vita che vorrei". Rispetto ai titoli appena citati "Questi giorni" - presentato in concorso della Mostra di Venezia - mantiene intatti gli interessi del regista come pure il minimalismo poetico con cui egli guarda alle vite dei suoi personaggi. A cambiare è., però, l'anagrafe del materiale umano, decisamente ringiovanito rispetto alle ultime uscite e, di conseguenza, i modelli (soprattutto antropologici e sociali) a cui fare riferimento. A fare da filo conduttore della storia non è più il malinconico rimpianto del tempo che fu né la paura di crescere di quarantenni delusi e disamorati. Caterina, Liliana, Anna e Angela infatti sono ragazze comuni di cui Piccioni racconta la perdita dell'innocenza e il transito alla vita adulta attraverso i dubbi, le contraddizioni e le pene che siamo soliti ritrovare nei cosiddetti riti di passaggio.
ven
Date le premesse "Questi giorni" accetta di confrontarsi con un genere cinematografico inflazionato e stanco per le molte repliche a cui è stato sottoposto il canovaccio scelto da Piccioni. Il quale, consapevole dei rischi, decide di tradurre in immagini una sceneggiatura che riprende senza soluzione di continuità situazioni e luoghi della giovinezza che abbiamo conosciuto nelle commedie dei vari Muccino e Veronesi solo per fare due nomi - i più importanti - tra i tanti italiani che si sono esercitati sul tema. L'accelerazione necessaria a far traboccare il vaso e quindi a sollevare le problematiche che porteranno al cambiamento è, neanche a farlo apposta, una vacanza dalla vita di tutti i giorni e, perciò, il viaggio a Belgrado organizzato dalle amiche per accompagnare una di loro che ha trovato lavoro nella capitale serba. Costellato da tappe intermedie che, tra le altre cose, prevedono l'incontro con gruppo di coetanei stranieri che rischia di minare la coesione del sodalizio femminile, la frequentazione di un cinema occupato (come capitava in "Noi quattro" di Francesco Bruni), e la dolorosa scoperta della malattia che colpisce il personaggio interpretato da Maria Roveran, "Questi giorni" punta a evitare i cliché lavorando sulla forma del girato e scommettendo sulla straordinaria alchimia delle giovani attrici. La sfida è però vinta a metà perché se Marta Gastini (davvero brava) Laura Adriani, Caterina Le Caselle coadiuvate dagli ottimi Filippo Timi (nella parte del professore di cui una delle amiche è innamorata) e Margherita Buy (nel ruolo di madre e parrucchiera) riescono ad emozionare, portandoci più di una volta sulla soglia della commozione, cosi non succede alla messinscena che, specialmente nella prima parte (quella che precede il viaggio), è appesantita da estensioni temporali e scene subliminali che ottengono come risultato quello di rendere macchinosa la narrazione. E anche l'amore verso i personaggi che Piccioni lascia trasudare lungo l'interno percorso filmico non riesce a invertire la rotta di un film già visto.
(pubblicata su ondacinema.it)