martedì, marzo 31, 2009

Gran Torino di Fabrizio Luperto

Il prolifico Clint Eastwood pochi mesi dopo CHANGELING, torna prepotentemente sugli schermi con GRAN TORINO, titolo ispirato dal nome dell'auto prodotta dalla Ford e resa celebre dalla serie tv STARSKY E HUTCH.
Scrivendo di CHANGELING avevo detto che il film era l'ennesimo pugno sferrato dal regista americano impegnato da anni a demolire il mito del sogno americano.
GRAN TORINO probabilmente rappresenta il colpo del definitivo ko.

Walt Kowalsky è un ex operaio della Ford burbero e razzista, incattivito ancor di più dalla recente vedovanza. Non ha nessuna stima dei suoi figli e delle loro famiglie e odia particolarmente i nipoti. Vive da solo in un quartiere ghetto della periferia di Detroit invaso da gang giovanili e abitato quasi esclusivamente da immigrati orientali.
Il vecchio Kowalsky passa le giornate seduto sul patio della sua casa, a difesa del suo territorio, bevendo birra e ammirando la sua vecchia Ford Gran Torino del 1972.Ovviamente, il suo razzismo lo porta ad odiare a priori anche i giovani fratelli Lor, i suoi nuovi vicini di casa di origine Hmong.Superate le diffidenze e le incomprensioni iniziali il vecchio Walt instaura un rapporto quasi paterno con i due giovani.
Questo film capolavoro, tecnicamente ineccepibile, che chi conosce il cinema di Clint Eastwood troverà dalla trama prevedibile, ha più livelli di lettura e probabilmente in futuro molte pagine saranno riempite da storici e critici di cinema nel tentativo di analizzarlo nella sua completezza.
Personalmente mi limiterò ad esporre le mie considerazioni in merito a quello che Eastwood ci fa vedere sullo schermo e a quello, parallelo alla trama, che il regista americano ci comunica, che ritengo possa essere considerato una sorta di personale testamento cinematografico.
GRAN TORINO, film politicamente scorretto, è senza dubbio un film di frontiera (e qui già siamo al western di Sergio Leone con Eastwood protagonista, sempre ambientato al confine tra Messico e Stati Uniti). E' film di frontiera perchè Walt Kowalsky è l'ultimo americano del quartiere e i suoi vicini Hmong sono una popolazione cacciata dalla propria terra (nel film non viene detto esplicitamente ma proprio come i genitori di Kowalsky, di cui si potrebbe ipotizzare la fuga dalla Polonia invasa dai nazisti).
La frontiera, il limite invalicabile, è rappresentato dal giardinetto di casa, ultimo baluardo da difendere dall'invasione dei barbari orientali.Fortissimi i legami di GRAN TORINO con il cinema recente di Clint Eastwood e in particolare con MILLION DOLLAR BABY, con il quale il cineasta americano ci aveva dato lezione sulla proprietà individuale della vita; aveva criticato aspramente i sussidi statali e chi pretende di campare sulle spalle degli altri; aveva insistito sulla dimensione paterna non necessariamente legata all'anagrafe ma esercitata sulla base delle responsabilità di cui farsi carico dinanzi alle nuove generazioni.
Tutto questo lo ritroviamo in GRAN TORINO, Walt Kowalsky è si razzista, moralista, ma il suo modo di essere è indotto dal mondo violento e immorale che lo circonda.
Walt è un feroce anticlericale che allo stesso tempo disprezza i nipoti che disonorano i riti religiosi; è un reduce di guerra che odia la guerra ma che non esita un minuto ad impugnare le armi per difendere chi è vittima di soprusi, preoccupandosi però non di uccidere, ma di assicurare alla legge i cattivi.
La moralità di Walt Kowalsky è così alta, pura, che quando i fratelli Lor, suoi vicini di casa, vengono aggrediti, il vecchio metalmeccanico si tormenta per non essere riuscito a difenderli e si accanisce contro se stesso facendosi bersaglio.
Infatti, quando affronterà la gang, estrarrà la "pistola" non per colpire ma per indicare il bersaglio.
Molti critici autorevoli hanno visto in questo gesto la redenzione di Walt Kowalsky, personalmente credo che questa interpretazione sia completamente errata, e ahimè forse dettata non da una lettura superficiale del film ma dalla voglia di "assolvere" il Clint Eastwood autore, capace di portare coraggiosamente sullo schermo un film reazionario/moralista che non suscita molte simpatie su certa stampa. Per chi scrive, non c'è alcuna redenzione nel protagonista e infatti nelle parole che chiudono il film, Walt si fa beffe dei suoi figli e nipoti e invita il giovane Thao a non comportarsi come i messicani, le checche, i coatti italiani e coreani ecc.. dimostrando sino in fondo tutta la sua coerenza.
GRAN TORINO, film densissimo, è il riepilogo di tutta la filmografia di Clint Eastwood.
Il regista-attore presta a Walt Kowalsky molto di più del suo volto, gli dona quasi cinquant'anni di carriera con i personaggi più noti da lui interpretati che sono chiaramente riproposti nei gesti e nelle parole del protagonista.
A supporto di questa ultima tesi basti notare i passaggi che sfiorano la commedia pregni di ironia autoreferenziale e da un linguaggio western-poliziesco. Eastwood ha urgenza di dirci delle cose, di lasciare il suo testamento cinematografico, e oltre al linguaggio usa meravigliosamente la macchina da presa non sprecando neanche un'inquadratura.
La vecchia Gran Torino è la sua vita artistica, la lucidatura sono i ricordi e le emozioni passate, il viale dove è parcheggiata è ovviamente quello del tramonto.
Con Walt Kowalsky muore il Clint Eastwood attore, muoiono il "monco" e il "biondo" di Sergio Leone, muore l'ispettore Callaghan di Don Siegel.
Mai più rivredremo sugli schermi il grande Clint, tanto è palese la sua intenzione di salutarci per sempre.
Film immenso che va di molto oltre quello che scorre sullo schermo. Testamento.

venerdì, marzo 27, 2009

Due partite

di Ethan

Il confronto tra due generazioni di donne della borghesia romana, al centro del film e della commedia teatrale di Cristina Comencini, è tristemente superficiale e finisce per sembrare poco più che una caricatura. L’idea di partenza non è male: in trent’anni il cambiamento del ruolo della donna nella società è stato così rapido e profondo da creare contrasti divertenti.
Ma purtroppo la sceneggiatura non è all’altezza, soprattutto per quanto riguarda la generazione più anziana. Il tutto si risolve nel prevedibile racconto di inganni, infedeltà e profonda noia, che negli anni sessanta l’etica "borghese" imponeva alle donne educate e intelligenti. Se si considera il fatto che all’epoca il femminismo era già una realtà, ci si poteva aspettare qualcosa di più. L’unico riferimento al periodo storico di tutto il film è quando viene citata la principessa Grace di Monaco.
La cosa migliore del film è probabilmente il contrasto cromatico tra le due generazioni: alle brillanti tinte pastello scelte per i vestiti, il trucco e gli accessori delle madri si contrappongono le figlie vestite di nero e senza trucco. Queste ultime sono decisamente più credibili e convincenti, anche grazie a dialoghi in cui emergono le loro scelte e le loro conquiste.

giovedì, marzo 26, 2009

Film in sala dal 27 marzo

Dall'altra parte del mare
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Jean Sarto

Fortapàsc
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Marco Risi

Fuga dal Call Center
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Federico Rizzo

I mostri oggi
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Enrico Oldoini

Il caso dell'infedele Klara
GENERE: Drammatico, Noir
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Italia, Repubblica Ceca
REGIA: Roberto Faenza

Legàmi di Sangue
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2006
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Paola Columba

Push
( Push )
GENERE: Azione, Fantascienza, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Paul McGuigan

Racconti Incantati
( Bedtime Stories )
GENERE: Commedia, Fantasy
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Adam Shankman

Teza
( Teza )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Germania, Etiopia, Francia
REGIA: Haile Gerima

Two Lovers
( Two Lovers )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ USA
REGIA: James Gray

mercoledì, marzo 25, 2009

The international

di Ethan

Quando ha cominciato a girare The international, il regista Tom Tykwer non poteva immaginare che la sua pellicola sarebbe arrivata nelle sale con un tempismo incredibile. Spesso ci vuole così tanto tempo per fare un film che quasi mai risulta "di attualità". Ma se in un thriller uscito in questo periodo "il cattivo" è una grande banca, con sedi e tentacoli in tutto il mondo, siamo chiaramente di fronte a un’eccezione.
Certo, i crimini della banca in questione (tra cui fornire armi a dittature africane) sono molto più efferati che distribuire ipoteche e mutui traballanti. Ma resta il fatto che il ruolo del cattivo calza a pennello a una grande istituzione finanziaria. Il regista si dev’essere divertito molto ad ambientare questa storia "multinazionale", in cui un ristretto circolo di cattivissimi mitteleuropei decide della vita e della morte dei suoi clienti, in alcune delle strutture architettoniche più agghiaccianti d’Europa.
Contro questa monolitica istituzione senza volto si erge un uomo solo, il detective Louis Salinger (Clive Owen), che strada facendo si porta dietro un procuratore newyorchese (Naomi Watts), catapultata nel film senza motivi particolarmente validi.
Sicuramente alcune scene d’azione sono esagerate (una sparatoria nel Gugghenheim? Finalmente qualcosa di emozionante nel mondo dell’arte!) e i dialoghi sembrano scritti con le massime che si trovano dentro i biscotti cinesi della fortuna. Ma questo cinico e soddisfacente attacco al mondo dell'alta finanza piacerà senza dubbio agli amanti dei thriller che giocano con le nostre paranoie.

Italiani Brava Gente - festival documentario di riflessione sulla società italiana

Il prossimo week end 27-29 marzo 2009, a Firenze, avra' luogo "Italiani Brava Gente - Festival documentario di riflessione sulla società italiana", nella sua prima edizione.
Cinque i documentari in concorso.

Per saperne di più (e raggiungere il festival):
http://www.italianibravagente.info/



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martedì, marzo 24, 2009

Ponyo sulla scogliera

(di Ethan)

Con la sua fanciullesca versione del classico di Hans Christian Andersen, La sirenetta, Hayao Miyazaki dimostra ancora una volta tutta la sua creatività.
Ponyo, la principessa dei pesci rossi, è una creatura degli abissi che somiglia un po’ a un pesciolino, un po’ a un bambino avvolto in un pigiama troppo largo.
Dopo aver conosciuto Sosuke, un vero bambino di cinque anni, Ponyo decide di voler diventare un essere umano in carne e ossa e passa tutto il resto del film a tentare di trasformarsi.
Per raggiungere il suo obiettivo e non essere trasformata in schiuma (il prezzo da pagare per il suo fallimento), Ponyo dovrà rinunciare a tutti i suoi poteri magici e conquistare l’amore di Sosuke.

In alcuni momenti il film rasenta il caos, ma è difficile criticare una storia raccontata dal punto di vista di un bambino, sulle preoccupazioni che può avere un bambino e dichiaratamente rivolta a un pubblico di bambini.
E comunque anche gli adulti potranno apprezzare la struttura molto libera della storia.
Incantevole e poco sofisticata, Ponyo sulla scogliera è un film su un bambino raffigurato in modo autentico, non come gli adulti si aspettano che sia.

Vista la magia dei suoi ultimi film, possiamo solo sperare che Miyazaki decida di rinviare il più possibile il suo ritiro dal mondo del cinema.

In attesa di Pedro

Già nelle sale spagnole, il nuovo film di Pedro Almodovar, "Los Abrazos Rotos", uscirà negli States il prossimo 6 novembre. Pertanto per la visione dello stesso in Italia suppongo si dovrà attendere la fine dell'inverno prossimo.

Nel diciannovesimo film di Pedro Almodovar si intrecciano dramma, commedia e thriller.
Il film, che vede protagonista una delle più sensuali muse di Almodovar, Penelope Cruz, ruota attorno alla passione di Mateo e di Matel per la medesima donna, Lena (la Cruz).

Almodovar ha dichiarato: "E' un film romantico, con tante storie d'amore incrociate, tutte molto intense. Ma c'è anche una storia al di sotto di tutte le altre: è la mia storia di amore con il cinema. E' una dichiarazione d'amore al cinema: per questo ci sono tanti riferimenti a tanti film".

Che bello! Non vedo l'ora che esca la pellicola, per tuffarmi, ancora una volta, e senza inibizioni, nel magico mondo di Pedro!

Fonte

sabato, marzo 21, 2009

UN SOGNO LUNGO UN GIORNO

(ONE FROM THE HEART)

Se i film assomigliano alla vita, quello che Francis Ford Coppola realizzò nell’ormai lontano 1982 rappresenta forse, uno dei più graditi omaggi per tutti gli appassioniati che vivono le storie del grande schermo immedesimandosi o, meglio ancora, identificandosi nei personaggi e nel mondo che essi portano avanti. Un popolo di sciagurati che finisce per vivere la vita come una finzione ed il cinema come un fatto reale, e così facendo, finisce in un dialettica esistenziale fatta di voli pindalici e rovinose cadute nella prosaicità della realtà quotidiana. Coppola acuisce la dipendenza con una storia d’amore che assomiglia ad una favola per adulti, in cui il sentimento di una relazione che finisce si trasforma in una risacca di colori e musica capace di invertire la natura delle cose.

Dopo essersi avvelenato con le metifiche fatiche di Apocalyps Now, per le incertezze relative alla sua realizzazione, continuamente interrotta da una serie di sventure davvero apocalittiche, ed anche per una relazione matrimoniale messa a rischio da un egotismo peraltro necessario alla grandezza della visione, Coppola decide di realizzare un film che sublimi il recente passato attraverso una dichiarazione d’amore definitiva al cinema ed alla (sua) vita. E, proprio perché il nostro non riesce a non pensare in grande, decide di voltare pagina cimentandosi in un opera da realizzarsi con tecniche avanguardistiche: alta definizione e camere digitali innanzitutto, quelle che oggi permettono a chiunque lo voglia di inventarsi regista ed allora rischiavano un effetto destabilizzante, per la carica innovativa e per lo spirito di democratizzazione implicito nel mezzo, capace di sottrarre il suo utilizzatore al controllo dei grandi studi hollywoodiani. Girato interamente in studio e con la sfarzosa artigianalità tipica dell’età d’oro del cinema americano, Coppola sceglie di ambientare la sua storia a Las Vegas, perfetta nell’incarnare l’estetica di un film che si muove all’interno del binomio finzione/verità, e che il regista fa rivivere riproducendo a grandezza naturale la location principale, quello Strip che rappresenta, con le sue luci e gli sfavillanti Casinò, il “bigger than life” che l’ha resa famosa, e poi, a bilanciare un scenario che si diverte a giocare con le proprie contraddizioni, la strada periferica, quella lontana dalle luci e dal clamore, in cui i due protagonisti hanno vissuto gli alti ed i bassi della loro relazione e dove si ritroveranno al termine di una giornata che assomiglia, per la dilatazione temporale che Coppola ci fa percepire, ed anche per il fatto che si svolge durante un importante festa nazionale, a quella vissuta dal personaggio dell’Ulisse di James Joyce. A completare un simile allestimento il regista utilizza le luci di Vittorio Storaro, un uomo dalla mentalità rinascimentale, per la capacità di andare oltre le convenzioni (basta guardare l’alternarsi della cromatura monocolore che fa da barometro alla meteorologia dell’anima) e come Coppola altrettanto incapace di mettere a tacere la grandiosità dello slancio, e poi, la voce e soprattutto la musica di Tom Waits, malinconico cantore di un umanità marginale e lontana dai riflettori a cui spetta il compito di accompagnare la storia sottolineandone gli stati d’animo ed evidenziandone gli sviluppi. Un ensemble di fuoriclasse che Coppola, artigiano narcisista ed idealista sopraffino, amalgama attraverso il movimento avvolgente della macchina da presa; un magnifico affresco che gioca con la modernità della tecnica trasformando la telecamera in un oggetto onniscente che taglia lo spazio filmico, allargandolo nelle scene del sogno (Las Vegas e la sua vita notturna), quando Hank e Frannie ( dopo la scelta del nome della sua casa di produzione ancora un omaggio al celebre racconto di Salinger) si abbandonano alla possibilità di immaginarsi diversamente felici, o contenendolo, fino a sezionarlo, in quelle in cui la realtà prende il sopravvento, come succede nella scena dell’albergo, quella in cui Jack chiede all’amica di Frannie di aiutarlo a ritrovarla, e noi vediamo la prospettiva tagliata del muro che lo divide dalla sua interlocutrice, oppure nell’abilità con cui il regista sottolinea la profondità di un legame che rimane profondo nonostante la separazione, e mescola all’interno della stesso quadro momenti di un esistenza che li vede fisicamente lontani. Film d’autore dove il desiderio di sperimentare si unisce ad uno sguardo che riconosce le proprie radici: così è difficile non vedere nel personaggio di Nastassia kinski, sensuale circense, echi del mondo felliniano, peraltro richiamati continuamente nella dimensione sognante che avvolge i protagonisti (e se quello che abbiamo visto fosse solamente una loro proiezione?), così come in quello di Frederik Foster il richiamo al Kowalsky Brandiano (seppure in una versione che trasforma la virilità incontenibile di quello nella dolcezza di uno sguardo a cui non si può dire di no), e che dire di Terri Garr, bellezza tutta da scoprire (e che l’occhio di Coppola riesce a valorizzare), una specie di Giulietta degli spiriti, dietro quegli occhiali che la nascondono dalla sua voglia di fuggire verso una vita che fin allora ha solo immaginato ed in posti che ricostruisce attraverso l’allestimento della vetrina del negozio di viaggi che gestisce insieme all’amica. Il film la immortala in un immagine di sapore Chapliniano, quando dopo l’ennesimo litigio raccoglie i suoi vestiti e si avvia, da sola e con una valigia in mano, verso un incerto futuro, e noi la vediamo di spalle, che si allontana lungo la strada illuminata dal riverbero dei neon. Un omaggio ad un cinema ormai scomparso che Coppola fa rivivere in chiave dichiaratamente antinaturalista, enfatizzata dall’uso di sfondi disegnati ed ambienti fortemente stilizzati, quasi sempre risultato di una realtà filtrata attraverso l’emotività della situazione contingente. Ed anche nel romantico sottofinale (ascoltate la canzone “one from the heart” che accompagna quei momenti perché potrebbe cambiarvi la vita) che riprende i fotogrammi conclusivi di Casablanca, con Frannie che sale sull’aereo mentre Hank assiste impotente alla sua partenza, Coppola ribadisce un idea di cinema in cui la modernità dello strumento è messa al servizio della storia e dei personaggi.
Costato circa 25 millioni di dollari (un enormità per quei tempi), “One from the heart” fece incetta di recensioni negative e fu smontato dopo circa una settimana dalla sua uscita; da quel momento Coppola, per far fronte ai debiti della sua realizzazione fu costretto a realizzare opere su commissione in cui non mancò di mostrare lampi del suo talento (Dracula, Rumbe fish) e ritagliate su argomenti di interesse personale (Peggy Sue si è sposata ed i Giardini di pietra riflettono il dramma della morte del figlio maggiore). Terri Garr ebbe modo di lavorare con altri registi della nuova Hollywood ma in generale la sua carriera non mantenne l’eccellenza delle sue premesse anche a causa di una malattia che la costrinse ad abbandonare le scene. Frederik Forrest tornerà a lavorare ancora con Coppola, in questo caso produttore, nel cult “Hammet-indagine a Chinatown” di Wim Wenders, altro film dalla genesi tormentata e dagli esiti disastrosi, per poi defilarsi in comparsate che non hanno reso giustizia alle potenzialità che lo scrivente gli riconosce.

giovedì, marzo 19, 2009

Nemico Pubblico nr 1 - (parte 1) L'istinto di morte

Il biopic Nemico Pubblico nr 1 racconta chi fu Jacques Mesrine e del perchè si guadagò l'appellativo di nemico pubblico numero uno per la Francia e, direi, non solo.

Tratto dall'autobiografia scritta dallo stesso Mesrine in carcere, il film è diviso in due parti e ricostuisce la figura di un gangster mediatico, narcisista e violento.

Il regista Richet costruisce un lungo prodotto concepito come due film autonomi, che utilizzano tutta la spettacolare furia del miglior cinema d'azione francese.
Segnato profondamente dall'esperiemza militare condotta in Algeria negli anni '50 - quando l'esercito eseguiva senza vergogna le torture più terribili - Mesrine rimpatria a Parigi pieno di collera e di rifiuto del confromismo. Ribelle alle regole imposte, alle aspettative famigliari e sociali, indomito, narcisista e soprattutto attirato dal successo ad ogni costo, ben presto Mesrine intraprende la via della criminalità, tra rapine e omicidi, scoprendo di sè un certo talento nel delinquere, uno stile inconfodibile e una dose di follia crescente.

Vincent Cassel, con parecchi chili in più, si cala nel ruolo in maniera camaleontica. Il lavoro è sul corpo, sui movimenti, sulle espressioni che rtagliano, scena per scena, i contorni di una personalità esuberante.

Gérard Depardieu appare un po' sottotono, in alcuni atteggiamenti sfiora quasi il grottesco, ma tuttavia giova all'economia generale del film.

Dai tempi un po' televisivi (se non erro il progetto era nato come sceneggiato televisivo), il film coinvolge, anche se delude nella narrazione: le parti sembrano un po' sconclusionate, non ben coese, ed il racconto spesso si perde in inutili divagazioni dispersive. Vista la lunghezza dell'intera opera su certe fasei si poteva soprassedere.

Cassel è convincente e molto macho. Personalmente mi è piaciuto molto in questa veste di gangster, di folle criminale donnaiolo.
La prima parte dell'opera svolge bene la sua azione: intrattiene e sorprende, senza risparmiarsi in megalomanie, come megalomane era Mesrine.
Attendo fiduciosa la seconda parte.

Gran Torino

Il grande Eastwood è tornato con un film intenso, ironico e mirabilmente girato.
Gran Torino, girato in poco più di un mese su sceneggiatura di Nick Schenk, affronta temi quali il razzismo, l'incomunicabilità famigliare, l'amicizia, la riscoperta dei valori umani.
Cosa aggiungere a tutto ciò che la stampa ha profusamente scritto di questa pellicola, di questo mirabile risultato dell'ultimo regista classico di Hollywood e forse del cinema in generale? Direi da parte mia ben poco, se non le mie considerazioni personali.
Con Gran Torino Eastwood chiude la sua carriera di attore e sancisce il tuo grade talento registico (se mai ci fossero stati dubbi). Ogni sequenza potrebbe essere utilizzata per una lezione di cinema. Il pregio del regista/attore è quello di mettere in scena una storia ben scritta con sguardo ironico ed appassionato, lasciando sempre spazio alla speranza, anche laddove sembra tutto perduto.
Il film commuove, diverte, fa riflettere sui limitimi umani, sulle nefandezze della nostra società, sull'America di oggi ancora intrisa di razzismo e che non trova un modo per dare ossigeno ad una reale integrazione nel territorio delle minoranze etniche. Il film tiene incollati alla poltrona seguendo una storia umana come tante eppure assolutamente unica. Gran Torino è denso di argomenti, e Eastwood non lascia nulla di incompiuto, ogni filo è ben tessuto, ben sostenuto nella sua trama vigorosa. E lui, nei panni del protagonista, va incontro ad una sorta di catarsi che gli permette un'uscita di scena di alto livello, assolutamente spettacolare e poetica.

Ed ora lascio spazio ai vostri commenti, al dibattito popolare che tanto ci piace.

Film in sala da venerdi' 20 marzo

Aria
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Valerio D'annunzio

Diverso da chi?
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Umberto Carteni

Fuga dal Call Center
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Federico Rizzo

La verità è che non gli piaci abbastanza
( He's Just Not That Into You )
GENERE: Commedia, Sentimentale
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Ken Kwapis

L'ultimo crodino
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Umberto Spinazzola

Ponyo sulla scogliera
( Gake no ue no Ponyo )
GENERE: Animazione
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Giappone
REGIA: Hayao Miyazaki

The International
( The International )
GENERE: Thriller
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Germania, USA
REGIA: Tom Tykwer

sabato, marzo 14, 2009

The Wrestler

Darren Aronofsky dopo il deludentissimo THE FOUNTAIN dirige questa discesa negli inferi dell'animo umano, ottenendo un buon risultato grazie anche alla superba prova d'attore di un ritrovato Michey Rourke.
Randy "the ram" Robinson è un ex campione di wrestling che ha raggiunto l'apice del successo negli anni ottanta.
Ora, dopo una vita sregolata, si ritrova senza un soldo, con una figlia che lo odia e senza futuro, trascina il suo imponente ma devastato fisico (tenuto su da prodotti dopanti) e la sua anima ferita in una scassata roulotte, con la sola compagnia del rimorso per quello che poteva essere e invece non è stato. Unica consolazione la stima e il rispetto dei compagni di ring.

Randy cerca comunque di vivere con dignità, mette insieme il pranzo con la cena lavorando saltuariamente in un supermercato e nonostante l'età disputando incontri di infima categoria in squallide palestre, tenta disperatamente di riallacciare i rapporti con la figlia (E.R. Wood) e corteggia una lap dancer (M. Tomei).

Dopo un infarto, "the ram" non può più combattere, ma le continue delusioni che il mondo reale continua a riservargli lo spingeranno ad accettare un'ultimo incontro, ed è in questa occasione che il cuore e l'amore di "the ram" si dimostreranno molto più grandi di quello che il "mondo fuori" pensa.
Carne martoriata, sangue offerto in sacrificio al pubblico, il ring come metafora della vita, questo è THE WRESTLER, inaspettato gioiellino di Darren Aronofsky.
Raccontando le vicissitudini di "the ram" il regista ha senz'altro nella testa le immagini di THE PASSION di Mel Gibson e non dimentica di disseminare nella storia riferimenti alla guerra in Iraq.
Ottima la rappresentazione del mondo del wrestling di basso livello, dove ogni dramma è un falso, proiettandoci in un mondo di emarginati, imbottiti di sostanze dopanti, pronti a farsi cambiare i connotati per pochi dollari.
Impressionante la somiglianza della storia con la vera vita di Michey Rourke che non più giovanissimo scelse la via della boxe professionistica ( 6 vittorie, 2 pareggi ) abbandonando il ring solo pochi anni fa.
Peccato che il doppiaggio non renda giustizia alla versione originale.
Toccante.

venerdì, marzo 13, 2009

HALF NELSON

HALF NELSON/META’NELSON è la schizofrenia di un uomo che si è consegnato all’evidenza dei fatti : da una parte c’è quello che crede nel progresso delle umane sorti e si impegna con il proprio lavoro di insegnante a ribaltare il destino dei suoi studenti, figli di una periferia newjorkese triste e senza speranza; dall’altra l’essere umano che si è arreso alle proprie debolezze e sfoga la propria frustrazione con la droga ed una vita di solitudine.

Vite perdute, non solo quella del protagonista, ma anche dei coetanei che lo circondano, schiacciati da responsabilità che non sono in grado di gestire e chiusi all’interno di un egoismo che li priva di qualsiasi empatia con il mondo circostante; in questo senso è esplicativo il quadro familiare che viene fuori dalla visita che il protagonista rende alla propria famiglia in cui la presenza maschile è cancellata da figure femminili ingombranti ed anaffettive (la madre logorroica ed incapace di rispondere al disagio del figlio) oppure inconsapevoli (la moglie del fratello incapace di spiegare i motivi della presunta felicità matrimoniale), così come l’ambiente di lavoro dove i colleghi vivono con rassegnazione il disagio di non saper rispondere ai problemi dei propri alunni.
Ad essi Nelson preferisce i suoi studenti, a cui si rivolge con programmi scolastici alternativi, di quelli che aiutano a ragionare con la propria testa e verso cui si pone con una benevolenza che esula la didattica e privilegia il sentimento di chi si rispecchia nei propri simili. Un percorso di crescità comune che nel film viene declinato attraverso l’amicizia tra l’alunna problematica ed il suo mentore, paradigma ampiamente sfruttato dalla vita ed anche dal cinema, e che qui assume il significato di una possibile emancipazione dalle rispettive storie di dolore.

Girato alla maniera del cinema verità, con riprese che sembrano nascere dalla spontaneità dei personaggi ed immagini che rispecchiano, soprattutto nell’uso dei mezzi toni, della luce ed anche dei colori, il carattere dimesso delle figure umane, il film deve tutto alla straordinaria interpretazione di Ryan Gosling (come in The believer semplicemente straordinario), completamente sottotraccia eppure capace di urlare gli stati d’animo del suo alterego attraverso impercettibili scansioni dello sguardo e di farci vivere dal di dentro il dramma interiore del suo personaggio.

Una continua epifania che viene in parte fiaccata dalle stilettate progressiste dei registi che imitano Spike Lee e fanno parlare gli alunni davanti alla macchina da presa con panegirici che sembrano manifestazioni di piazza ed insieme il manifesto di una ritrovata dignità.
Quasi a riprendere la dicotomia riassunta nel titolo, il film finisce per allontanarsi dal proprio centro, diviso tra il Nelson privato, immenso nella libertà dell’interpretazione attoriale e quello pubblico, limitato da una scrittura troppo spiegata ed ancora ferma alla libellistica sessantottina.
Per questo film, ancora inedito in Italia, Ryan Gosling è stato candidato all’oscar quale miglior attore protagonista.

DEDICATA A CARMEN

giovedì, marzo 12, 2009

Film in sala da venerdi' 13 marzo

Frozen River
( Frozen River )
GENERE: Thriller
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Hunt Courtney

Gran Torino
( Gran Torino )
GENERE: Azione, Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Clint Eastwood

Il soffio dell'anima
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Victor Rambaldi

La matassa
GENERE: Comico, Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Giambattista Avellino, Salvatore Ficarra, Valentino Picone

Nemico Pubblico nr 1 - L'istinto di morte
( L'instinct de mort )
GENERE: Azione, Biografico, Thriller
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Canada, Francia, Italia
REGIA: Jean-François Richet

martedì, marzo 10, 2009

Live! Ascolti record al primo colpo

di Ethan

Girato in un iperrealistico formato digitale dal documentarista Bill Guttentag, Live! cerca di convincere il pubblico che dei produttori senza scrupoli possano organizzare un reality show basato sulla roulette russa.
Per risultare credibile si aggancia a cavilli legali e ad altri reality. Ma comunque non è credibile e affonda rapidamente.
Guttentag inoltre sminuisce sistematicamente i suoi personaggi (e quindi il pubblico), che si dividono tutti tra freddi e ambigui o stupidi e creduloni.
E anche se gli autori sembrano aver imparato la lezione dei reality, è difficile distinguere la cinica indifferenza dei personaggi dall'arrogante nichilismo del film stesso.
Anch'io come Porro mi sono posto la stessa domanda: perché la signorina Katy Courbet tiene nel suo ufficio il poster di La dolce vita?

lunedì, marzo 09, 2009

L'onda


di Ethan

L'onda è tratto dal romanzo dello scrittore statunitense Morton Rhue.
Uscito nel 1984, il libro racconta la storia di un insegnante che mette in atto uno spericolato esperimento con i suoi alunni: formare in pochi giorni un gruppo succube dell'autorità e con atteggiamenti fascistoidi.
Rhue si era ispirato a una storia realmente accaduta nel 1967 in una scuola californiana.

E oggi come sarebbe l'esperimento?

A questa domanda ha provato a rispondere Dennis Gansel, che ha ambientato la pellicola in un liceo tedesco, riuscendo a ottenere qualcosa di più di un film istruttivo.
L'onda, infatti, è anche una specie di studio sociologico, e questo lo rende convincente: riproduce alla perfezione un gruppo di liceali provenienti da famiglie del ceto medio.
Grazie a questa autenticità, l'esperimento è del tutto realistico e affronta dei temi tornati purtroppo d'attualità.

Milk, di Fabrizio Luperto

Dopo la recensione di MILK di Ethan e Nickoftime, è ora la volta del nostro Fabrizio Luperto, che ci propone il suo punto di vista sul film di Gus Van Sant.

Gus Van Sant ritorna sugli schermi con questo biopic che rinverdisce la sua politica della rotazione tra piccoli film e produzioni dal budget importante.
Cronaca di una morte annunciata, quella di Harvey Milk (Sean Penn), portavoce della comunità gay di san francisco, eletto nel consiglio comunale della città californiana e ucciso dall'avversario politico Dan White (Josh Brolin).

I temi principali di MILK, l'incomprensione, il rifiuto del "diverso", la ghettizzazione, ricorrono spesso nel cinema di Van Sant che in passato ha ampiamente dimostrato di saperli ben rappresentare.
Scegliendo la via del biopic però, il regista si trova di fronte a non poche difficoltà a causa delle limitazioni che questo genere di film comporta: riportare fedelmente i fatti e rischio di santificare il protagonista su tutte.
Risulta quindi inevitabile che il regista si preoccupi di maneggiare con cura la materia e che presti, forse, fin troppa attenzione a far quadrare i conti, in sala come al botteghino.
A questo scopo dopo una ricostruzione meticolosa della San Francisco dell'epoca, Van Sant ripulisce la comunità gay da prostituzione e droghe pesanti, elementi non proprio estranei al movimento omosessuale nella San Francisco dei seventies, ma che potrebbero risultare disturbanti per lo spettatore non incline al cinema del regista di Louisville.
Ne consegue che MILK risulti come privo di anima e che i marchi di fabbrica di Van Sant, vale a dire il lento movimento di macchina e la stilizzazione delle immagini a cui ci aveva abituato con gli ultimi film, siano centellinati o pressochè assenti.
Sprazzi d'autore possono essere individuati nella sequenza del duplice omicidio con il pedinamento dell'assassino che ricorda molto ELEPHANT (Palma d'oro a Cannes) oppure nel volto di Scott (James Franco) riflesso sul vetro che anticipa il distacco tra lui e Harvey Milk.
Interessanti anche le inquadrature del comizio: quella dal basso, mentre H. Milk arringa la folla, che riproduce lo sguardo di uno spettatore tra i tanti che assistono al comizio e quella dall'alto di spalle in cui H. Milk (grazie alla fotografia bidimensionale di Harris Savides) diventa tutt'uno con il suo pubblico come a simboleggiare che il futuro consigliere comunale in quel preciso istante si senta "uno di loro" che vive e soffre esattamente come chi lo sta ad ascoltare e non un uomo che si trova su un palco a pontificare da lontano.Opera tutto sommato gradevole di un Gus Van sant compromissorio.

sabato, marzo 07, 2009

MILK, di Nickoftime

Unmasked: 'senza maschera' potrebbe essere lo slogan ed insieme il filo rosso che sottende la cinebiografia dedicata ad Harvey Milk, icona del movimento omosessuale americano e primo politico dichiaratamente gay ad essere eletto ad una carica pubblica.
Le immagini di repertorio che accompagnano i titoli di testa (materiali fotografici che ci rimandano al photo shop aperto dal protagonista subito dopo la sua partenza da New York) con i frequentatori di bar per soli uomini, preoccupati a salvare la faccia dall'occhio indiscreto delle telecamere, sono in questo senso emblematiche: una diversità sentita come colpa e vissuta lontano dai luoghi istituzionali della socialità.
Ghetti della mente ma non solo, se è vero che Castro Street, il sobborgo di San Francisco dove nei primi anni '70 inizia l'ascesa del nostro eroe, rappresenta un'isola felice ma anche un avamposto isolato di uno stile di vita osteggiato da un'ufficialità bigotta e repressiva.
La normalizzazione della propria condizione diventa l'arma vincente di un uomo che visse l'impegno politico come una rappresentazione teatrale, in cui l'occasione di visibilità si tiene lontana dalle dichiarazioni di facciata e preferisce la ricerca di una condivisione di quegli ideali che dovrebbero salvaguardare la dignità di tutti gli esseri umani, allontanando pericolose discriminazioni.
Milk è un uomo prestato alla politica che rimane se stesso fino all’ultimo, completamente immerso nella sua umanità ed in quella di chi lo circondava, tra gli alti e bassi di una vita che dal punto di vista privato gli riservò parecchie delusioni per l'incapacità di salvare relazioni quasi sempre concluse con finali al limite della tragedia.
Dualismi e chiaroscuri che nel film sono resi attraverso i diversi utilizzi della luce, sottoesposta quando disegna i contorni di un'esistenza vissuta lontana dai riflettori (oscurata dalla paura di essere se stessi), quasi artificiale nella sua uniformità (il luogo scelto per 'venire alla luce') quando entra nelle stanze del potere; ed ancora con il continuo gioco di specchi e di riflessi che rimandano alla complessità della posta in gioco (la felicità personale e l'impegno civile).
Gli uomini di Van Sant non sono mai banali, ed anche qui la complessità dell'esistenza si fa strada attraverso la scelta degli attori: un crogiuolo di facce e di corpi come totem di un cinema che non rinuncia alla sua indipendenza e lavora all'interno del genere con un'estetica che mischia alto e basso, pop ed avanguardia.
Popolare nell'esposizione dei fatti (le arringhe del protagonista assomigliano ad un esposizione filologica e didascalica del suo pensiero), Milk diventa cinema quando lavora sulla forma: un'operazione che procede dall’interno, con inquadrature che sembrano sorprendere le caratteristiche di onnipresenza proprie del genere: la natura reale degli spazi e dei luoghi, con le architetture delle stanze che celano in parte i rendez vous amorosi, chiara allusione ai pregiudizi della società verso una sessualità percepita come peccato (e quindi da nascondere) o li comprimono per esprimere l'isolamento di chi sente l'approssimarsi della fine; gli impercettibili scarti temporali (reali o immaginati) che permettono al protagonista di assistere ed addirittura sopravvivere alla propria morte (con il personaggio che diventa mito) oppure l'assenza di profondità che elimina le distanze tra l’oratore (Milk) e l'assemblea (la comunità Gay) che lo ascolta ed enfatizza l'idea di un'unità costruita sullo scambio e la condivisione, sono i colpi di coda di un autore per il resto consapevole delle regole di un'operazione (divulgativa) che deve evitare pericolose devianze: la voglia di non spaventare ed il desiderio di ecumenismo finiscono per eliminare qualsiasi differenza, relegando l'eccezionalità del protagonista all’interno del già visto.
Le capacità di regia non riescono a sopperire alle regole del gioco ed il film finisce per esaurire anzitempo la sua forza emotiva.
Sean Penn è coraggioso nell'affrontare un ruolo che non appartiene al suo cotè cinematografico e che riesce a rendere, senza i soliti istrionismi, mentre stupisce per carisma ed understatement la performance di James Franco nel ruolo del compagno storico di Harvey Milk, vera e propria pietra angolare della tribù che ruotava attorno al 'Sindaco' di Castro Street.

REVOLUTIONARY ROAD

Dici Melò e pensi a film come "La Gatta sul tetto che scotta” o “Come foglie al vento”, ad attori come Liz Taylor e Rock Hudson per non parlare di Tennesse William lo scrittore che più di tutti si identifica con il genere in questione. Capisaldi che Sam Mendes non può aver tenuto in mente per realizzare la storia dei coniugi Wheeler, due belli e dannati che sembrano usciti dai libri di Fitzgerald e che si ritrovano intrappolati nel lato oscuro del sogno americano. Nell’intento di rinnovare il genere distaccandosi dalla ricostruzione filologica di “Lontano dal paradiso” ed in generale da una rappresentazione che privilegia la ricostruzione d’epoca ed il dettaglio di costume Sam Mendes organizza il suo De Profundis con un decoupage dichiaratamente sottotono ed un realismo espresso attraverso un osservazione epidemologica degli eventi.
La telecamera osserva i due protagonisti con una fissità raggelata; la casa/laboratorio diventa il palcoscenico di un dramma che non lascia scampo; gli spazi angusti diminuiscono le distanze ed evidenziano il crescendo della tensione nelle facce degli attori; la compostezza formale contrasta con il ritmo sincopato delle parole generando un malessere accresciuto dalla presenza di una fotografia artificiosa e quasi invadente nella sua evidente perfezione. Di Caprio/Winslet già ribellatisi all’immagine titanica con scelte di campo che rifuggivano il divismo a tutti costi finiscono il lavoro uccidendo per sempre il romanticismo che a suo tempo aveva rischiato di imprigionarli nel ruolo degli eterni innamorati. Sono loro il motivo principale del film ed il regista li asseconda in un crescendo di scene madri segnalate da un andamento che diventa nervoso e produce una visione più frammentata, con la camera che passa da un personaggio all’altro all’interno dello spazio in cui si muovono, e che culmina nella sequenza del bosco, quella che segue il confronto tra i due protagonisti la cui apparente felicità è stata appena smascherata dal figlio della vicina, (un tipo appena uscito da una casa di cura e che nel film rappresenta la faccia sporca del sogno americano, quella da nascondere a tutti i costi) in cui il personaggio della Winslet compie l’ultimo atto di una presa di coscienza che la costringerà ad una resa drammatica e definitiva. Impeccabile nella sua confezione il film tradisce le attese perché non riesce ad amalgamare la cornice al contenuto, il realismo del testo con la costruzione di un quadro complessivo che rimanga attaccato ai movimenti interni del film.

giovedì, marzo 05, 2009

Film in sala da venerdi' 6 marzo

Due partite
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Enzo Monteleone

In the name of the King
( In the Name of the King: A Dungeon Siege Tale )
GENERE: Azione, Fantasy, Avventura
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ Canada, Germania, USA
REGIA: Uwe Boll

La Pantera Rosa 2
( The Pink Panther 2 )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Harald Zwart

Live! - Ascolti record al primo colpo
( Live! )
GENERE: Commedia, Mockumentary
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Bill Guttentag

The Wrestler
( The Wrestler )
GENERE: Azione, Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Darren Aronofsky

Trappola d'autore
GENERE: Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Franco Salvia

Verso l'Eden
( Eden Is West )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Francia, Grecia, Italia
REGIA: Constantin Costa-Gavras

Watchmen
( Watchmen )
GENERE: Azione, Fantascienza, Thriller, Avventura
ANNO PROD: 2008 DATA DI USCITA: 06/03/2009
NAZIONALITÀ Canada, Gran Bretagna, USA
REGIA: Zack Snyder

lunedì, marzo 02, 2009

Il dubbio

Suor Aloysius (la sempre grande Meryl Streep) preside di una scuola religiosa, sospetta fortemente che padre Flynn (Philip Seymour Hoffman) sia un pedofilo e che le sue attenzioni siano principalmente rivolte verso l'unico allievo di colore della scuola.I sospetti della preside sembrano trovare ulteriore conferma quando la giovanissima sorella James (Amy Adams) riferisce un episodio avvenuto in classe che riguarda il sacerdote e il ragazzo.
Il regista riesce a creare una buona atmosfera per tutta la durata del film, grazie ad alcune ottime trovate: i sermoni di padre Flynn, il morboso discorso sulle unghie lunghe, la scoperta che suor Aloysius un tempo aveva marito.
La sceneggiatura è strutturata in modo tale che lo spettatore propenda ora verso la tesi della preside inquisitrice, ora verso l'inquisito, mantenendolo in uno stato continuo di dubbio.
Il film vuole mettere in risalto il problema della pedofilia, ma è sopratutto un'accusa contro il pettegolezzo e la maldicenza che possono distruggere la vita delle persone.Tutti e tre i protagonisti de IL DUBBIO (M. Streep - P. Seymour Hoffman - A. Adams) hanno ottenuto la canditatura all'Oscar.
Il film è tratto dalla pièce teatrale scritta dallo sesso regista e portata nei teatri italiani con la regia di Sergio Castellitto e interpretata da Stefano Accorsi e Lucilla Morlacchi.La colonna sonora è firmata da Howard Shore già vincitore di tre Oscar per la saga de IL SIGNORE DEGLI ANELLI.

The Reader - A voce alta

Il corpo e la voce: il primo, morbido e voluttuoso, lo ha prestato Kate Winslet alla sua prtagonista , una donna la cui durezza del volto e la laconicita' delle parole entra in contrasto con la generosita' delle sue forme; la seconda appartiene al giovane amante che prima di amarla le legge quelle pagine di letteratura che ella agogna piu' di ogni altra cosa.
Una passione segreta che nasce come desiderio di completarsi attraverso l'altro e poi diventa qualcos'altro.

il film su questo punto si mantiene reticente fino all'ultimo ed anche quando il tema dell'olocausto irrompe a spezzare la trama della narrazione, catapultandoci nei suoi orrori, rimangono i dubbi sulla natura di un amore che sfiora l'assoluto e poi deraglia sotto il peso di un passato che ne' lei, inconsapevole aguzzina, ne' lui, amante abbandonato, possono dimenticare.
Quello che risulta interessante oltre al rapporto vittima/carnefice - riproposto sia sul piano privato dalla relazione dei due protagonisti che su quello pubblico dal resoconto che emerge nella fase centrale del film durante le sequenze del processo - risiede sopratuttto nella mancanza di spiegazioni ed ancor piu' nella banalita' delle motivazione addottate dal personaggio della Winslet, per giustificare il suo operato: la conferma delle insondabili radici del male si infrange sulla purezza dell'amore privandolo, per sempre, del suo naturale slancio.
La mancanza di catarsi, suggellata dal mancato pentimento della protagonista, che alla fine di un esistenza isolata e miserabile continua ad accontentarsi dell'antico rituale che il disilluso amante nuovamente le regala, conclude una vicenda che neanche il sottofinale conciliatorio rende meno triste.
Una condizione che la cinematografia di Daldry trasmette attraverso colori esangui, riprese statiche ed un lavoro di sottrazione soprattutto nei dialoghi (quasi un paradosso per un opera che e' intrinseca alla comunicazione verbale), affidandosi ad una narrazione di atmosfera e di non detti.
Kate Winslet, perfetta nel combinare le contraddizioni di una carnalita' angelica ed insieme infernale, e' efficace nell'evitare inopportune (per il tono dimesso del film) pericolose monopolizzazioni e rende credibile la mancanza di senso vissuta dal suo personaggio.
Per il resto si tratta di ordinaria amministrazione a partire da Ralph Fiennes nell'eterno ruolo del romantico perdente, la solita faccia sbiadita ma nell'occasione tremendamente efficace, fino a Bruno Ganz, da qualche tempo abituatosi a prestare la sua faccia a produzioni che assicurano una buona vecchiaia.
The Reader e' un film girato in continuita' con le precedenti opere di un regista che ricerca la verita attraverso la caratterizzazione dei personaggi, verso i quali fa convergere il resto della sua arte. Il suo cinema e' silenzioso, costruito su pochi segni ricorrenti (la presenza dell'acqua come elemento catartico, il profilo di un viso in penombra, la natura ambigua dell'amore, una forte sensibilita' femminile) eppure tremendamente capace di entrare sotto pelle e di restarvi per un bel pezzo.

Con meno forza ed anche bellezza di The Hours anche questo The Reader riesce a compiere l'impresa.