White Noise
di Noah Baumbach
con Adam Driver, Greta Gerwig, Don Cheadle
USA, UK 2022
genere: commedia
durata: 136'
Nella scena iniziale di "White Noise", ovvero nel prologo che introduce la narrazione vera e propria, un docente (in realtà professore di icone viventi, così scrive Don DeLillo nel libro da cui il film è tratto) spiega agli studenti che la natura del cinema americano è intrisa di progresso e civiltà anche laddove, per esempio nelle ricorrenti e spettacolari riprese di collisioni e incidenti stradali, sembrerebbe esprimere il contrario. Basta questo a Noah Baumbach per far capire allo spettatore più scaltro quale sia la chiave scelta per affrontare l’impresa di portare sullo schermo DeLillo, uno di quei romanzieri all’apparenza intraducibili al di fuori del suo territorio d’elezione.
Se David Cronenberg era
riuscito a impossessarsi di “Cosmopolis”, approcciandolo in maniera frontale,
sovrapponendo il suo occhio a quello dello scrittore, Baumbach affronta il
testo scritto con un punto di vista decentrato e personale, mettendo in scena un’opera
multistrato in cui sono le forme del
cinema e in particolare quello di genere a (re)interpretare temi e ossessioni
del romanziere americano.
A legittimare l’ipotesi è
la sequenza che fa svoltare il film, quella chiamata a innescare l’avventura:
parliamo del sinistro ferroviario da cui scaturisce la minaccia della nube
tossica che mette a rischio il (piccolo) mondo del protagonista e quello della
sua eccentrica e quanto mai “allargata” famiglia. Se, come si vede, il contesto
è quello tipico del disaster movie - mentre in altre parti il racconto assumerà
di volta in volta la fisionomia della commedia, dell’action, dell’horror e
persino del musical - a spiccare qui è la similitudine del soggetto in
questione con gli esempi proposti dal cattedratico (interpretato dal redivivo
Don Cheadle) nel segmento introduttivo. Nella versione di Baumbach, “White
Noise" muove infatti dalla volontà di dimostrare l’assunto iniziale
andando a ritrovare nelle disavventure di Jack Gladney (Adam Driver) e della
sua numerosa progenie i prodromi di un cinema che non rinuncia a dare una
versione della realtà se non ottimista, almeno meritoria di essere vissuta. Con
quello che ne consegue in termini di capacità di risorgere dalle proprie ceneri
come più volte capita ai protagonisti del film.
Da una parte c’è DeLillo
a ragionare sulla paura della morte e sul modo in cui l’economia di consumo ci
viene incontro per farcela ignorare/dimenticare: in termini di significato il
balletto finale all’interno del supermercato fa suo il messaggio della scena
conclusiva di "Eyes Wide Shut", non a caso ambientato all’interno
dello stesso contesto in cui comprare cose è la medicina necessaria per evitare
di guardare in faccia agli abissi personali.
Dall’altra parte c'è il regista di “Storia di un matrimonio”,
consapevole che l’unica possibilità di rievocare i fantasmi della pandemia
senza perdere il supporto e i capitali di un colosso come Netflix (e quindi la
possibilità di ben figurare tra i possibili candidati ai prossimi premi Oscar,
cui di certo punta la “casa madre”) è quella di stemperare il dramma con una
vena comica e grottesca, trovando il positivo anche nelle situazioni peggiori.
Baumbach ci riesce grazie a un rapporto con la disfunzionalità dei suoi
personaggi, da sempre empatico e partecipato: implacabile nel coglierne difetti
e contraddizioni ma anche pronto a prenderne le parti nelle vicende più
complesse. Come succede con Adam Driver, nel ruolo del professore di studi
hitleriani chiamato a interpretare una versione moderna dell’Idiota
dostoevskijano, il cui successo lavorativo è esemplare di quanto si diceva a
proposito del rimedio pratico per
esorcizzare la paura del diavolo, essendo per Jack il corso di studi sul
gerarca nazista non solo una fonte di prestigio e di potere anche economico
derivante dall’esclusività del suo copyright, ma anche il modo per rievocare il
Führer avendone in qualche modo il controllo.
Baumbach è bravo a
prendere il singolo concetto (per esempio quello della felicità indotta dal
possesso di beni di consumo) e a tradurlo in immagini. Basti pensare al
contrasto tra le scene dedicate alla vita prosaica, quelle ambientate
all’interno del supermercato e nella cucina di casa, in cui montaggio serrato,
luce espansa e movimenti della macchina da presa concorrono al vitalismo di cui
si diceva, con il buio e la stasi delle inquadrature impiegati là dove la
riflessione predomina sull’azione. Egli è meno bravo quando si tratta di
rendere omogenea una struttura che non riesce mai ad essere organica, dominata
com’è da un postmoderno - il continuo accavallarsi dei generi - che trasmette
alla narrazione un'andatura episodica e uno schematismo tipico dei film a tesi.
Siamo di fronte a una sintesi del pensiero di DeLillo che fa simpatia ma non
riesce a entusiasmare.
Carlo Cerofolini
(Recensione pubblicata su Ondacinema.it)
Nessun commento:
Posta un commento