Quello che non so di lei
con Emmanuelle Seigner, Eva Green, Vincent Perez
Francia, Belgio, Polonia, 2018
genere, thriller
durata, 110'
La prima cosa da fare prima di entrare in sala per vedere il nuovo film di Roman Polanski è quello di metterne da parte il titolo italiano e tenere a mente quello originale. Non più quindi “Quello che non so di lei” ma piuttosto D'après une histoire vraie, che tradotto nella nostra lingua diventa “Da una storia vera”. Se il primo, infatti, è destinato a disinnescare il paradosso contenuto del sottotesto filmico che ragiona sul potere dell’immaginazione e su come quest’ultima possa incidere sulla realtà meglio di qualsivoglia concretezza, il secondo di sicuro lo rafforza. Evitando di raccontarvi come, per non togliere il piacere e la sorpresa di scoprirlo da soli, serva come indicazione la notizia che la sceneggiatura del film è firmata da Oliver Assays, il quale non solo ha dimostrato di essere a proprio agio con le storie di fantasmi (e quella del film di Polanski in qualche modo lo potrebbe essere) ma anche di saper raccontare con le forme del cinema d’autore lo spazio in cui realtà e apparenza si confondono diventando indistinguibili. Se ci fate caso, sotto il racconto di un’amicizia femminile (quella tra la scrittrice di best sellers Delphine e Leila, l’ammiratrice che ne diventa confidente e segretaria) incardinata sui binari più tradizionali di certo thriller psicologico, con la fan della scrittrice destinata a tramutarsi nella più minacciosa della nemesi, a lavorare ai fianchi lo spettatore è il sospetto che ciò che sta vedendo non sia reale ma frutto della follia di una delle due protagoniste. Tema, quello della follia, che ha attraversato molta parte del cinema del regista polacco (vedere per credere “Repulsion” e “Rosemary’s Baby” solo per fare due esempi) e che qui torna a farsi strada nella forma di una dialettica tra vittime e carnefici ubicata all’interno di abitazioni che sembrano prefigurare i labirinti mentali delle parti coinvolte nell’ennesimo gioco al massacro. A differenza dei suoi capolavori - ma anche di un buon film come “Venere in pelliccia” - il nuovo lavoro soffre la mancanza di una regia in grado di creare “doppi fondi” a una messinscena che invece ne avrebbe bisogno per compensare la prevedibilità della successione degli eventi raccontati.
Carlo Cerofolini
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