Dark Night
di Tim Sutton
con Anna Rose Hopkins e Robert Jumper
USA, 2018
genere, drammatico
durata, 85'
Affermando che la reale natura dell’anima americana è “dura, isolata, stoica e assassina” DH Lawrence ha spalancato le porte a numerose considerazioni intorno al percorso esistenziale dell’eroe americano così come viene ritratto nel cinema proveniente dagli States. Basterebbe rammentare Taxi Driver di Martin Scorsese e fare il conto dei lungometraggi che anche sotto forme meno tragiche e più spettacolari si sono appoggiati a questo assunto per costruire il carattere dei personaggi e definire le coordinate relative al loro operato. Tra questi, l’ultimo giunto in Italia in ordine di tempo è per l’appunto Dark Night, il cui titolo, oltre a essere una parafrasi del capitolo conclusivo della trilogia dedicata all’uomo pipistrello allude alla strage di Aurora del 20 luglio 2012 quando, durante la proiezione serale del film di Christopher Nolan, il ventiquattrenne James Eagan Holmes fece fuoco sugli spettatori uccidendone dodici e ferendone settanta. A differenza del film di Scorsese e di molti altri dello stesso genere, quello di Tim Sutton non solo è prodotto in maniera indipendente, ma sceglie di arrivare all’atto conclusivo della tragedia con modalità anti narrative che riguardano tanto la progressione del racconto, quasi mai giustificata dalla presenza di un ferreo nesso logico tra le singole sequenze, quanto la mancata identificazione di un vero protagonista, la cui centralità tipica nei film tradizionali è qui sostituita dalla coralità di micro personaggi che si alternano davanti alla mdp per dar vita al milieu esistenziale dal quale si produce il folle gesto.
Debitore del Gus Van Sant di Elephant, a cui Sutton si avvicina sia per impostazione narrativa che per segno stilistico, Dark Night compie un lavoro d’astrazione – sulle immagini e sul suono – che, isolando l’elemento temporale, gli permette di mostrarlo in stretta correlazione con lo stato d’animo dei personaggi. Espanso nella sua durata dall’ampio utilizzo del ralenti e visualizzato dalla forzata staticità dei corpi, il più delle volte immoti senza una ragione che non sia quella derivata dallo spaesamento interiore a cui li sottopone l’esistenza, il tempo pesa come un macigno sulle vite dei personaggi che, letteralmente, faticano a riempire il vuoto in cui li immerge la mdp. Così facendo, le “sfasature” del dispositivo cinematografico (jump cut e profondità di campo quasi sempre fuori fuoco) finiscono per diventare quelle dell’umanità presente davanti all’obiettivo, in un quadro generale di malessere e mancanza di senso.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)
Nessun commento:
Posta un commento