giovedì, marzo 08, 2018

MUTE

Mute
di, Duncan Jones
con, Alexander Skarsgård, Paul Rudd, Justin Theroux, Seyneb Saleh, Jannis Niewöhner
Gb, Ger 201
genere, fantascienza
durata, 125’


Ristabilire l’arditezza d’una qualche forma d’amore, perfino degradata o incompleta: uno slancio d’affetto e protezione all’interno d’un mondo rassegnato a sempre più perfezionate forme di mutilazione sentimentale. Duncan Jones prova a ragionare su questa che è una delle tante patologie a decorso indefinito della cosiddetta Modernità orchestrando un dramma privato - quello di Leo Beiler/Skarsgård, aitante ragazzone gentile di culto e fogge Amish affetto da mutismo indotto da un accidente occorso in età infantile, innamorato dell’elusiva Naadirah/Saleh con cui condivide anche la prossimità del luogo di lavoro, lui barman, lei cameriera, in un locale notturno alla moda e dalla quale lo separa un’improvvisa e misteriosa sparizione al termine d’una notte trascorsa insieme - che s’innesta su un losco traffico di vite perdute e astuti profittatori (Cactus Bill/Rudd e Duck Teddington/Theroux) tra le geometrie variabili d’una Berlino dickiana ingombra di grattacieli, aeromobili levitanti, luci fluo e fauna umana raffigurata nel consueto mix di eccentricità e cosmopolitismo.

Al passo fin troppo incerto cadenzato su suggestioni disparate - da echi di convivenze possibili a cavallo tra contemporaneità prossima e scenari futuribili, a rimandi mediati dal canone pop d’investigazione solitaria e disperata d’imprinting chandleriano; da lacerti sparsi organizzati secondo un qual gusto per il nonsense e la commedia beffarda (sostenuto e ritmato dal duo Rudd/Theroux in versione MASH fuori tempo massimo eppure in sintonia col disincanto sfinito e il cinismo rapace d’una metropoli distante e muta nell’assecondare la propria discendente china sullo sfondo di un ambiguo splendore), a residui di ardori passionali, leggi melodrammatici, tanto impellenti quanto fondamentalmente casti, da opporre come baluardo di ultima istanza al gelo istituzionalizzato di un microcosmo indifferente - l’autore di “Moon”, “Source Code” e dell’eventuale saga di “Warcraft”, procede per accumulo tratteggiando itinerari probabili ma non vincolanti, ipotesi di svolte drammaturgiche, interrogativi sulla natura e le motivazioni autentiche dei personaggi.

Ne scaturisce una progressione ondivaga e in fin dei conti reticente - non tanto in spiegazioni circa questa o quella piega della vicenda, quanto e soprattuto in capacità di fascinazione, di trasporto emotivo indotto dalla necessità teorica ascrivibile a figure chiamate a rappresentare un gesto concorde o antagonista con la Storia - destinata a smarrire via via buona parte del potenziale delle singole spinte - patetiche, sarcastiche, intime, di generico appeal fantascientifico - poco o per nulla supportate, inoltre, da una scrittura in grado di rileggere rinvigorendoli cliché da tempo frusti (la menomazione fisica come scrigno d’una sensibilità non convenzionale; la scomparsa dell’oggetto amato punto di rottura d’ogni cautela nei confronti di una realtà ostile; l’opportunismo e la prepotenza celati/esaltati da una maschera intrigante e/o sorniona, et.), nonché appiattite, tranne che nei ruoli maramaldi (in specie Rudd), 

da un gruppo d’interpreti non particolarmente memorabile (il protagonista Skarsgård, silhouette di complessione notevole ma di limitata espressività, attraversa buona parte dell’opera con in faccia una discutibile perplessità supplichevole), con diligenza calato nel rispettivo modello di riferimento o poco più. 

Resta, ed è ciò che duole maggiormente, l’impressione di un progetto a lungo vagheggiato, come pure denso di riferimenti personali (il film è dedicato al padre David Jones, il celeberrimo Duca Bianco e alla tata che del piccolo Duncan curò la crescita) conclusosi con un mezzo naufragio, al pari di tanti altri, del resto, nel mare magno delle buone intenzioni di cui si dice sia lastricata la strada per l’Inferno.

Produce - e magari non è un caso - Netflix.
TFK

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