giovedì, settembre 26, 2024

'BETSIARI, ERBARI, LAPIDARI' CONVERSAZIONE CON MASSIMO D'ANOLFI E MARTINA PARENTI

Presentato fuori concorso all’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica Bestiari, Erbari, Lapidari continua il percorso di ricerca intorno all’uomo compiuto da Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. Dei temi dell’opera e di come la forma del loro cinema li fa entrare in dialettica abbiamo parlato con i due registi.

Al di là della suddivisione in tre capitoli derivata dalla classificazione enciclopedica di matrice medievale a cui rimanda il titolo mi sono interrogato sulla continuità della struttura narrativa perché è vero che le sezioni dedicate a Bestiari, Erbari, Lapidari dialogano tra di loro attraverso diverse modalità.

Come hai detto tu Bestiari, Erbari, Lapidari è nato per essere un unico film con uno sviluppo drammaturgico unitario. L’idea dei Bestiari Erbari e Lapidari rubata ai compendi medievali prevedeva fin da subito il fatto di essere un corpo unico. La sua linea drammaturgica è nata in maniera abbastanza istintiva dalla naturale collocazione dei tre compendi. Era chiaro che Lapidari dovesse essere la parte conclusiva mentre avendo a che fare con il cinema abbiamo pensato che il film si aprisse con Bestiari le cui immagini hanno a che fare con il proto cinema. Tutto questo nonostante l’origine della vita sulla terra sia più legata alle piante che agli animali.

Uno dei motivi della continuità narrativa è dato dal fatto che il racconto dei diversi regni del mondo naturale si relaziona con la storia dell’uomo svelandone le pulsioni più nascoste.

Per noi è come se il primo film ti aiutasse a entrare, il secondo ti disponesse all’osservazione mentre il terzo è quello in cui qualcosa ti viene rivelato. In tutto questo l’uomo è sottinteso nel senso che ci è già stato e ha fatto in tempo a lasciare il segno del suo passaggio. Quelle che vediamo infatti sono tutte nature addomesticate: gli animali sono stati già filmati e uccisi, le piante ridotte a orto botanico, la pietra trasformata in cemento. Questo non vuol dire declinare le nostre responsabilità nei confronti di questi regni. Fin dall’inizio Bestiari, Erbari, Lapidari voleva essere un omaggio alle bestie, alle piante, alle pietre, così come alla capacità dell’uomo di prendersi cura e di trasformare in qualcosa di più ciò che gli viene dato.

Un altro tema conduttore è dato dal racconto a trecentosessanta gradi dell’attività umana vista attraverso il suo rapporto con il mondo circostante. Nel film ne prendete in rassegna le caratteristiche di invasività, ma anche la capacità di prendersi cura delle cose, così come di ricordare gli effetti del proprio operato per evitare di ripeterne gli errori.

È esattamente così, il film è un viaggio che noi facciamo nel tempo e dello spazio all’interno degli archivi così come nel regno vegetale, animale, minerale. È un percorso che si conclude attorcigliandosi su se stesso nel pre-finale, con le pietre posate a terra a futura memoria degli orrori di cui si è parlato nel primo capitolo. E che poi si conclude sulle immagini dei fossili vecchi di 50 milioni di anni fa in cui la natura è regista e interprete di se stessa restituendoci immagini capaci di attraversare il tempo e lo spazio.

In ogni capitolo abbiamo adottato una forma diversa. Bestiari è un film d’archivio, Erbari un film poetico e d’osservazioni, Lapidari invece è un genere che abbiamo tentato di inventare nel senso che è un lungometraggio industriale ma anche sentimentale ed emotivo. Ancora, il nostro è stato un viaggio nella parola che è presente in Bestiari, si dirada in Erbari, rappresentata per lo più dalla voce dello studioso del regno vegetale, fino a sparire completamente in Lapidari. Ci siamo detti che nell’ultimo capitolo la parola non viene pronunciata ma è comunque racchiusa nei volti e nelle storie nei volti delle persone scomparse nei campi di concentramento. Nonostante non ci sia parola umana e neanche un uomo protagonista Lapidari è il capitolo più denso di storia umana.

Nel film la storia si insegue e ritorna su se stessa come succede quando il paragone degli allevamenti della volpe rossa si ricollega ai campi di concentramento di cui si parla nell’ultimo capitolo, quello della memoria. Mentre il contatto con il regno animale ispira al genere umano reazioni autodistruttive così non accade nel regno vegetale in cui il ritorno alla natura riporta l’uomo a essere in armonia con ciò che lo circonda, come succede al giovane studioso che arruolato e spedito sul fronte trae sollievo dalla possibilità di creare un nuovo erbario.

Ci sono uomini sottintesi e altri che vengono citati. I primi si sono resi autori di distruzione mentre quelli presenti oppure menzionati lo sono perché hanno contribuito a creare qualcosa di positivo. La storia che hai citato sull’erbario di guerra è un esempio da ricordare perché si tratta di un giovane soldato laureato che, pur costretto ad andare in guerra, ritrova il senso della vita riuscendo a donare all’orto botanico uno straordinario erbario.

Il dialogo esistente tra i vari capitoli trova riscontro nella riflessione dello studioso quando parla di come l’uomo si consideri erroneamente al primo posto tra gli elementi della terra. Parliamo dello stesso ego che porta gli esseri umani a compiere i delitti efferati di cui si parla in Bestiari e Lapidari.

Ogni parte del film risuona in quella successiva per il fatto che con Martina tendiamo a costruire i film in maniera corale. I nostri protagonisti non sono mai le classiche figure eroiche perché le nostre storie sono sempre fatte da più persone. In questo lavoro è successo ancora di più perché accanto all’uomo ci sono gli alberi, gli animali, il vento, l’atmosfera, il tempo. Ci sono una miriade di elementi e per quello che dicevi tu prima, a noi piace fare dei film dove lo spettatore può entrare dentro e iniziare il suo viaggio. Si tratta di un percorso così stratificato in cui ogni volta che lo rifai scopri qualcosa di nuovo, come è successo anche a te. Nella sua semplicità Bestiari, Erbari, Lapidari è un film che ha una miriade di storie, di situazioni e di narrazioni possibili.

In Bestiari fa abbastanza effetto scoprire che immagini del mondo animale, simile a quelle che ancora oggi entrano nelle nostre case attraverso i documentari, nascondo in realtà una radice di morte e di abusi perpetrati dall’uomo nei confronti degli animali.

Parte dell’aspetto più interessante del lavoro sugli archivi è capire come immagini a cui abbiamo fatto l’abitudine e che ci sembrano innocue possano nascondere il male che verrà o che c’è già stato. Come succede con la fabbrica delle pellicce di volpi che ha ispirato la costruzione dei campi di sterminio oppure come quelle che raccontano l’addestramento degli animali o i concorsi di bellezza. Le immagini risalgono agli anni dieci del secolo scorso considerando che la maggior parte di queste sono state realizzate negli anni cinquanta. Ciononostante in quelle ritroviamo tutta la struttura comportamentale che ancora oggi condiziona la nostra relazione con gli animali. L’ultima cosa che vorremmo dire è che Bestiari Erbari Lapidari è un film fatto con tantissimi archivi del nostro continente perché per noi questo è un film profondamente europeo. Fin dall’inizio questo era il limite che ci eravamo dati e cioè di lavorare all’interno dell’Europa e dunque delle nostre radici. L’unica eccezione è costituita dagli archivi che viaggiano e vanno a fare i loro film di safari in Africa.

Il vostro è un cinema capace di lavorare sull’inconscio dello spettatore andando a toccare le sue corde più profonde. In tal senso una delle scene più impressionanti è quella in bianco e nero in cui vediamo un esploratore che tenta in tutti i modi di toccare un pinguino. A essere impressionante è la capacità di quelle di restituire la paura dell’animale di fronte a chi ha appena invaso il suo spazio. Sembra quasi un film dell’orrore.

Quelle di cui parli sono immagini preziosissime, realizzate durante la seconda spedizione di Roald Amundsen, e siamo quasi certi che sia la prima volta in cui si vede all’interno dello stesso fotogramma un uomo e un pinguino. Quando abbiamo visto quell’immagine siamo rimasti ipnotizzati. La sensibilità dell’epoca rispetto al biancore accecante del Polo ha creato una visione così stilizzata da diventare ancora più astratta e affascinante. Da subito c’è stato chiaro il livello di ambiguità di un’immagine che rimandava all’eccesso di addomesticamento degli animali casalinghi sottoposti a tac, radiografie e chemioterapie e cioè a un eccesso di cure che rasentano l’accanimento terapeutico. Ci rendiamo conto di entrare in un territorio molto scivoloso per il fatto di avere a che fare con la sensibilità di ognuno rispetto alla relazione che ha col proprio animale.

Il vostro è un cinema fatto di strutture e spazi organizzati che, per come li filmate, con un’osservazione quasi ipnotica, subiscono una trasfigurazione capace di farli percepire come una sorta di universo parallelo. Succedeva così rispetto al Duomo di Milano, succede lo stesso per l’orto botanico di Padova. Per come lo filmate a me è sembrato di sbarcare su un pianeta alieno. 

Succede sempre così quando posi sulle cose uno sguardo paziente e profondo, che non si accontenta dell’evidenza ma che cerca nuovi modi di guardare, tentando di relazionarsi all’invisibile. Quando succede si crea quel cortocircuito, per noi molto magico, che il cinema riesce a restituire attraverso le riprese, il suono, il montaggio. Questo è un po’ il tipo di cinema che ci piace fare ma anche che amiamo incontrare e vedere. Quando, come nel caso dell’orto botanico, si ha la possibilità di stare nei luoghi, quello che ne viene fuori è qualcosa che va oltre la materia per diventare qualcosa di più metafisico.

Peraltro i vostri film svolgono anche una funzione divulgativa portandoci a conoscenza di una storia che crediamo di sapere e che invece scopriamo di ignorare. Mi riferisco per esempio all’Orto botanico di Padova, il più vecchio del mondo, quello che ha ispirato tutti gli altri.

In un’epoca in cui siamo bombardati da milioni di informazioni poi capita di perdere le cose importanti. Purtroppo questa è un po’ la caratteristica della contemporaneità, l’eccesso di informazioni che ti allontana dal vero sapere. Quando hai la possibilità di prenderti cura dei luoghi e di trattarli nella loro complessità ti capita di scoprire cose come queste.

La suddivisione in capitoli funziona anche come destrutturazione del vostro cinema perché il lavoro sugli archivi, il documentario d’osservazione e quello industriale costituiscono tutte insieme le diverse anime di un unico dispositivo.

Si tratta di un’intenzione presente sin dalla fase di scrittura. Volevamo che ogni capitolo fosse un genere dentro il genere.  Il documentario è costituito da diversi linguaggi sui cui volevamo lavorare per poi tradirli. Anche perché Bestiari non è un vero film d’archivio, Erbari non è un vero film d’osservazione, Lapidari non era un vero film industriale. Il motore che ci ha fatto partire è stato proprio la possibilità di giocare con il linguaggio.   

Tutto questo dona ai vostri film una particolarità di sguardo che in qualche maniera diventa la chiave per non diventare complici del potere realizzando film assuefatti.

Il nostro cinema ha sempre l’ambizione di essere sovversivo rispetto al potere quindi il nostro non può che essere uno sguardo critico. Detto questo non esistono regole auree per cui si ha la certezza di riuscirci. Ogni film ci consente di metterci alla prova per verificare il nostro sguardo. Mi ricordo di qualcuno che parlando dei suoi film diceva di averli fatti per liberarsi dei titoli che gli aveva dato. Succede così anche a noi. Troviamo un titolo che poi ci costringe a lavorare in un certo modo rispondendo al significato contenuto nel titolo.

Mi avete detto che avevate desiderio di ricordare i vostri produttori. Facciamolo.

La componente produttiva è stata molto importante, perché ci ha permesso di fare un film durato quattro anni. Abbiamo vinto Eurimages, abbiamo stabilito una coproduzione con la Svizzera e con la Lombardia Film Commission. Soprattutto abbiamo ripreso i rapporti con l’Istituto Luce e la Cinematheque Svizzera già presenti in Guerra e Pace, ma anche con l’Eiffel Museum di Amsterdam, che è stato molto prezioso. La relazione con tutte le Cineteche europee è stata una relazione perfetta. Per finire volevo citare tre collaboratori fondamentali. Uno è Massimo Mariano, il nostro musicista e montatore del suono, che ci accompagna da sempre. Poi ci sono Raffaella Milazzo e Valerio Antonini che ci hanno aiutato alla realizzazione del film occupandosi della parte relativa alla produzione, da un punto di vista ministeriale.


Carlo Cerofolini

(conversazione pubblicata su taxidrivers.it)

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