El Jockey
di
Luis Ortega
con
Nahuel Pérez Biscayart, Úrsula Corberó, Daniel Giménez Cacho
Argentina,
Messico, Spagna, Danimarca, USA, 2024
genere:
commedia, gangster
durata:
96’
Le
maschere, storpiate, brutte, tragicomiche, mostrate una dietro l’altra
nella prima sequenza di “El Jockey” di Luis Ortega sembrano quasi volerci
mettere in guardia e prepararci a una visione diversa dalle altre dove forse
non tutto è da prendere sul serio, dove quelle stesse maschere verranno tolte e
dove tutto quello che si vede non è come sembra.
Perché
Luis Ortega prova a stupire fin da subito, ad andare contro corrente, mostrandoci
un film a metà tra il tragico e il comico, tra il reale e il fantastico, costantemente
in bilico tra la vita e la morte (antipodi sui quali si fonda l’intera
storia).
La scuola migliore è la disgrazia.
E
di disgrazie al povero Remo Manfredini, fantino leggendario, ne succedono
davvero tante, quasi da perdere il conto.
Remo
Manfredini è un fantino leggendario, ma il suo comportamento autodistruttivo
sta cominciando a metterne in ombra il talento e a mettere a repentaglio la
relazione con Abril, la fidanzata.
Il
giorno della gara più importante della sua carriera, che lo libererà dai debiti
col suo boss mafioso Sirena, ha un grave incidente, scompare dall’ospedale e
vaga per le strade di Buenos Aires. Libero dalla propria identità, inizia a
scoprire il suo vero io. Ma Sirena è determinato a stanarlo. Vivo o morto.
(Fonte: Biennale)
Al
di là della storia, più o meno semplice, più o meno contorta, a impressionare del
regista argentino è sicuramente lo stile, fuori dal comune e mai ripetitivo,
nonostante il susseguirsi di eventi che potrebbero portare a una ripetizione
quasi estenuante.
E' chiaro fin da subito l’intento di Luis Ortega, seguire il protagonista che,
all’occorrenza, può trasformarsi in chiunque, assumendo diverse sembianze e che
quindi, non solo arriva a catalizzare qualsiasi tipo di attenzione su di sé, ma
permette anche una più semplice identificazione proprio perché abbraccia una fetta
di pubblico più vasta.
Luis
Ortega sceglie di non limitarsi a un solo ambiente, ma anzi decide di mostrare
quelli che sono i bassifondi di un’Argentina (che potrebbe essere qualsiasi altro
luogo) facendo leva sulla decadenza e sulla mancanza di qualsiasi cosa da parte
di tutti gli abitanti, dai giovanissimi ai più anziani.
Se
per conoscere meglio Remo e la sua fidanzata (la Ursula Corbero de “La casa di
carta”) non approfondiamo troppo il loro rapporto, mostrato solo in un breve
momento tragicomico nel quale i due condividono alcuni pensieri intimi sulla
genitorialità e non solo, ma ci basta vedere alcune dinamiche che li mostrano
intenti a dialogare con altri personaggi, diventa, però, fondamentale quella
scena di ballo, già iconica un attimo dopo averla vista, che li contrappone
visivamente, fisicamente e mentalmente. Quella che sembra essere una parentesi
ridondante, se non quasi inutile, diventa il mezzo attraverso il quale
comprendere determinate scelte di entrambi i personaggi (non a caso vestiti in
maniera opposta e contrapposta, come a dover considerare solo alcuni aspetti
per l’uno e altri per l’altra).
Devi morire e rinascere.
Con
questa frase è possibile riassumere l’intera opera di Ortega che, facendo leva
su un’ottima interpretazione di Nahuel Pérez Biscayart, gioca continuamente con
il personaggio, la storia e lo spettatore, prendendolo costantemente in giro,
illudendolo di stare vedendo qualcosa per poi cambiare immediatamente prospettiva
e punto di vista facendolo dubitare anche della realtà stessa.
Tra citazioni più o meno
evidenti (quella a “Il Padrino” è da antologia), “El Jockey” fa sua questa
caratteristica centrale, ma si perde al suo interno, inserendo il pubblico in
un vortice dal quale è difficile uscire, anche alla fine della visione, anche
quando sembra tutto finito e “spiegato”.
Veronica Ranocchi
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