domenica, settembre 15, 2024

MARIA

Maria

di Pablo Larraìn

con Angelina Jolie, Pierfrancesco Favino, Alba Rohrwacher

Cile, Italia, Germania, 2024

genere: biografico, drammatico

durata: 124’

Anche quest’anno Venezia ha accolto in concorso una nuova opera di Pablo Larraìn. Dopo il non troppo apprezzato “El Conde”, l’autore cileno riprende la sua trilogia dei personaggi femminili del ‘900 che aveva cominciato prima con “Jackie” e poi con “Spencer”. Stavolta è il turno della celebre soprano Maria Callas, interpretata da un’Angelina Jolie in odore di candidatura agli Oscar più per l’importanza della figura realmente esistita che per l’interpretazione in sé.

La storia si apre il 16 settembre 1977, giorno della scomparsa della diva, in quel di Parigi. Da lì, a ritroso, saltando tra i momenti salienti della sua carriera, alternati alla musica e alle opere che hanno reso celebre la soprano, Larraìn cerca di tratteggiare il dipinto di un’icona senza tempo (e spazio), facendosi aiutare dall’escamotage di un’intervista al tramonto della carriera.

Prendendo spunto da quel “Viale del tramonto” al quale la Maria di Angelina Jolie sembra strizzare continuamente l’occhio, si susseguono sullo schermo eventi reali e non, mescolati a sommo studio a causa di tutti i medicinali che la Callas era costretta (e intenzionata) a prendere continuamente.

Dopo aver solo intravisto il corpo ormai senza vita della Callas, veniamo proiettati indietro, attraverso una lunga e interessante carrellata che mostra la vita e le esibizioni, il pubblico e il privato di quella che ancora oggi è osannata in tutto il mondo come una delle voci più belle di sempre.

Con il canto, elemento fondante di quest'opera, spesso reso visivamente dal bianco e nero, come un ricordo impresso nella mente non soltanto della protagonista, ma anche di tutti coloro che la circondano e la osservano, va di pari passo la “dipendenza” dai medicinali, tra quelli autorizzati e quelli "desiderati". Il silenzio che accompagna l’assunzione di quello che dovrebbe essere un aiuto per la voce, la mente e la salute della Callas è significativo di un momento che forse solo lei conosceva veramente. Come se quel silenzio racchiudesse un’intimità segreta che solo lei (e pochissimi altri) era in grado di conoscere e gestire.

            Il palco è nella mia testa.

Come un mantra questa frase torna nel film, anche se a pronunciarla è soltanto una volta, ma è come se questo fosse l’obiettivo della Callas rivisitata da Larraìn, dove ci si concentra sull’approccio dell’artista al palcoscenico, alla musica e sul suo modo di vivere questo tramonto inevitabile e inesorabile.

Prendendo apparentemente le distanze dalla vita “pubblica” e dalla relazione con Aristotele Onassis, Larraìn rivisita a suo modo, come tipico del suo cinema, la vita della protagonista. Introduce Onassis nella storia, ma si limita a tratteggiarne le fasi salienti, dalla conoscenza e l’avvicinamento dei due alla storia d’amore (sempre celata nella pellicola) destinata a lasciare presto spazio a un'altra figura di spessore, la Jackie già ampiamente approfondita nel primo capitolo della trilogia.

Come in un intreccio senza fine esiste un trait d’union tra le due (tre) “creature” quasi mi(s)tiche che Larraìn decide di portare sullo schermo. Maria e Jackie sono inesorabilmente legate, unite dall’amore di e per Onassis. Un amore destinato a dover essere "spartito". Larraìn ci mostra una Maria inizialmente restia, ma poi profondamente innamorata dell'uomo tanto da accettare che quest'ultimo possa preferirle, almeno pubblicamente, Jackie, salvo poi rivelare alla soprano il suo profondo sentimento nei suoi confronti. Jackie, che mai si mostra in questo terzo capitolo, ma che viene solo menzionata, è posta allo stesso livello di Maria (non è un caso che, per entrambe, il regista cileno scelga il nome proprio, a differenza di quanto fatto per "Spencer"). Se per la Lady Diana amata da tutti c'è tempo e spazio per una sorta di redenzione, almeno cinematografica, per Jackie e per Maria ciò non è possibile, destinate a mostrarsi con le proprie debolezze e i propri demoni, probabilmente con la "colpa" di aver vissuto una vita comunque piena.

            Il mio corpo sapeva che ero una tigre.

Sembra quasi che, così facendo, la Maria futura riesca a parlare alla Maria passata, comprendendo i limiti che il suo corpo le mostra. Perché oltre alla musica, inevitabilmente perno della narrazione, un altro protagonista importante è il corpo, sia come corpo fragile, destinato a perire davanti al sopraggiungere del destino, sia come corpo che deve mostrarsi, a prescindere da tutto e da tutti, come qualcosa da esaltare, osannare, ammirare. Maria va nei bar soltanto per ricevere complimenti e adulazioni da camerieri, passanti, fan e da chiunque, senza però accettare di poter, anche solo per poco, ascoltare la propria voce che si è compiuta in un dato momento in un dato luogo e che non potrà mai più ripetersi esattamente allo stesso modo, come lei stessa afferma in un impeto di rabbia. La voce diventa il tramite tra la figura iconica di Maria e un corpo sempre più decadente. Corpo che risulta centrale anche per gli altri personaggi, dalla domestica interpretata da Alba Rohrwacher al tuttofare al quale presta il volto Pierfrancesco Favino. La prima non in grado di comprendere realmente le sfumature della bravura della soprano, il secondo, invece, concentrato su un lavoro sul corpo e sulla corporeità esemplare, che, invece di ridurlo a macchietta, lo mostra nella sua umanità (e nella sua realtà), di pari passo con la propria “padrona”.

Un’ultima ode alla divina Maria Callas.


Veronica Ranocchi

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