Film d’apertura delle Giornate degli Autori e in sala dal 29 agosto Coppia Aperta quasi spalancata prende in prestito il teatro e un’attrice di successo, Chiara Francini, per parlare dell’amore di coppia in tutte le sue declinazioni. Del film abbiamo parlato con Federica Di Giacomo.
Coppia aperta quasi
spalancata di Federica Di Giacomo è in sala dal 29 agosto con I Wonder
Pictures, ma è stato presentato anche a Venezia 2024.
L’effetto
meta cinematografico della prima sequenza è piacevolmente spiazzante. All’inizio
infatti crediamo di guardare un film di finzione interpretato da Chiara
Francini e Alessandro Federico, poi quando il privato degli attori entra all’interno
dell’inquadratura ci si accorge di trovarsi di fronte a un documentario.
In realtà Coppia aperta quasi spalancata è un film polivalente
dove arte e vita si mescolano di continuo. Come ti è venuto in mente un inizio
del genere?
L’idea è nata quando
abbiamo seguito per alcuni giorni la tournée teatrale. Nella vita reale
rispetto allo spettacolo i rapporti tra i due attori erano ribaltati, Alessandro più
sottomesso e Chiara molto dominante con effetti piuttosto
comici. Da lì abbiamo pensato che rompere subito il meccanismo di finzione
classico aiutasse lo spettatore ad entrare in una prospettiva diversa che
portava il racconto nella società. D’altronde Franca Rame con
la vena provocatoria del suo stile era riuscita a realizzare una satira molto
pungente della società del suo tempo. La volontà quindi era quella di trasporlo
con lo stesso spirito dell’autrice nell’Italia di oggi attraverso una nuova
geografia dell’amore.
Coppia aperta quasi
spalancata è costruito come un gioco di specchi
perché il tema dell’amore di coppia analizzato nelle sue
variabili aveva anche nel sodalizio lavorativo tra Chiara e Alessandro con
possibile esempio.
Sì, la cosa interessante
era proprio quella. Attraverso l’osservazione le mie ricerche si sono
indirizzate in due direzioni. La prima consisteva nel cercare nella realtà chi
praticava il modello di coppia aperta, cercando di capire se questo concetto
era lo stesso quarant’anni fa oppure no. All’inizio ho cercato anche
nell’ambito dello scambismo che è la versione più immediata con cui si traduce
il concetto di coppia aperta, nel senso che normalmente si parla di aprire
la coppia solo dal punto di vista sessuale, prospettiva, questa, che ho trovato
fin da subito poco interessante perché restringeva troppo il campo. Al
contrario il poliamore come nuova visione della società e della famiglia mi
sembrava un punto di vista più stimolante. Per questo ho seguito una di queste
coppie che guardano alla monogamia come qualcosa di medievale destinato a
durare ancora oggi solo per motivi legati alla struttura sociale – dunque alla
disparità tra uomo e donna – ed economica. Una critica questa che in fondo era
presente anche nel testo teatrale. Parallelamente ho iniziato a seguire
anche Chiara e Alessandro nella
confidenzialità che spesso si stabilisce nel corso delle tournée teatrali.
Se consideriamo che nel
rapporto lavorativo tra Chiara e Federico si inserisce anche Frederic, compagno
dell’attrice,
è possibile vedere anche loro come una variante di coppia aperta, seppur nel
senso più platonico del termine.
Infatti si tratta di una
versione poliamorosa che non si realizza perché in loro persiste l’idea
della monogamia, in Inglese si dice One Penis Policy, cioè un unico uomo
dentro la coppia dunque dell’esclusività sessuale in cui si possono condividere
molte cose ma non tutte. Devo dirti che il parallelismo tra un trio che non si
apre e l’altro, in cui invece due maschi eterosessuali diventano amici e
accettano di condividere la relazione con la stessa donna, è nato in maniera
spontanea ma per me era molto importante perché ripropone la domanda
fondamentale del testo, può una donna permettersi la libertà sessuale e
sentimentale che viene socialmente accettata per l’uomo?
Coppia aperta quasi
spalancata si pone in continuità con i tuoi
precedenti lavori a partire. Anche ne Il Palazzo, per esempio,
raccontavi un modo di vivere estraneo ai costumi della nostra società. Li
portavi agli estremi il concetto di amicizia, qui quello relativo all’amore.
Anche in Coppia aperta quasi spalancata abbiamo a che fare con
una filosofia proveniente dalla cultura degli anni settanta a testimonianza di
un discorso che porti avanti con coerenza di film in film.
Sicuramente mi affascina
scoprire microcosmi di senso all’interno del nostro mondo, fatti di persone che
condividono una situazione o un modo di pensare diverso. Quando ci entro,
sospendo il giudizio e li osservo per mesi, o anni e cerco di guardare tutto
dal loro punto di vista, con le loro parole, con i loro codici interni. Mi
sembra sempre, dal mio primo film, un modo per guardare il resto della società
con una nuova distanza che illumina di significato e di orizzonti di senso
interessanti i paradigmi del pensiero dominante. Le comunità dei poliamorosi mi
hanno aiutato a vedere la monogamia con occhiali particolari, ho riconsiderato
certi concetti che anche io avevo incrostati dentro di me, mi sono resa conto
che molte idee sull’amore e sulla gelosia le avevo interiorizzate senza
problematizzarle abbastanza e ne ho fatto un tema del film.
Come pure l’abitudine
di prendere le parti più estreme del tuo discorso e inserirle in un contesto di
normalità per constatarne gli effetti.
Come in Liberami ho
cercato di ribaltare la prospettiva normalizzando la figura del prete esorcista
qui mi sembrava stimolante ribaltare la prospettiva verso i Poliamorosi che,
come mi hanno raccontato moltissimi di loro, in Italia vengono visti
attraverso stereotipi vecchi e fuorvianti. Alcuni parlano di terrore
poliamoroso, quando decidono di parlarne ci sono reazioni di ansia, di paura
piuttosto scomposte, a volte esilaranti, di chi ha un’idea più tradizionale del
rapporto, come se fossero portatori di un virus contagioso. Quando abbiamo
incontrato la polecola, cioè la famiglia di Sara, Daniel
Efrem e Chloè, abbiamo respirato un’atmosfera di
tranquillità, rispetto e cura che li pone proprio all’opposto dell’idea che si
ha spesso dei poliamorosi come nevrotici cercatori di emozioni e sesso. Quindi
il dispositivo del ribaltamento ha funzionato.
Un dispositivo, quello
che hai appena detto, riassunto da inquadrature ricorrenti in cui vediamo la
quinta teatrale ripresa dal backstage.
Sì, certo, quelle
inquadrature facevano parte del meccanismo per passare dal teatro alla vita
reale. C’è da dire che i testi di Franca Rame sono ad alto
contenuto autobiografico. Lei è stata una delle prime autrici ad avere il
coraggio di portare la propria vita sul palco. A far diventare politico il
personale ce l’ha insegnato lei, portando anche il teatro fuori dai teatri
borghesi verso la gente comune, quindi mi sono anche sentita legittimata a fare
un’operazione meta teatrale e anche meta cinematografica. Capisco che la
perdita di riferimenti e un linguaggio diverso da quello classico può risultare
un po’ straniante per chi non vi è abituato ma quando è così siamo anche più
aperti ad accettare opinioni diverse dalla nostra. In una scena può capitare di
sentirci più vicini a un personaggio, in un’altra ad un secondo senza sentire
il bisogno di riconoscersi in posizioni di pensiero definitive.
Alla maniera di Franca
Rame, anche Chiara Francini nel film accetta di mettere in discussione se
stessa e il suo personaggio attraverso un confronto serrato con la realtà. Da
una parte vi figura come una sorta di grillo parlante, dall’altra
non ha paura di mostrarsi con tutte le sue imperfezioni.
L’idea era di ripetere un
po’ il rito di Franca e quindi dell’attrice che quarant’anni
dopo porta in giro lo spettacolo nei teatri stabili di tutta Italia accettando
di aprirsi e di svelare qualcosa della propria vita. In realtà in questo Chiara è
stata propositiva, cioè lei stessa mi voleva proporre sin dall’inizio la sua
vita, i rapporti con la madre, quelli con il fidanzato e con il collega di
lavoro. Non ti nascondo che si è trattato di un film molto complesso da girare
perché per i poliamorosi invece mostrarsi ed aprirsi non era facile, molti di
loro non lo avevano ancora detto a parenti o nell’ambito lavorativo. Per questo
abbiamo costruito una relazione di fiducia che li aiutati a credere nel
progetto e solo dopo molti mesi hanno aderito completamente al film.
Infatti un’altra
caratteristica del film è quello di un confronto molto spontaneo in cui Chiara
e Alessandro si trovano spesso in minoranza rispetto agli altri. Chiara non ha
paura di essere fuori dal coro in maniera spesso conservativa così come non l’hanno
gli altri nel manifestargli il loro dissenso.
Secondo me questo aspetto
diventa metaforico rispetto alla nostra società. Negli anni settanta il
dibattito e il confronto di idee era il benvenuto mentre adesso esprimere un’opinione
contraria alla maggioranza rischia di metterti in disparte. Dunque la cosa più
politica che potevo fare era quello di mantenere lo spirito di Franca,
creando un dibattito per poi mostrarlo senza filtri, facendo venire fuori dei
concetti che covano da anni dentro di noi. Non bisogna dimenticare di essere
cresciuti in un paese cattolico in cui la monogamia è intoccabile, caricata
com’è di un romanticismo che non esiste più perché nel frattempo la famiglia è
completamente cambiata. Nel creare questi momenti di confronto abbiamo cercato
di non dare troppe informazioni ai partecipanti per mantenere una certa
genuinità e fare uscire le domande più scomode proprio perché su questi temi
cosi personale e complessi non esiste una risposta unica.
Nel film ci sono delle
scene esilaranti. Una di queste è quella dell’incontro con
la madre. In generale sia lei che altri sembrano più personaggi di quelli di
finzione.
Quello mi deriva
dall’istinto documentaristico, nel senso che io mi innamoro degli esseri umani
e tendo a considerare la loro forza espressiva pari o superiore a quella degli
attori che sono comunque chiamati a fare un lavoro per arrivare alla verità. Quando
ho incontrato la madre di Chiara ho trovato una tale carica di ironia, una tale
dignità ed intelligenza, tempi comici perfetti, che mi sembrava impossibile da
non rappresentare. Considera che in tutte le scene non c’è un dialogo scritto:
cioè io predispongo, preparo, lavoro sulle situazioni da mettere in scena ma
poi loro vanno liberi. Non intervengo mai durante le riprese.
Un’altra
sequenza molto divertente è quella con Chiara e il marito, con quest’ultimo
che ha una mimica facciale opposta a quella di lei. I loro battibecchi sono
degni di quelli tra Raimondo Vianello e Sandra Mondaini.
Sì, il rapporto con
Frederick era molto interessante perché lui ha questo umorismo nordico che si
contrappone alla grande all’esuberanza di Chiara con le sue battute fredde,
puntuali e ciniche. L’idea però è stata di non limitare il film su una coppia.
Al contrario per me era molto importante aprirla per far diventare il film un
racconto plurale nel tentativo di ragionare sulla monogamia di coppia da un
punto di vista diverso. Da qui l’idea di creare un parallelismo con l’altra
famiglia, quella fondata sul poliamore.
In tal senso ho trovato
molto azzeccata la sequenza finale che rovescia completamente la filosofia del
poliamore mostrando Chiara in balia di Frederic, maschio alfa in cerca della
casa dei suoi sogni e non di quelli di lei.
Beh, sì, il gioco era un
po’ quello di far riflettere su cosa è veramente anomalo. In realtà
l’ultima scena del film doveva essere un omaggio a Franca Rame.
Io e la montatrice abbiamo scelto un pezzo della famosissima intervista con
la Carrà in cui Franca parla dei baci che si
possono dare anche se si è in coppia ma purtroppo per problemi di produzione
non è stato possibile inserirla. In generale l’esclusività sessuale ci porta a
stare con una determinata persona quando forse avremmo da condividere di più
con altri. È l’idea che secoli di letteratura e cultura ci hanno
tramandato della metà che ci completa e diventa l’unica aspirazione caricandoci
tutti di aspettative eccessive. In una società – come dice il rapporto Istat
sulla famiglia – in cui l’Italia è composta dal 33% di single, i poliamorosi
propongono di riconsiderare in concetto di rete affettiva in cui gli altri
affetti di cui ci circondiamo sono importanti tanto quanto questo fantomatico
partner che dovrebbero risolverci tutta la vita.
L’esuberanza
di Chiara rischiava di vampirizzare il testo del film. La tua bravura è stata
quella di creare un dispositivo in grado di contenerla assicurando agli altri
lo stesso spazio e complessità. Com’è stato lavorare con lei? Te lo chiedo
perché tu sei una regista con una precisa identità, lei altrettanto e dunque
appartenuti a mondi lontanissimi per visione della vita e del cinema.
La cosa interessante era
proprio andare dentro questa diversità cercando di capirla. Era chiaro che
quando l’attrice e la produttrice di un film coincide con la stessa persona il
rischio di sbilanciare la narrazione su un binario unico è molto forte e sapevo
che questo poteva rendere difficile la lavorazione del film. In più veniamo
anche da visioni della vita e del cinema molto diverse. Per questo motivo dopo
i mesi di ricerca e sviluppo con il mio gruppo di scrittori ho proposto un
trattamento ed ho condizionato la mia partecipazione al film alla sua
accettazione, proprio per rendere condiviso con tutti il metodo e la struttura
corale del film.
In realtà Chiara ha la dote di dire
le cose fuori dai denti e senza molti filtri e la prima cosa che mi ha detto è
che le interessava il mio modo di andare verso la realtà, quindi era disposta
ad accettarne le conseguenze. Siamo partiti senza sapere se ci saremmo riusciti,
senza avere dati certi, dovendo fare il film anche in tempi molto stretti per
esigenze produttive. Abbiamo corso, ci siamo buttati, ci siamo scontrati
ma questa energia molto forte ha creato un film vivace ed interessante.
Carlo Cerofolini
(conversazione pubblicata su taxidrivers.it)
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