In concorso per il Leone d’oro a Venezia 2024 Campo di battaglia di Gianni Amelio si pone in perfetta continuità con la filmografia del maestro italiano confermandone la poetica e il carattere. Del film abbiamo parlato con Gianni Amelio.
Interpretato da
Alessandro Borghi, Gabriel Montesi e Federica Rosellini, Campo di Battaglia è
stato prodotto da Kavac, IBC Movie, OneArt, Rai Cinema.
Campo di Battaglia è un
film sulla guerra in cui non si spara un colpo e dove sono bandite le strategie
formali tipiche del genere. Era questa la premessa per la storia che volevi
raccontare?
Sì. Spesso i film “di
guerra” si trasformano in racconti d’avventura. La guerra invece va raccontata
nella sua terrificante potenza, scavando nell’orrore di chi ci si trova dentro.
Non era mia intenzione fare un comizio né una predica, ma guardare in faccia le
vicissitudini di chi subisce le conseguenze dello scontro. Nel film ci sono da
una parte gli ufficiali medici che devono rimettere in sesto i soldati per
rimandarli al fronte “col fucile in mano”, dall’altra i soldati che hanno
vissuto la ferocia di quell’esperienza e sono disposti a tutto, anche a tornare
a casa senza un braccio o un occhio, pur di evitare quel luogo di morte. Ho
voluto raccontare la vita dentro un altro campo di battaglia, in questo caso
l’ospedale militare che diventa anche lo spazio del tradimento, dove esplode il
rifiuto della guerra e si cerca il modo di combatterla.
Il titolo del film spiega
molto di quanto hai appena detto. Il campo di battaglia infatti è il terreno
dove si materializza un altro scontro, ma è anche lo spazio che ci ricorda come
il nemico si manifesti prima di tutto dentro di noi.
È l’interpretazione
esatta del film. Il titolo contiene anche un altro concetto: le guerre sono
manovrate dal delirio di potere di chi ha le chiavi del comando, e a farne le
spese sono gli innocenti, gli ultimi, i disperati. Soprattutto la Grande Guerra
è stata una mattanza di povera gente, di giovani reclutati tra i disoccupati, i
contadini, e usati come carne da macello. Il soldato meridionale non capiva
nemmeno il modo di parlare di quello del nord, per lui era quasi come avere di
fronte un altro nemico, anziché un fratello. Parliamo di un’Italia in cui per
andare dal sud al nord ci volevano giorni. In un momento del film un soldato di
Catania dice di non essere mai andato in licenza perché la Sicilia è lontana e
i superiori hanno paura che i soldati una volta lì non tornino più. Il
sentimento negativo che accompagna tutte le guerre è reso ancora più forte
perché parliamo di un conflitto manovrato dall’alto, una guerra sanguinosa che
ha toccato le persone più fragili, e soprattutto i giovani perché si andava in
guerra già a diciotto anni.
Non è raro che i tuoi
film interroghino la Storia per trovare risposta alle domande di oggi. Per te
la Storia non è mai una cornice ma parte integrante della narrazione. Succede
così anche in Campo di Battaglia ambientato nel 1918, ultimo anno di una lunga
e sanguinosa guerra.
Se non si parte dai
problemi più urgenti dell’oggi, la Storia diventa solo un modo per fare sfoggio
di erudizione. Se certi problemi sono attuali il discorso cambia. Quando giravo
il film non pensavo solo alle esigenze di una ricostruzione d’epoca, ma a venirmi
in mente era ciò che accade in Ucraina, a Gaza, e che continua ad accadere in
Medio Oriente.
La Prima Guerra Mondiale
è stata un conflitto molto diverso dagli altri.
È stata una guerra
combattuta da giovani non per motivi economici ma perché obbligati a farlo.
Oggi ci sono gli eserciti mercenari, allora c’era l’obbligo di andare a
difendere la patria. Poi in realtà sappiamo che dietro questo concetto c’è
sempre la manovra del potere. Anche il fatto di allearsi con un Paese o con un
altro nasce dalla convenienza politica. L’Italia, per esempio, la guerra non
l’ha vinta, ma il fatto di essersi alleata con la coalizione che ha prevalso,
le ha concesso di sedersi al tavolo dei vincitori. Le perdite in termini di
vite umane sono state enormi, a fronte di una guerra combattuta per motivi
tattici e non, ad esempio, come risposta all’invasione di un nemico. Qualche
volta sembra che ci siano guerre “giuste”, ma non penso che i problemi si
possano risolvere solo con bombe e fucili. La politica esiste per evitare che
questo si verifichi.
Uno degli aspetti più
riusciti del film è quello che riguarda la dialettica tra i personaggi
principali. Il confronto tra loro non assume mai posizioni manichee. Se il
Giulio di Alessandro Borghi è quello che suscita più empatia, bisogna dire che
Stefano, interpretato da Gabriel Montesi, è mosso da un’onestà di fondo che
finisce per salvarlo. In questo senso il personaggio di Anna rappresenta una
sorta di sintesi delle posizioni assunte dai due amici.
È vero. Campo di
Battaglia evita le schematizzazioni, e il personaggio di Anna è il più inquieto
dei tre, ma è poi quello più deciso e umanamente forte. Anna fa fino in fondo
il suo dovere. Lei non è nemmeno un medico, perché a quei tempi per una donna era
difficile arrivare a quel livello. Ma poi resta dentro l’ospedale quando a una
guerra se ne aggiunge un’altra, più inquietante, rappresentata dall’epidemia. A
quel punto i capi se ne lavano le mani, non possono mandare a casa il corpo di
un soldato morto senza una ferita addosso. Nel film c’è una scena molto
esplicita in cui, di fronte all’incalzare di Stefano, il Generale si tira
indietro lasciando a lui la responsabilità di decidere.
Nel film l’epidemia
“spagnola” si diffonde innanzitutto tra i soldati. Si tratta di una realtà poco
conosciuta su cui il film fa luce.
È, storicamente provato
che i primi casi di spagnola non sono stati rilevati tra i civili ma proprio
nelle trincee. Ci sono stati migliaia di morti per polmonite. Ho messo in
evidenza come a una catastrofe se ne sia aggiunta un’altra. La spagnola è stata
una tragedia dentro un’altra tragedia. È tutto documentato. I primi casi di
pandemia si sono verificati tra i soldati alla fine di marzo del 1918.
“Qui non muore nessuno”.
Di fronte alla tragedia che colpisce militari e civili, la frase pronunciata da
Anna assume un punto di vista, e direi pure un sentimento, che riporta
all’Albert Camus de La Peste e al Leopardi de La Ginestra. Campo di Battaglia di
Gianni Amelio ci dice che nel dolore non ci resta che essere solidali uno con
l’altro, aiutandoci nel raggiungimento di un obiettivo comune.
Tra i miei riferimenti
avevo sia Camus che Leopardi. Anna è spinta dall’ottimismo della volontà, per
cui, davanti all’evidenza dei fatti, risponde con disperata fiducia. Quella
frase, apparentemente assurda, riassume l’intenzione di dare uno scacco alla
morte chiamando a raccolta l’intera comunità. Di fronte all’impossibilità di
affrontare da sola quella tragedia, quando guerra e pandemia si uniscono per
fare strage di vite umane, è giusto che chi ha un minimo di forza accetti di
resistere e di lottare per gli altri.
In Campo di battaglia
figurano due temi ricorrenti del tuo cinema, quello del complesso rapporto con
la figura paterna e ancora la conflittualità tra fratelli. Giulio e Stefano è
come se lo fossero, però come succede in Così Ridevano, il fatto di volersi
bene non impedisce loro di separarsi.
Sono contento di questo
rilievo. Sia in Così Ridevano che in Campo di Battaglia esiste
questo sentimento per cui uno ha bisogno dell’altro. Quando Stefano dice a
Giulio che gli farebbe bene stare un po’ in trincea e Giulio gli risponde di
essere pronto a partire subito, Stefano rimane in silenzio. Anche se sembra il
contrario, è più Stefano ad aver bisogno di Giulio che viceversa. Giulio, anche
se per il tratto della sua figura sembra più fragile, più delicato, più
morbido, è in realtà il più forte dei due. Stefano invece ha tutta l’aria di
star bene dentro la propria divisa, invece è esattamente l’opposto.
Parlando degli attori
che, come sempre nei tuoi film, si producono in una prova eccellente, mi sembra
di poter dire che la loro scelta sia partita innanzitutto dalla corrispondenza
fisiognomica con i personaggi. Montesi con il volto più squadrato e i tratti
più marcati rispondeva al fare duro e determinato di Stefano mentre la
fisionomia più dolce di Borghi si sposa bene con la sensibilità emotiva di
Giulio.
In effetti è stato un
punto di partenza molto importante nella scelta degli attori. In particolare
Federica Rosellini ha una femminilità particolare, qualcosa che l’avvicina al
ruolo di una religiosa o di qualcuno che fa un mestiere maschile, cosa che succede
nell’Italia del 1918, in cui per una donna c’era poca scelta, e peraltro non
esisteva un’esposizione del corpo come avviene oggi. Detto questo, trovo che
nel film sia stato fatto un gran lavoro sui ruoli dei soldati, insegnando agli
attori dialetti che oggi non sono più parlati. In alcuni casi credo che gli
interpreti abbiano studiato con persone molto anziane, depositarie di lingue
oramai scomparse.
Carlo Cerofolini
(conversazione pubblicata su taxidrivers.it)
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