sabato, marzo 21, 2020

HIGH FLYING BIRD


High Flying Bird
di Steven Soderbergh
con Andrè Holland. Zazie Beets
USA, 2019
genere, drammatico, sportivo
durata, 90'


Alla pari dei suoi personaggi il cinema di Steven Soderbergh tende a spiazzare chi lo guarda, confondendolo con visioni narrative spesso fuorvianti rispetto alle reali intenzioni del regista. Senza aspettare “Ocean Eleven” con cui il nostro è venuto allo scoperto, facendo della simulazione artistica il mezzo per fare soldi e spettacolo, prima di iniziare a parlare di “High Flying Bird” conviene ritornare alle origini per cercare di fissare le fondamenta a cui Soderbergh non ha mai rinunciato. “Sesso, bugie e videotape” è in questo senso il lungometraggio fondante della poetica del nostro, proponendo almeno tre caratteristiche intrecciate tra loro e destinate a permanere pur all’interno di un dispositivo dedito al cambiamento e alla sperimentazione. Parliamo dell’uso del fuori campo, utilizzato da Soderbergh sia in chiave narrativa e/o concettuale (nello specifico per materializzare le difficoltà sessuali del protagonista e il fatto che la visione delle registrazioni filmate lo sono a suo uso esclusivo); di quello delle parole, paradossalmente usate come surrogato della visione (lasciata fuori campo) in un cinema abituato continuamente a ragionare sul come e cosa vedere, e infine della tecnologia, di cui il regista è sublime sperimentatore e che nel film in questione preconizzava la morte delle relazioni umane a favore di rapporti sempre più virtuali. 


“High Flying Bird” distribuito su Netflix nel 2019 non sfugge alla regola, presentandosi (anche lui) sotto mentite spoglie, ovvero come  il più classico dei film di genere, con poster allusivo e giocatori in carne e ossa pronti a raccontare come sopravvivere nel salto che li ha condotti nel mono del professionismo. In realtà - e qui sta la prima anomalia - “High Flying Bird” non è un lungometraggio sportivo bensì sullo sport intenso nei meccanismi economici, istituzionali e soprattutto corporativi che ne pilotano lo spettacolo. Il protagonista, Ray Burke (Andrè Holland, protagonista di The Eddy, prossima miniserie diretta da Damien Chazelle), è per l’appunto l’agente di una grossa agenzia di management che nel pieno della sospensione del campionato NBA (la storia fa riferimento al  lockout del 2009/2010) cerca il modo di contrastare le offerte degli avversari che approfittano della situazione per rubargli i clienti e in particolare  il rookie Eric Scott, ansioso di monetizzare i crediti della propria bravura. Dunque come il sesso in “Sesso, bugie e videotape” anche il basket di “High Flying Bird” rimane esterno al quadro, invisibile all’occhio dello spettatore. Come avrà modo di vedere lo spettatore infatti sarà ancora una volta il fuori campo a farla da padrona, sia in termini concettuali, perché il film ruota attorno a un gioco che non c’è, per essere stato sospeso a causa del mancato accordo tra giocatori e federazione, sia perché come succede nel cinema di Soderbergh, quanto meno a partire dalla trilogia di Jimmy Ocean,  anche Ray come i suoi predecessore è un fine affabulatore e utilizza le parole per sviare gli interlocutori dal suo piano segreto, quello destinato a sparigliare le carte e a capovolgere la situazione, indirizzandola a suo favore.



D’altronde in quello che sostanzialmente è un film da camera, girato pressoché in interni e con movimenti di macchina utili a rompere la staticità percettiva e dare l’illusione del movimento, a essere indicativo è la costruzione della sequenza iniziale, In apparenza virtuosistica, nella fluidità con cui il percorso compiuto da una donna che sta portando una busta al protagonista collega quest'ultimo alla soggettiva di una veduta newyorkese, il piano sequenza segnala fin da subito l’esistenza di un doppio fondo narrativo.  Se Ray è un passo in avanti rispetto agli altri perché riuscendo a essere sempre dentro il problema (a dirlo è Myra, potente boss della lega giocatori), il riflusso  repentino dall’esterno verso l’interno unito al contrasto di luce tra  l’ombra del corridoio attraverso cui si snoda il percorso e la luce  della sala da pranzo dove esso termina la dice lunga su come “High Flying Bird” sia un film costruito sui fatti della cronaca (il lockout del 2009 e le sue conseguenze) come pure sulla finzione di un film che ci porta nella testa del personaggio e nel piano che esso sta per escogitare.

Peraltro la centralità di Ray non è solo data dalla capacità del personaggio di costruirne in senso classico la trama, ovverosia di esserne il motore che la manda avanti. Se a scontrarsi nel corso della vicenda sono le due facce della stessa medaglia, ovverosia l’amore per il gioco e quello per il denaro, Burke è l’ago fra bilancia, colui in cui lo tenzone si ricompone. Oltre a essere uno dei migliori agenti in circolazione, capace di mettere d’accordo agonismo e mediazione, Ray non ha dimenticato le proprie origini, avendo il basket nel sangue per averlo praticato sulle strade di New Tork e in maniera drammatica nelle vicissitudini del cugino, cestista suicida per eccesso di sensibilità. Se poi non bastasse a confermare quanto detto sta il twist finale, quello in cui scopriamo che la presunta Bibbia regalata da Ray a Eric altro non è che “La rivolta dell’atleta nero” di Harry Edwards, il testo che nel pieno delle lotte per i diritti civili costituì una sorta di vademecum per attuare anche nello sport forme di protesta organizzate. Tanto per dire che nulla è come sembra e che “High Flying Bird” - non a caso scritto da  Tarell Alvin McCraney, sceneggiatore (premio Oscar) di “Moonlighting” - è anche un film sulla coscienza di un’intera comunità e un monito per evitare nuove forme di schiavitù, in questo caso nei confronti del Dio denaro. A fronte della sua scommessa produttiva (come  “Unsane” anche questo è girato  con un iPhone 8) “High Flying Bird” appartiene con pieno merito alla tradizione cinematografica del suo prolifico cineasta.   
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

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