venerdì, agosto 09, 2013

PACIFIC RIM


"Pacific rim"/"id. (3D)
di: G. del Toro
con: C. Hunnam, I. Elba, R. Kikuchi, R. Perlman, C. Day.
- USA 2013 -
130 min

"A me gli occhi", dicono gl'illusionisti/escapisti/funamboli del trucco di Leterrier ("Now you see me", vd.). Analoga sollecitazione propone Guillermo del Toro che però, da subito, come spesso accade nel suo cinema - dalle perlustrazioni sub-metropolitane di "Mimic" (1997), passando per gli antri e i recessi più sinistri di una città suggestiva (Praga) invasa dai vampiri in "Blade II" (2002), fino ai laboratori segreti, i sistemi fognari e le linee della metro nel dittico dedicato ad "Hellboy" (2004 e 2008) e tra gli "inner secrets" de "La spina del diavolo" (2001) e "Il labirinto del fauno" (2006) - distoglie il suo (e il nostro) sguardo dal cielo (accordandosi chissà quanto da lontano alla lungimiranza greca che già riconosceva gli "innumerevoli flagelli e mostri spaventosi che la terra nutre/e le bestie nemiche racchiuse nel profondo dei mari") per dare un'occhiata (atterrita ma tutt'altro che rassegnata) a ciò che si agita sotto/(dentro) di noi e constatare ancora una volta che inganno e insidia provengono sempre e solo da li'.

Ciò da cui prende l'abbrivio la narrazione è una misteriosa frattura nel tessuto spazio-temporale apertasi nelle profondità oceaniche in corrispondenza della linea di faglia di una delle sue dorsali (più o meno il "pacific rim" del titolo, anche se, in maniera più prosaica, la geografia indica con questo termine tutti i territori le cui coste sono lambite dal Pacifico e il film di buon grado li annovera tra quelli che si accollano le spese del progetto di difesa). La strana "singolarità" funziona come smisurato hangar/catena di montaggio/condotta dal quale si precipitano in superficie colossali ibridi, catalogati in base a categorie - tipo gli uragani - secondo parametri di altezza (diverse decine di metri), peso (qualche migliaio di tonnellate) e... nomignolo-targhetta-di-riconoscimento. Le creature hanno forme e peculiarità - sovente abbinate - che ricordano ora draghi e lucertole, ora pesci e crostacei (per dire, testoni simil squalo martello; arti chelati o provvisti di ventose: dorsi dotati di para-esoscheletro). Emergono dagli abissi (le masse liquide si prestano "pazientemente" al 3D e lo rendono, nello specifico, ma la valutazione può essere clemente in generale, meno superfluo del solito) mulinando zampe tozze munite di artigli, code lanceolate, ali membranose, nematoidi con terminazioni nervose che si proiettano da bocche irte di denti e schiumanti sugna fosforescente... Ecco, cioè, la versione più recente dei cosiddetti "kaiju" (dal giapponese "grande bestia" e, per estensione, semplicemente "mostro"), a loro volta discendenza cinematografica diretta degli incubi post-atomici partoriti dall'immaginazione sconvolta di una società - quella nipponica - che avrebbe trovato in Godzilla (la cui silhouette, per contro e per inciso, imperiosa e "sensuale" nella versione peraltro modesta dell'omonimo film di Emmerich del '98, rimane insuperata) la materializzazione al tempo più inquietante, ricorrente e, alla lunga, persino "familiare" in chiave di esorcismo collettivo, di un dolore troppo grande per essere affidato al mero oblio personale.

Contromossa disperata, in scala e con tanto di supporto propagandistico, sono gli "Jaeger" (dal teutonico "cacciatore"), macchine antropomorfe anch'esse con un nome in codice, in stile Transformers ma senza la capacità mutaforma, pilotati in sincrono da due esseri umani connessi dal "drift" o "stretta di mano neuronale", transfer computerizzato che mettendo in relazione i sistemi nervosi - esperienze e patemi compresi - velocizza l'intesa, forza l'affiatamento, ossia "assembla" l'efficacia della risposta in battaglia. Ricollocando, infatti, l'elemento umano al crocevia degli eventi in dialettica aperta e non subalterna con la potenza Tecnica, del Toro opera uno scarto che produce un doppio effetto: da un lato, restituendo vitalità e cuore al meccanismo freddo dell'automa combattente recupera la mai del tutto abbandonata utopia dell'"umanizzazione della macchina"; e, dall'altro, esaltando il rapporto diretto, manuale, insieme a quello "psichico", tra i sopraddetti estremi insiste con lo sguardo a sbirciare quei sentieri che sembrano palesare di tanto in tanto ma caparbiamente come eventualità concreta la realizzazione a venire di quella "nuova carne" che Cronenberg vagheggia/sogna/teme da decenni per cui l'alternanza delle varianti, ibridazione ?/connessione semplice ?/fusione ? e' il passaggio non negoziabile verso il post-umano. Non a caso in "Pacific rim" si pone l'accento sulla capacità umana di manipolare-per-costruire nella dimensione di una "magnificenza manifatturiera" che sugli schermi non si vedeva da tempo, scalzata dalla retorica di una gestualità essenziale ed elegante a-portata-di-polpastrello volutamente neutra, indifferente, asettica, esaltata e venduta come vera e sola "nuova frontiera": smisurati cantieri (ricostruiti in parte in computer grafica, interessante paradosso) perennemente in funzione, allora, per forgiare robot sempre più sofisticati (mentre sarà proprio uno di tipo vecchio, un "analogico", ad incidere sulla sostanza dei fatti: altro paradosso, ancora più sottile); strutture gerarchiche snelle e filiere produttive a pieno regime in una sorta di "fordismo pre-post apocalittico", argine testardo e sul serio unico al panorama "calpestato" (letteralmente) e frammentato di megalopoli tanto di continuo strapazzate dagli elementi (pioggia, neve, vento) e iper-stratificate tipo la Los Angeles di Scott in "Blade runner", quanto silenziose e furtive ostaggi di interessi spesso criminali e in reciproco antagonismo (si dà un fiorente mercato illegale di organi kaiju organizzato/calmierato da uno dei feticci del regista, Ron Perlman, qui in panni non del tutto diversi - se non nella foggia - da quelli indossati dal dr. Tyrrel magnate e padrone della Tyrrel co. nel cupo mondo di Deckard e soci).



"Collettivismo solidaristico", si diceva, ribadito sul piano della piccola società umana resistente che discute, litiga, si divide, affronta tormenti interiori (ogni personaggio ha un rapporto troncato bruscamente; una relazione conflittuale; un legame irrisolto, soprattutto sulla linea verticale padri/figli-e con cui fare i conti) ma nel momento della verità ritrova energia, comunione d'intenti e soprattutto coesione, vicinanza palpabile, prossimità in specie di sguardi e di corpi. Apoteosi - nel senso di lucido delirio visivo - delle minime ma significative variazioni operate dall'autore messicano su una struttura più che collaudata, quella dei "kaiju-eiga movie", è proprio la veemenza, la brutale plasticità dei combattimenti tutti fisici tra mega-robot e creature, alla cui prepotenza dinamica e ferino realismo deve piegarsi anche la CG (col 3D a ruota) - terzo e più divertente paradosso - che nulla riesce a sottrarre alla pasta rudimentale, "macchinosa" e arcaica degli scontri (gli uomini-macchina vengono trasferiti di peso con tanto di elicotteri da trasporto e tiranti sul teatro delle "operazioni"). Così, è a morsi che ci si affronta; a colpi di coda e artigliate. Ed è con ganci che si risponde. Con sganassoni, sollevamenti, prese, capriole (limitato ad extrema ratio l'uso di armi vere e proprie). Per ferirsi ci si scaraventa contro scampoli di grattacielo, addosso a campate di ponte attorte o divelte: s'imbracciano navi di grosso tonnellaggio. Ogni cosa all'insegna del "corpo a corpo", delle "mani nude". E quando si muore, si stramazza su interi quartieri sbriciolandoli; ci si abbatte sull'acqua sollevando ondate a ripetizione; si precipita al suolo praticandoci crateri. Nel caso di averla scampata, pero', ci si può liberare un istante della corazza e puntare il cuore in un'altra e più promettente direzione, quella che riscatta il dolore col farmaco di un sentimento sincero. Per aspera ad astra.


TFK

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