giovedì, maggio 09, 2024

"C'ERA UNA VOLTA IN BHUTAN" COVNERSAZIONE CON PAWO CHOYNING DORJI

Ispirato alla realtà “C’era una volta in Bhutan” trasfigura in maniera poetica e favolistica l’avvento della democrazia nel piccolo stato himalayano. Del film abbiamo parlato con il regista Pawo Choyning Dorji.

Pawo Choyning Dorji è il regista del film “C’era una volta in Bhutan”, in sala dal 30 aprile grazie a Officine Ubu.

“C’era una volta in Bhutan”, il titolo italiano del tuo film, ne coglie la caratteristica principale, quella di essere una sorta di fiaba contemporanea. A legittimarlo è innanzitutto la premessa, e cioè la decisione del Re di concedere al suo popolo la possibilità di eleggere il proprio leader. La scelta di questa struttura formale è dovuta all’intelligibilità di comunicazione oppure al fatto di adattarsi meglio di altre alle tematiche del racconto?

Una delle storie più interessanti del Bhutan è quella relativa al passaggio del paese alla modernità. Nel corso del 900 è stato una delle nazioni più isolate al mondo, una politica autoimposta attuata per salvaguardare la nostra cultura, le nostre tradizioni e la nostra sovranità, dopo aver visto paesi simili al nostro, come lo sono il Tibet e lo Sikkim, perdere la loro indipendenza a favore di Cina e India. Probabilmente siamo l’unico paese al mondo che lavora per raggiungere la “felicità nazionale lorda” invece che il prodotto interno lordo. Siamo stati gli ultimi a consentire la televisione e la connessione a Internet e probabilmente l’unico paese al mondo a introdurre la democrazia senza guerra e rivoluzioni.

Come cerco di mostrare nel film per i buthanesi la qualità dell’innocenza è un aspetto molto importante di ciò che siamo. Sentivo che mentre ci aprivamo al mondo esterno nel tentativo di modernizzarci e diventare una democrazia questa bella qualità è stata erroneamente scambiata per “ignoranza”.

Attraverso “C’era una volta in Bhutan” ho cercato di evidenziare l’importanza dell’innocenza in questo periodo di cambiamento. Ho cercato di rimanere fedele a quel periodo. La storia attraversa generi diversi poiché è fedele alla realtà.

La rappresentazione del Bhutan è caratterizzata dalla dolcezza e dalla fantasia tipiche delle fiabe. Elementi che, allo stesso tempo, sembrano appartenere in maniera realistica alle persone e al territorio in cui si svolge la storia. Volevo chiederti del rapporto tra realtà e finzione e di come lo hai introdotto nel film.

Come regista, sono una persona che trae sempre ispirazione da eventi reali. Sia questo film che il precedente – Lunana: A Yak in the Classroom – derivano dalle mie esperienze nel vedere un paese come il mio, radicato nella cultura, nella tradizione e nella spiritualità, cercare di trasformarsi in una nazione moderna.

Ho cercato di rimanere fedele alla mia esperienza personale, quella avuta nel corso della trasformazione modernista e democratica a cui ci siamo preparati con una “finta elezione” poi vinta dal partito giallo! Anche la costruzione dello Stupa – monumento buddista in cui si contengono reliquie -, è reale, avendola vissuta durante la pandemia: il simbolismo di tutto ciò che era collocato al suo interno mi ha colpito così tanto che ho sentito il bisogno di adattarlo in un film da condividere con il resto dei presenti e del mondo.

Puoi parlarci della difficoltà della popolazione rurale nell’affrontare il processo di trasformazione e le regole della democrazia? Peraltro l’esemplarità della storia raccontata in “C’era una volta in Bhutan” permette di allargare al resto del mondo il discorso riguardo alla cosiddetta esportazione della democrazia. Nonostante la bontà delle premesse, la tradizione e le abitudini di alcuni paesi rendono complesso l’incontro con il sistema democratico. Una riflessione che attraversa il film con risultati a volte divertenti, a volte più seri.

Come ti dicevo prima ho cercato di restare fedele a ciò che è realmente accaduto in Bhutan quando siamo passati dalla monarchia alla democrazia. Per me personalmente questa è stata un’esperienza ancora più avvincente perché durante la fase di democratizzazione studiavo scienze politiche negli Stati Uniti e ho potuto constatare i contenuti della narrazione democratica, quella che considera i paesi governati da un solo individuo bisognosi di essere liberati.

Essere immerso nella cultura degli Stati Uniti, nazione che vede la democrazia come la più grande evoluzione del pensiero politico, un vero e proprio dono per il resto del mondo, e per contro sapere che il mio paese era così riluttante ad accettarlo, mi ha regalato un tipo di narrazione molto particolare da testimoniare. Oltre alla serietà del cambiamento penso che quel processo fosse intriso di umorismo nella maniera che ho cercato di far vedere nel film.

Il Buddismo dice che l’unica costante è il cambiamento. Partendo dall’importanza di questo concetto il film sembra riflettere sulla difficoltà di cambiare anche quando si tratta di andare incontro al bene.

Non esiste Bhutan senza Buddismo. In realtà cambiamento e impermanenza sono gli elementi più importante di questa storia. Penso sia rilevante ricordare che il Bhutan ha deciso di isolarsi e tagliarsi fuori dal resto del mondo per preservare il suo stile di vita. Tuttavia, a metà degli anni 2000, ci siamo di colpo trovati come l’unica entità non moderna in un mondo che lo era in tutto e per tutto. Per rimanere rilevanti siamo stati obbligati a cambiare. Non volevamo farlo, ma ci siamo dovuti adattare al contesto per poter sopravvivere. Il cambiamento è stato inevitabile.

Lo scarto tra la scena iniziale e quella finale oltre a sottolineare il cambiamento esistenziale dei personaggi attraverso la differenza delle stagioni sembra anche alludere al fatto che la modernità del Bhutan dovrà ancora tenere conto dell’importanza del fattore umano e della spiritualità così come nelle tradizioni del paese. Il monaco che attraversa i campi con la bombola del gas sulle spalle afferma la necessità di non perdere il contatto con le proprie radici. Sei d’accordo con questo?

Del tutto d’accordo! La storia inizia con il monaco che attraversa il campo con la bombola e così è anche la fine. Con ciò volevo mostrare che anche attraverso il cambiamento ci sono alcune cose che rimangono costanti. All’inizio, con il riso essiccato, ho cercato di rappresentare il cambiamento imminente; alla fine, con il mare di fiori di grano saraceno, l’incertezza e la speranza per il futuro.

Nella semplicità delle inquadrature, effettuate senza movimenti di macchina particolari e con un tipo di regia invisibile, sembra che tu voglia preservare la centralità della storia e dei personaggi, la loro franchezza e sincerità. Sei d’accordo con questa visione della messa in scena?

La motivazione principale per cui faccio film è preservare le storie del Bhutan attraverso il cinema e condividerle con il resto del mondo. Per fare ciò ho permesso al pubblico di sperimentare veramente cosa significa essere immersi nella cultura bhutanese. Come accennato in precedenza, la qualità dell’innocenza è un aspetto fondamentale di ciò che significa essere bhutanesi. Inoltre, i temi del buddismo sono aspetti essenziali nel raccontare una storia delle mie parti. Penso che queste qualità confluiscano anche nel modo in cui si svolge il film, nel ritmo, nella direzione e, ovviamente, nei movimenti della mdp. Come regista, voglio che il pubblico senta il Bhutan in ogni scena dei film che realizzo.

Nella cultura bhutanese raccontare una storia è così importante che non ha nemmeno una parola. In italiano e in inglese forse si dice “raccontami una storia” ma in Bhutanese se vogliamo che qualcuno lo faccia diciamo: “per favore sciogli un nodo”. Si suppone che il racconto di una storia abbia lo scopo di sciogliere, di liberare.

Patria della democrazia, gli Stati Uniti portano all’interno della storia la contraddizione più evidente, quella di assicurare la democrazia ricorrendo alle armi. La presenza del fucile all’interno del rito religioso era un modo per dire che la prima regola della democrazia sarebbe quella di rinunciare a ogni violenza e aggressività?

In realtà, in tutta la storia, ho voluto fare affidamento sul potere del simbolismo. Il fucile ovviamente è necessario alla fine della storia, ma volevo anche che rappresentasse e simboleggiasse l’avvento della modernità, poiché è un’arma non originaria del Bhutan, ma fabbricata fuori. Come la modernità anche il fucile può essere benefico, ma anche diventare distruttiva.

Agli attori avevo detto di interagire con l’arma in modo innocente, proprio come i bhutanesi locali interagivano con la modernità. Quindi, nel film vedrai la gente del posto tenere il fucile sottosopra, guardare dentro una canna, a volte usandola anche come bastone da passeggio. Poiché l’arma simboleggia l’avvento della modernizzazione, avevo bisogno di qualcos’altro per simboleggiare il contrasto con la cultura bhutanese. Così alla pistola, simbolo di modernizzazione, ho contrapposto il fallo che raffigura la cultura e le tradizioni del Bhutan.

Per concludere volevo chiederti del cinema che preferisci.

Avendo studiato in Europa e negli Stati Uniti ho ricevuto un’educazione occidentale. Tuttavia, maggiore è stata l’influenza straniera che ho avuto, più sono stato propenso a restare in contatto con la mia cultura e con le tradizioni orientali. Per questo nutro molta ammirazione per il cinema asiatico. I primi lavori di Zhang Yimou e Hou Jianqi sono tra i miei preferiti. Lungometraggi di Zhang Yimou come Not One Less e The Road Home hanno avuto un ruolo enorme nell’ispirarmi a realizzare Lunana: A Yak in the Classroom. Anche il regista giapponese Hirokazu Koreeda è uno di quelli i cui film non mancano mai di ispirarmi.

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