martedì, maggio 07, 2024

"GLORIA!" CONVERSAZIONE CON MARGHERITA VICARIO

Presentato in anteprima nel concorso ufficiale dell’ultima edizione del Festival del cinema di Berlino, Gloria! segna l’esordio alla regia di Margherita Vicario con un film in costume capace di dialogare con il pubblico e con il nostro tempo. Di “Gloria!” abbiamo parlato con la regista.

Prodotto da Tempesta, Rai Cinema, con il contributo del Ministero della Cultura con il sostegno di Federal Office of Culture, Ticino Film Commission, Friuli Venezia Giulia Film Commission, “Gloria!” di Margherita Vicario è nelle sale italiane dall’11 Aprile 2024.

Detto che “Gloria!” parla di musica e che di essa si serve per raccontare il mondo in cui si svolge la storia, volevo soffermarmi sulle sequenze iniziali perché lì il film costruisce una sorta di genealogia musicale in cui è possibile ricostruire le fasi in cui il caos sonoro diventa spartito musicale. Dal canto degli uccellini al battito di mani dei bambini, dalla frenesia delle lavandaie al coro delle orfane dell’istituto religioso, le immagini testimoniano la progressiva trasformazione del rumore in suono fino al ballo che conclude l’introduzione, apoteosi pronta a celebrare la nascita della musica.

Sicuramente è così, nel senso che volevo aprire il film con i suoni dell’ambiente, con i bambini che giocano, gli uccellini che cantano, le ragazze impegnate nelle faccende quotidiane. Nel piccolo prologo che precede la sequenza iniziale ci sono molti elementi umani caratterizzati da una componente irrazionale come lo è il vagito della bambina interpretata da mia nipote che all’epoca aveva un anno e mezzo. Come hai detto, da lì in poi, a cominciare da quell’insieme di suoni presenti nell’aia, la musica prende piede grazie all’immaginazione di Teresa che la fa diventare una vera e propria sinfonia.

La sequenza che apre il film ci dice anche un’altra cosa e cioè che la musica unisce anziché dividere. L’armonia che lega le ballerine e le persone presenti in scena rilancia questa propensione, ricordandoci che il risultato finale è frutto di una condivisione di intenti, di uno sforzo collettivo. Come in effetti succede nell’atto conclusivo della storia.

Sono d’accordo perché la musica è conseguenza della giustapposizione di diversi elementi. Nel film c’è una componente autobiografica perché, come Teresa, io sono un autodidatta e dunque non so leggere la musica. Come lei anche io nel momento in cui ho messo le mani sul pianoforte ho avuto il desiderio di sentire suonare le note che avevo in testa da un’orchestra. E questo, come dici tu, si può fare solo producendosi in una performance di più elementi, dunque con una propensione collettiva dell’arte.

A sottolineare come l’istituto religioso in cui vivono le ragazze sia un mondo chiuso e isolato, spazio del limite e della costrizione, ci pensa il movimento iniziale, dall’esterno verso l’interno, con la lunga carrellata laterale che, nella sua durata, sembra voler dare conto, in senso fisico, dell’isolamento delle protagoniste. Al contrario del finale, quando l’apertura verso l’esterno, testimoniata dallo scenario bucolico in cui ritroviamo le ragazze, diventa il segno di una libertà che è anche creativa oltre che esistenziale.

Sì, questo doppio movimento faceva parte dell’evoluzione del film e in particolare di quella di Teresa e di Perlina, il suo antagonista. Tutto parte dal mondo interiore della ragazza che un poco alla volta si manifesta diventando materiale. Teresa mantiene intatta la dimensione creativa dandogli seguito in maniera concreta, anche se, pensandoci bene, la musica è la cosa più immateriale che esista. Però, pur non vedendosi è in grado di fare grandi cose.

Nella sequenza iniziale la ripresa a piombo sulle ragazze danzanti traduce l’armonia generale in una condivisione di spazio. Da lì in poi è come se tutto il film spingesse per trasformare quell’immagine ideale in un fatto concreto, eliminando un poco alla volta la separazione esistente anche all’interno dell’istituto tra i diversi occupanti, e, per esempio, tra Teresa e le altre ragazze; come poi accade nella sequenza del concerto finale in cui anche i bambini, e persino gli inservienti, sono chiamati con la presenza in chiesa a testimoniare la caduta delle barriere sociali.

Assolutamente. La scena finale ci dice che anche chi non è musicista, attraverso la musica, riesce a godere della libertà che le ragazze si conquistano attraverso il loro concerto. Poi, come succede nella vita, anche nel film vediamo che non tutti capiscono cosa sta succedendo. Tra le persone presenti nella chiesa c’è anche chi non si lascia andare, rimanendo estraneo al grido di libertà che emerge dall’eccezionalità dell’avvenimento. “Gloria!” è un film molto istintivo e la sequenza conclusiva ne è una sorta di manifesto.

Prendo spunto da Martin Scorsese quando parlava del regista intrattenitore, capace di convogliare nei generi i codici del racconto. Così fai tu in Gloria! trasfigurando la figura della donna contemporanea all’interno di una favola che riprende Cenerentola ma senza principe azzurro poiché oggi le ragazze si salvano da sole.

Nello scrivere il film con Anita Rivaroli è stata una scelta deliberata quella di rifarsi a dei topoi. Io sono una grande amante dei film musicali, e ancora di più dei musical veri e propri che si basano più sul come che sul cosa. Una parte di me aspirava a realizzare un film pop, quindi con una struttura intuibile in cui ci fosse un cattivo tout court e un gruppo di ragazze come succede nei teen movie. L’idea era quella di renderlo volutamente archetipico per poi delegare alla parte musicale la componente più fantastica e irrazionale.

In realtà “Gloria!” va oltre il dibattito contemporaneo sul conflitto uomo-donna; basti pensare che uno dei personaggi più crudeli è la governate delle ragazze e che gli uomini sono presenti anche in senso positivo. In realtà il film parla della lotta contro il potere che allora, come oggi, era soprattutto maschile.

Il film ha diverse sfumature. C’è chi può coglierne l’aspetto femminista, che qui è molto dolce e non rabbioso, oppure il tema dell’amicizia e ancora il ruolo della musica. Per altri può essere un film su un’ossessione. Poi è ovvio che, essendo una fiaba, ci sia bisogno di un cattivo di cui ho scritto sulla base di una lunga ricerca filologica che non si riduce al concetto di patriarcato, ma che scaturisce da come all’epoca della storia fosse vietato alle donne di esibirsi fuori dalla chiesa. Visto con gli occhi di oggi mi sembra una cosa molto violenta mentre magari in quei tempi lo era meno.

Paolo Rossi nel ruolo di Perlina, il cattivo del film, si produce in una inedita performance tragica, capace di cogliere il tratto dominante del suo personaggio, quello di essere anche lui vittima degli eventi, travolto com’è da responsabilità che neanche vorrebbe e tutto sommato capace anche di empatia, come succede nei confronti del ragazzo interpretato da Vincenzo Crea.

Credo che Paolo Rossi al cinema non abbia mai fatto un personaggio del genere e lui si è calato nella parte in maniera eccezionale. Sono d’accordo sul fatto che sia anch’egli una vittima; soprattutto della frustrazione creativa che lo fa essere sprezzante e invidioso del talento delle ragazze. Mentre loro sono giovani e vitali lui è arrivato a un punto morto. Il suo atteggiamento è anche il frutto di una dose di misoginia presente nel clero di quei tempi. Con Cristiano ha una relazione tossica alimentata dal senso di colpa che nutre nei suoi confronti perché, in qualche modo, ha contribuito alla sua condizione di eunuco in un’epoca in cui le donne iniziavano a soppiantare i castrati come voci soliste.

Considerando il contesto religioso ho trovato molto azzeccato il fatto di ambientare la rivelazione del talento di Teresa nel seminterrato dell’edificio, e cioè all’interno di un luogo sporco e dimenticato. Come Gesù salvatore del mondo nasce in una stalla così la musica di Teresa, chiamata a liberare le ragazze, si manifesta nel luogo più umile possibile.

Il magazzino ha anche un’altra valenza, quella di rappresentare tutto quello che appartiene al mondo notturno, quindi anche a quello dei sogni e dell’irrazionale in cui il nostro cervello continua a lavorare anche mentre dormiamo. Una dimensione, quella notturna, che, dal punto di vista iconografico, mi ricordava le riunioni carbonare e rivoluzionarie, con in più una componente di libertà capace di esaltare le qualità creative.

La messinscena sintetizza due spinte ben precise. Da una parte la plasticità del riferimento pittorico, dall’altra un realismo che emerge dalla presenza di dettagli che fanno la differenza, come, per esempio, il dettaglio sul pianoforte attraversato dalle mani di Teresa le cui unghie, come vuole il suo lavoro di inserviente, non sono perfettamente pulite, e ancora, i primi piani che non nascondono i brufolini sotto pelle, tipiche delle adolescenti.

Con il direttore della fotografia Gianluca Palma e con gli altri comparti del film condividevamo l’idea di creare un microcosmo del tutto inventato senza che questo togliesse forza alla componente realistica. Se l’istituto Sant’Ignazio è ispirato a congregazioni realmente esistite, noi lo abbiamo fatto a nostro piacimento ma comunque rispondente il più possibile al vero. Anche per quanto riguarda i costumi non volevo che la luce vi rimbalzasse sopra, ma che li attraversasse. Volevo creare un lungometraggio capace di portare lo spettatore all’interno della fiaba facendogli dimenticare che sta vedendo una storia in costume. Le unghie sporche e i volti senza trucco facevano parte di quel realismo che doveva entrare in collisione con la parte più favolistica alimentata dalla presenza della musica. Le basi pittoriche, invece, erano quasi ovvie da interpellare perché chiunque pensa al Settecento ha in mente certi quadri.

Molte scene sono girate a lume di candela in una maniera che a me ha ricordato Barry Lindon.

Il direttore della fotografia si è fatto costruire candele con il doppio stoppino in modo che la fiamma venisse molto più alta per poter assomigliare ai dipinti fiamminghi.

Ispirate dai venti della rivoluzione francese le protagoniste si danno da fare per organizzarne una all’interno dell’Istituto. Gloria! la mette in scena sia dal punto di vista visivo che musicale, mescolando suoni e musicalità di diverse epoche per terminare nella sequenza del concerto con una sorta di gospel; e ancora con un montaggio frammentato volto a interrompere la continuità del flusso delle immagini. Come una rivoluzione “Gloria!” prova a rompere le regole formali.

Sì, alla fine c’è una specie di coro pagano. Comunque hai ragione sul fatto che le scelte musicali non sono lineari. Credo che la forma sia sostanza e questo ha influito sulla forma del film. Mi accade anche quando scrivo le mie canzoni. Se la storia doveva parlare di una rivoluzione e dunque di una ribellione, montaggio e musiche dovevano avere una natura istintiva, a volte anche sgangherata, ma comunque necessaria a raccontare lo stato d’animo che ispira le azioni delle ragazze. Come sappiamo, la rivoluzione non ha mantenuto ciò che aveva promesso per cui le ultime sequenze superano i fatti della storia per sconfinare nella favola. Anche perché poi questi afflati di cambiamento e di rivoluzione sono abbastanza naufragati.

A parte Paolo Rossi di cui abbiamo già detto, una delle qualità del film è la proposta di una serie di giovani attrici che portano nel film bravura e freschezza. Penso in primis a Galatea Belluggi, a Carlotta Gamba, ma anche alle loro colleghe.

Il casting è stato lungo, ma importante perché mi ha fatto toccare con mano come gli attori siano gli unici da cui dipende la verità delle emozioni presenti nel film. Come regista devi solo fare in modo di metterli nelle migliori condizioni per esprimersi, poi ti siedi davanti al monitor e tifi per loro. Così è successo nell’assolo di Carlotta nella sequenza dove a un certo punto la vediamo piangere in primo piano. Abbiamo parlato a lungo prima di girare, ma poi il risultato è dipeso solo da lei. Galatèa Bellugi, Carlotta Gamba, Maria Vittoria Dall’asta, e Veronica Lucchesi che peraltro è una cantautrice pazzesca, hanno condiviso e amato il progetto da subito, capendo che, se avessero fatto squadra e diventate amiche, avrebbero contribuito alla riuscita del film considerando che nella finzione loro sono sorelle.

Parliamo del tuo cinema di riferimento.

Cinematograficamente sono cresciuta con dei punti fermi come “Jesus Christ super Star” e “The Commitments” di Alan Parker. “La guerra è dichiarata” di Valerie Donzelli del 2011 è un film meraviglioso che mi ha colpito anche per lo straordinario uso della musica. Ammiro e amo i film di Alice Rohrwacher, anch’essa prodotta da Tempesta. Lei riesce sempre a creare dei mondi in cui è preponderante il lato poetico, un fattore che per me è decisivo. Mi piace il cinema di Nadine Labaki e quello di Valeria Bruni Tedeschi e, più in generale, lo sguardo delle nuove registe.


Carlo Cerofolini

(articolo pubblicato su taxidrivers.it)

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