giovedì, ottobre 19, 2017

GLI INEDITI DE ICINEMANIACI: IL LIBRO DI KELLS

Il libro di Kells
(The secret of Kells)
di, Tomm Moore
animazione
Fra, Bel, Irl 2009
durata, 75’

This reminds me of another place
Lonesome wolf
Comes down from the hills
And he’s walking in circles
Howling at the moon
- N.Finn -


Nel Giugno del 793 il Monastero di Lindisfarne (Northumbria, GB) subisce un’incursione da parte vichinga. Rapida e brutale fu l’azione e l’impronta del colonialismo nordico, tale che ambedue si riverbereranno attraverso le testimonianze e la memoria vincendo la polvere dei secoli fino a riemergere, qua e là, ai nostri giorni, sotto forma di sfondo o spunto storico per rappresentazioni più o meno filologicamente precise (vedi la saga norrena di “Vikings”) o a mo’ di mera suggestione. Alla seconda di tali tipologie si può ascrivere la fatica d’esordio dell’irlandese Tomm Moore nel campo dell’animazione a nome (originale) “The secret of Kells”, ispirata all’evangeliario omonimo della fine del secolo VIII, ora conservato al Trinity College di Dublino, consistente in un incunabolo tanto finemente miniato quanto cromaticamente composito.



Trista ventura simile a quella di Lindisfarne sembra dunque aleggiare sulle sorti del villaggio di Kells (Eire), la cui guida spirituale - l’abate Cellach - invita la cittadinanza a serrare i tempi e a completare le opere di fortificazione (a suo giudizio mancano ancora un paio d’anni di lavori) che dovrebbero proteggerlo dalla più che consistente alea d’un attacco. Se il futuro è ammantato di foschi presagi, il quotidiano può ancora prevedere la dolcezza di scoperte e promesse tutte da vivere, a maggior ragione se gli occhi che le cercano e se ne nutrono sono quelli d’un ragazzino sveglio ma ancora digiuno del mondo. Brendan, piccolo novizio orfano - nonché nipote dell’abate - ligio alla regola e agl’insegnamenti dei più che caratteristici fratelli anziani di magistero, diverrà così - tra uno sconforto e un’agnizione, tra un dolore e un incoraggiamento - mezzo d’elezione (col concorso non secondario della magia segreta che lega, come tradizione insegna, in un unico destino ciclico d’armonia e di conflitto le creature viventi e l’universo che le accoglie) atto a rinsaldare il nesso misterioso che dalla notte dei tempi approssima l’irruenza vitalistica della Natura all’inesauribile slancio trascendente della Fede, nella forma d’un messaggio di speranza e riconciliazione.

In questa prima opera Moore circoscrive già con coerenza assecondata da artigianale maestria intrecci affabulatori e soluzioni espressive che matureranno in un canone personale nei lavori a venire (“La canzone del mare”, il prossimo “Wolfwalkers”): lo sguardo complice ma inquieto sull’infanzia e la prima giovinezza; la vicinanza innata - quasi una fatalità, si potrebbe dire - di queste con la dimensione incantata e sovrannaturale dell’esistenza. Così il percorso di crescita dei personaggi sovente disseminato di prove da superare, di piccoli e grandi pene da metabolizzare; l’aspro iato che separa l’unisono con l’anima mundi dalla consuetudine adulta, dominio del raziocinio e della consapevolezza, quanto tomba (non solo metaforica) dell’immaginazione e della meraviglia. Grumi narrativi, i suddetti, embricati in un tessuto formale sempre in tensione fra un’essenzialità giocosamente puerile e un’altrettanto ludica esuberanza nella moltiplicazione e stratificazione dei dettagli, qui identificata con il Libro di Kells propriamente detto (alcune pagine del quale vengono riproposte in parallelo ai titoli di coda) e, in diretta corrispondenza, con il lavoro degli Angeli in perigliosa redazione da parte d’un gruppo di temerari della bellezza guidati dall’esperto Fratello Aidan di Iona che lo ha avuto in custodia, attraverso generazioni di sopraffini devoti, da San Columba(no) in persona, miniatore perfetto, e alla quale non sarà estranea l’ars nova di Brendan, prima apprendista e poi co-artefice della pagina gloriosa di Chi-ro, quella in grado di conferire tono e misura a un’universale idea di grandezza nella condivisione.

Particolare merito, per il fascino costante eppure quasi schivo che traspare dall’incedere dei disegni e delle scelte grafiche - alle quali s’integra, tipo basso continuo, il riferimento a un’Irlanda arcaica, lussureggiante, testardamente enigmatica, scrigno di misteri e di prodigi che il tempo non cancella ma sedimenta in un vero e proprio ethos nazionale - è attribuibile al rincorrersi, talvolta placido, talora nervoso, delle tonalità chiare (perlopiù arancio, bianco e verde - il cuore d’Irlanda - a esaltare la ricchezza e il calore intrinseci a uno sforzo conoscitivo e spirituale - quello dell’elevazione conseguente alla stesura d’un testo illuminato - e, chissà quanto di proposito, a ribadire la provenienza da una terra storicamente ribelle e travagliata) e di quelle scure (blu, rosso, grigio e nero, per il respiro tragico sotteso alla manifestazione della malvagità o delle forze che da essa traggono alimento: gl’insidiosi lupi della Foresta; i fissi occhi di bragia degl’invasori; i cieli scostanti a delimitare il sinistro regno di Crom Cruach, l’Oscuro), le quali evocano sensazioni e sentimenti, anticipano o rinviano snodi cruciali, in un pulsante andirivieni entro cui, altresì, le forme e i volumi s’affiancano e/o si sovrappongono a volte in intrichi d’ascendenza escheriana; altrove conservano una sorta di stasi dinamica affine, nella loro giustapposizione orizzontale, a certe idee tarde di Klee. 

Discorso analogo è spendibile nelle sequenze geometriche che alludono all’intenzione d’imprimere movimento autonomo e singolare alle miniature e in quelle più ariose in cui dare spazio ai capricci delle opzioni cromatiche, in specie quelle chiaroscurate sull’arancio e sul giallo degl’interni consacrati alla composizione del fatidico Libro e quelle orchestrate sui più diversi toni del verde per restituire il gioioso piglio a spirale d’enormi alberi klimtiani. In particolare e infine, quest’ultimi intermezzi non avrebbero lo stesso estro a metà fra spensieratezza e lungimirante diffidenza se a incarnarli non fossero state chiamate le figure di Aisling (il cui solo nome è già - e lo è sul serio - un dire poetico inerente il sogno, la visione), Fata della Foresta dai lunghi capelli color ghiaccio e dai grandi occhi intenti al di sotto dei quali insiste un sapere antico e sfuggente, e quella del gatto Pangur Ban, poema vivente la cui eterocromia rimanda, al contempo, all’ambiguità fondamentale d’ogni cosa e alle potenzialità insite nella trasformazione, entrambi solitari spiriti guida dell’ingenuo e parimenti solo Brendan sui sentieri d’una saggezza che egli alla fine imparerà a far sua e a trasmettere come lascito di Civiltà: I’ve seen suffering in the darkness/Yet, I’ve seen beauty thrive in the most fragile places/I’ve seen the Book/The Book that turn darkness into light.

[Tra gli affanni e le tregue, il folk onirico per flutewhistleviolinuillean pipebodhran…].
TFK

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