sabato, novembre 18, 2017

ATYPICAL

Atypical
di,aa.vv.
(da un’idea di Robia Rashid).
con Keir Gilchrist, Bridgette Lundy-Paine, Jennifer Jason-Leigh, Michael Rapaport, Amy Okuda, Graham Rogers, Jenna Boyd, Nik Dodani.
Stagione I 
ep. I/VIII
USA 2017


A margine dell’estasi triste indotta da un’epoca incapace di vera coesione ma incontenibile nel rito meccanico della condivisione e nonostante la saturazione raggiunta dal sempre meno prolifico bacino delle idee è purtuttavia ancora possibile pescare e nutrirsi, se non proprio dal fondale puro dell’originalità, quanto meno dalle acque in favore di luce poste a mezza via e interessate dal ricircolo di correnti a base di scampoli di brio gentile, di spunti irriverenti, d’ammicchi polemici e/o ironici - preferibilmente serviti, poi, in salsa d’intrattenimento agrodolce - tali da inquadrare da un punto di vista un tanto stravagante temi, situazioni e personaggi che la ripetizione, leggi l’usura, rischia di sfibrare una volta per tutte, vista la serrata riproposizione a cui sono sottoposti.

Caso di specie è la serie Netflix “Atypical” - ideata da Robia Rashid, quella di “How I met your mother” - al suo esordio (con ogni probabilità ribadito almeno per un’altra stagione) offerta secondo l’impianto di otto episodi di circa mezz’ora ciascuno e svolta a mo’ di racconto di formazione, tra ritmi da sit-com e coloriture da commedia pop, al cui centro spicca la figura di Sam Gardner/Gilchrist, diciottenne autistico ad alto funzionamento, gran esperto di fauna artica, candido e intransigente fino al conflitto aperto, colto nel trapasso dalla condizione di vigilato speciale da parte di famiglia e (rari) amici a quella, forse ancor più complicata e sottilmente insidiosa, di adulto alle prese con le incognite delle scelte, ovvero con la frattura fondamentale tra il principio di piacere e quello di realtà. In un microcosmo suburbano ordinato e attutito tipico di certa tradizione letteraria e cinematografica a stelle e strisce (villette in successione distribuite attorno ad ampi viali alberati; il liceo, teatro di buona parte dell’azione, immerso nel verde e intitolato a Isaac Newton; il piccolo centro commerciale locale; bar e luoghi di ritrovo disegnati sugli echi delle tendenze provenienti dalla metropoli, et.), le vicende di Sam e dei di lui congiunti - Elsa/Jason-Leigh, la madre, parrucchiera a domicilio, allo stesso tempo protettiva nei confronti del figlio particolare e frustrata per una routine domestica che comincia a mostrare il grigiore sotto l’apparente sicurezza delle consuetudini; Doug/Rapaport, il padre, paramedico affettuoso e disponibile, come pure turbato da un passato percorso da sentimenti contrastanti riguardo il proprio ruolo di genitore di una persona fuori-dal-comune; Casey/Lundy-Paine, la sorella minore, promettente quattrocentista, ansiosa d’emanciparsi dalla generosa tirannia familiare (a sua volta specchio abbastanza fedele del subdolo quanto inesorabile paternalismo provinciale), eppure ancora incerta sul da farsi, non secondariamente proprio a causa del legame che la vincola a Sam, al quale magari non lesina impertinenze ma su cui vigila (è a lei che ogni giorno, alla stessa ora, Sam chiede i soldi per il pranzo) come una vera guardia del corpo - si snodano in un rincorrersi di piccole svolte quotidiane, di fatali giri a vuoto, di stalli, spesso culminanti in un defaticante eterno ritorno all’istituto sociale e affettivo di base, componendo man mano il paesaggio materiale e psicologico di un gruppo umano qualunque i cui rapporti, d’elezione oblativi, sono comunque punteggiati da (morbide) asprezze, da improvvise tensioni, da dubbi ricorrenti e in relazione ai quali la presenza e l’indole di Sam - per il senso comune dominante giovane uomo difficile - assolvono alla duplice funzione di catalizzatore e d’elemento detonante.


Tale specifico finisce per circoscrivere (e restituire) con sufficiente (e divertita) approssimazione i caratteri d’un ennesimo sguardo sulla medietà d’inizio millennio, inquieta ma non auto-indulgente; capace di rappresentarsi a un certo grado di consapevolezza però non prona al cinismo: edace d’esperienze quantunque fiduciosa e capace d’ascolto. Ogni categoria della prassi e dello spirito composta in un ordine suo proprio dalla scelta d’un preciso registro linguistico: sarcastico, patetico, edificante, polemico, et. Si dialoga molto, cioè, in “Atypical”, misurandosi spesso oltreché con le ovvie incomprensioni generazionali anche con le inerzie e le ipocrisie del politicamente corretto relate alla condizione di Sam, per contro avvicinata in sede di scrittura lasciando da parte sia gli estremi melodrammatici (che in generale pagano bene al tavolo dell’immedesimazione superficiale), sia i rigori d’una trasposizione eccessivamente mimetica - questa e quelli, d’altro canto, frequentati con una certa assiduità dalla Hollywood versione, diciamo così, caso umano, talvolta con esiti più o meno sensazionalistici, talaltre imprimendovi una carica tale di realismo da rasentare il grottesco (e tacendo sulla propensione tutt’altro che episodica di molte star a cimentarsi in un ruolo problematico) - riconsegnandoci, invece, con gustoso paradosso, l’immagine della persona Sam, conscia della propria stranezza che la consegna a una relazione spesso conflittuale con l’Altro, in specie se suo coetaneo, e che tuttavia verso l’Altro la spinge, quando la curiosità e il desiderio - uno dei tormentoni della serie è l’articolata mobilitazione messa in moto, in parte dallo stesso Sam, allo scopo di trovare una ragazza - sono più forti persino della difficoltà di progettarli e d’indirizzarli con chiarezza, nonostante lo sforzo logico speso dal protagonista, sempre armato di quaderno e penna su cui annotare regole e schemi da seguire alla lettera con tutte le conseguenze che si possono immaginare, tenti a modo suo di dare ordine al caos della vita.


Chiaro che un siffatto spettro d’ambivalenze si prestasse, quasi giocoforza, si potrebbe dire, a riserve relative al tono generale da imprimere alla narrazione - di fondo tarato, quest’ultimo, sull’utilizzo accorto della prevedibilità e sul ciclico dilatarsi e riavvolgersi delle sottotrame - come alla selezione dei tipi umani chiamati ad animarlo. Per fortuna il lavoro della Rashid e compagni dribbla, da un lato, le trappole fenomenologiche del caso esemplare, optando per una sorta d’ironico understatement per cui Sam intreccia e scioglie, ora come artefice ora come vittima non del tutto inconsapevole, i fili delle sue stesse intemperanze; dall’altro, si giova, esaltando ancora una volta il patrimonio davvero inesauribile di volti e di corpi che il Cinema americano sa offrire all’immaginario contemporaneo globale, di caratterizzazioni spontanee ma sentite, al limite del naïf eppure come avvertite, in particolare per ciò che riguarda le giovani e giovanissime leve (la Lundy-Paine e proprio Gilchrist su tutti), degne contraltari di attori sperimentati (Rapaport) e d’interpreti di rango superiore (Jason-Leigh), facilitando, al tempo, in chi guarda, l’emergere del desiderio di misurarsi addosso la reale portata dei pro e dei contro impliciti nel lasciar via libera a quel tanto di atipico che alberga in ognuno di noi.
TFK

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