martedì, agosto 08, 2017

FESTIVAL DI LOCARNO 70: WINTER BROTEHRS

Winter Brothers
di Hlynur Pálmason
con Elliot Crossett Hove, Simone Sears
Danimarca 2017
genere, drammatico 
durata, 94'


Per la nazione di provenienza e in ragione delle parole spese in sede di presentazione dal direttore artistico Carlo Chatrian che ne aveva lodato le qualità formali, l'attesa nei confronti di "Winter Brothers", del danese Hlynur Palmason era di quelle riservate ai film da non perdere. In effetti, l'inizio della storia non lascia di certo a desiderare per la sfida imposta allo spettatore da immagini che puntano tutto sullo shock visivo e la cosiddetta immersione sensoriale. Per raccontare l'esistenza di due fratelli impegnati a lavorare in un miniera sperduta chi sa dove, Palmason sceglie di giocare sul contrasto di luce e di suoni che differenzia gli ambienti in cui si svolgerà la maggior parte della vicenda. Da una parte quindi il sottosuolo, immerso nel buio e riempita dai decibel di un rumore assordante, dall'altra la superficie, silenziosa e desolata come la luce grigia che ne illumina la lunarità del paesaggio. Un espediente , questo, che il regista continuerà a utilizzare per tutta la durata del film, e all'interno del quale "Winter Brothers" prova a raccontare - perché la dimensione narrativa è molto labile - il rapporto tra i due consanguinei e le vicissitudini che uno di loro ha con gli altri colleghi di lavoro ai quali, più che la solidarietà derivante dalla precarietà delle condizioni lavorative li unisce i guadagni dalla vendita del liquore (tossico) che lo stesso produce con l'alcool rubato dai magazzini della compagnia. 

Costruito per ellissi e inframezzato da inserti che pescano in un repertorio a metà strada tra il surreale e il grottesco, "Winter Brother" è tanto reticente sulle biografie dei suoi personaggi (non sappiamo chi siano ne da dove vengono) quanto esplicito nel tracciarne la condizione esistenziale, favorito in questo senso dalla passione di uno dei due fratelli per le armi e l'addestramento militare (appreso dalle immagini un programma televisivo che il regista inserisce nella storia a mò di loop) che, nella mani dell'autore diventa il pretesto per fare dell'area della miniera una sorta di campo di battaglia in cui la vita assomiglia a una vera e propria guerra. A fronte di un siile sforzo creativo è un peccato che il film si areni proprio laddove vorrebbe essere più incisivo e cioè nello scavo psicologico del degrado fisico e morale idei protagonisti. Tutto rimane inevitabilmente in superficie, facendo avanzare la sensazione di trovarsi al cospetto di un'opera audace ma immatura.
CarloCerofolini
(pubblicato su ondacinema.it/speciale festival di Locarno 70)

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