giovedì, agosto 31, 2017

WAR MACHINE

War machine
di David Michôd
con: Brad Pitt, A.Hayes, T.Grace, Anthony Michael Hall, Tilda .Swinton, Ben Kingsley, Emory Cohen
USA 2017
genere. drammatico, commedia, guerra
durata, 120’


Guerra per prevenire le insidie. Guerra per eliminarle. Guerra per ristabilire la pace. Guerra per mantenerla. Detta così, somiglia a una specie di ronda futurista (laddove la predetta aveva almeno dalla sua, oltre lo slancio augurale di tempi nuovi, il parossismo brutale ma autentico d’un’insofferenza adolescente), non fosse che, indipendentemente dall’ovvio sfasamento dei giorni, ciò che ci siamo abituati a constatare è stato - ed è - un molto più mesto, ragionieristico e indifferente utilizzo dell’opzione armata come riflesso condizionato nei riguardi d’una realtà - umana, culturale, sociale - che non sappiamo (o addirittura vogliamo) più sforzarci di comprendere, prima ancora chegestire. Tale consuetudine lascia ampi spazi alla deformazione e al grottesco, se ha ancora un senso (a questo punto chissà quanto solo ammonitore o invero scopertamente inquietante) l’assunto a più riprese ricordato per cui ciò che si compie la prima volta come tragedia, tende a riproporsi come farsa. Argomento caustico e scivoloso, a ben vedere, ancora di più se travasato sugli scenari geo-politici contemporanei, essendo questi in fieri, ossia punteggiati di lati troppo ambigui e/o oscuri per essere con adeguatezza inseriti in una giusta prospettiva, come caratterizzati non di rado da orrori dimenticati o sottaciuti (“2001: aggressione all’Afghanistan. Le vittime civili non sono calcolabili perché non sono mai state calcolate. Gli afghani hanno infatti il grave torto di non essere né arabi, né cristiani, né ebrei e di loro si può fare carne di porco. Stime a braccio danno le vittime civili tra le 200 e le 300 mila - M.Fini, Il Fatto Quotidiano 23/08/17 -) o da contrappunti beffardi che attengono a un territorio forse vergine situato sullo spartiacque tra la fantascienza e il demenziale (pensiamo al recentissimo affaire portato alla ribalta dal Washington Post inerente le vicende di 9 pregiate capre italiane tradotte sul suolo afghano per dare vita a un ipotetico allevamento finalizzato alla produzione di una variante del cachemire e risoltosi in un fallimento - i bovidi si sono via via ammalati per poi morire - addebitato, ci mancherebbe, al contribuente, nel caso americano, per un conto complessivo di 6 milioni di $. E tralasciando, si fa per dire, gli 8 e passa miliardi di $ spesi per estirpare in via definitiva la coltivazione di papavero da oppio, a oggi mai così fiorente…). Proprio in quest’ultima categoria, di fatto strano ibrido in orbita attorno a due mondi bizzarri, ha provato a collocarsi un certo Cinema (si prenda in considerazione, per esempio, “L’uomo che fissa le capre”, sebbene il film di Heslov rimonti al 2009 e si riferisca a un altro ambito, quello iracheno), allo scopo di ritagliarsi punti di vista eccentrico-sarcastici, in coraggiosa ma affannata rincorsa d’una prassi che, come visto, sembra non smarrire mai la capacità d’estrarre assi nuovi dal mazzo.


E’ la contraddizione che in parte sconta anche il “War machine” di David Michôd (autore aussiei mpostosi dopo alcuni cortometraggi con opere interessanti come “Animal kingdom”, 2010 e “The rover”, 2014), recente produzione Netflix in collaborazione con la Plan B del divo Pitt - pure protagonista - alle prese con la campagna trionfale che avrebbe dovuto accompagnare il trasferimento del Gen. G. McMahon/(Pitt, appunto) sull’estenuante fronte afghano (ricordiamo, en passant, di essere giunti al sedicesimo anno consecutivo di una contesa inconcludente oltreché fondata su motivazioni oramai ampiamente insostenibili), a rimorchio del vecchio cripto-superomismo a-stelle-e-strisce per cui “bisogna portare a termine un lavoro”. Ispirato alla figura del Gen. Stanley A. McChrystal, comandante in loco dal 2009 e successivamente rimosso dalla presidenza Obama a seguito d’un reportage/intervista pubblicato da Rolling Stones in cui l’alto ufficiale esprimeva riserve circa i metodi impiegati per condurre in porto la coriacea magagna - e restituito da Pitt con una prova a volte quasi cartoonesca, a metà fra un Popeye perplesso e un burattino mosso da fili dispettosi (irresistibile e un tanto sinistra la sua sessione quotidiana di corsa in t-shirt grigia, pantaloncini scuri e andatura rigida da tacchino appena spennato) - il film di Michôd si muove con una qual cautela ed equidistanza tra le impellenze inderogabili di un uomo tutto d’un pezzo fino alla più smaccata caricatura e un ambiente - quello della routine della guerra, ovvero quello delle infinite mediazioni palesi e occulte, dei lunghissimi momenti morti, delle svolte decisive sempre di là da venire - che, mano mano, ha fatto proprio della caricatura della sua ragion d’essere una delle giustificazioni della permanenza in un luogo da sempre dichiaratamente e pervicacemente ostile a qualsivoglia ingerenza (“Andate via. Tutti. Andatevene”, rispondono gli afghani se interpellati dalle forze d’occupazione aduse oramai quasi solo alla battaglia dei cuori e delle menti, succedaneo volontaristico di ciò che sul campo non si riesce a ottenere e, in genere, anticamera d’ogni disfatta).


Senza dubbio Michôd in questa prima trasferta americana dimostra di trovarsi ancora nel giardino di casa australe quando osserva e analizza (come in “Animal kingdom”) le interrelazioni e i rapporti di forza - non necessariamente e non solo gerarchici - d’un gruppo di persone (nel caso, lo staff ristretto del Generale, là la famiglia criminale allargata) costretto a reagire in un contesto ambiguo e pericoloso, o si sofferma, con un certo gusto per la dilatazione temporale e per l’attenzione ai dettagli materiali e psicologici (come in “The rover”), qui rappresentati di preferenza nella loro declinazione a volte ironica, altre ai limiti del surreale e del patologico, su ciò che alligna al di sotto delle convenzioni e dei rituali consolidati, sia che si tratti di strategie militari, di piani da eseguire (“Animal kingdom”) o di spietate prese di posizione per assicurarsi la sopravvivenza (“The rover”). Al contrario, appare titubante e come sacrificato, quindi, cinematograficamente parlando, più corrivo e prevedibile, al momento di tratteggiare i risvolti della war machine propriamente detta, che non è solo l’elemento prevalente della personalità di un soldato condannato a vincere, con tutto ciò che di schizofrenico e paradossale tale spada di Damocle implica (contribuendo, tra l’altro e con merito, a ricollocare la mimica esagerata di Pitt in un alveo metaforico più vasto e altrettanto pittorescamente frequentato che, almeno da Stranamore in poi, ha tentato di somatizzare per immagini l’impatto fisico, psichico ed emotivo della guerra sugli uomini che presumono di condurla) ma anche e, con ogni probabilità per la gran parte, il gigantesco apparato propagandistico (al di sotto del quale, non dimentichiamolo, brulicano quello tecnico e quello affaristico) chiamato a reggere il gioco della mobilitazione bellica spesso oltre qualunque evidenza di successo, per finalità alla lunga talmente intricate o addirittura contraddittorie da risultare, qualora giunte al senso comune, incomprensibili se non, semplicemente, insensate. Su questa direttrice più squisitamente politica il lavoro di Michôd risulta tanto corretto quanto poco incisivo e, a conti fatti, convenzionale, con l’indomito Generale chiamato sovente a ponderare cautele, a dilatare i tempi d’intervento, a considerare e riconsiderare le conseguenze d’un eventuale attacco su vasta scala, dall’onnipresente e variopinta accolta di sedicenti mistagoghi del potere, esperti di relazioni internazionali, solerti addetti stampa, litigiosi membri di agenzie governative tra loro concorrenti, et., in un andirivieni di mezze promesse e sibillini inviti alla precauzione che va ad affiancarsi senza troppe varianti al sottofondo genericamente polemico-esplicativo di tante pellicole simili.
Nel complesso e in ogni caso, ciò non esclude ma anzi a tratti esalta quel sentore - ahinoi, divenuto fin troppo familiare - d’estenuata inutilità e arresa colliquazione che esala prima o poi da ogni piaga aperta della Storia.
TFK

2 commenti:

sgrunt ha detto...

Leggendo la tua recensione mi vien volta di vederlo

Quotes And Sayings ha detto...

Amazing topic