mercoledì, dicembre 19, 2007

Voglia di normalita'

Il plauso decretato dalla quasi totalita' dei critici presenti alla prima nazionale de La promessa dell'assassino di David Cronemberg, film di chiusura della 25esima del Torino Film Festival 2007, la dice lunga sull'assuefazione degli addetti ai lavori al conformismo generale che attanaglia il giornalismo italiano.
Il film del canadese e' solo un esempio di una tendenza sempre piu' generalizzata, da parte di chi fa opinione, di esaltare quei film di registi, fino a poco tempo prima messi all'indice per il contenuto delle loro opere, ritenute pericolosamente malate e sobillatrici dell'ordine costituito ed ora esaltate per la riproposizione degli stessi temi, opportuamente ripuliti degli aspetti meno digeribili.
Accanto al regista canadese figurano una schiera di ex-negletti che appena ritrovano la cosiddetta "linearita' di struttura". "..si sente la mano del cosceneggiatore Lawrence Block, formato al rigore dei gialli.." afferma Mereghetti quando dichiara di apprezzare la coerenza narrativa di Blueberry Nights di Wang Kar Wai, di per se' un pregio quando fa riferimento ad un cinema di tipo classico, sul modello riassunto in maniera splendida da tutta la filmografia di Clint Eastwood, un altro regista di cui bisognerebbe parlare a proposito di subitanei ripensamenti - dove la cronologia delle azioni e' la chiave necessaria per la loro interpretazione, ma banalizzante all'ennesima potenza quando ingabbia un cinema che vorrebbe esprimere l'ineffabile. Oppure dall'esaltazione tout cort dello sperimentalismo alla moda e molto voyeristico di Paranoid Park, l'ultima acclamatissima opera di Gus Van Sant (intere redazioni di giornali specilizzati lo indicano come miglior film del 2007!) - icona (i Cahiers du Cinema lo schiaffano nella loro empirea copertina in segno di riconosciuta venerabilita'!) prescelta per rimpiazzare il Von Trier, beniamino caduto in disgrazia - al salvataggio in calcio d'angolo di uno dei grandi della "Nuova Hollywood", il Francis Coppola di A youth without a youth, il cui polpettone filosofico-religioso-esistenziale viene graziato dai corrispondenti della Festa romana e, quand'anche criticato, si tratta pur sempre di buffetti affettuosi.
Di questo passo non si devono preoccupare "David Inland Empire Lynch" o "Emanuele
Nuovomondo Crialese" (unico tra i giovani registi italiani capace di ragionare con la propria testa), apertamente sbuccellati alla penultima mostra veneziana, per alcune sequenze ritenute pretenziose o volutamente criptiche (il mare di latte da dove emergono e poi nuotano gli emigranti siciliani e praticamente tutto il film del regista.

martedì, dicembre 18, 2007

Paranoid Park

L'ultimo lavoro di Gus Van Sant, Paranoid Park, girato interamente a Portland con attori non professionisti, selezionati attraverso il sito Myspace.com, chiude la trilogia dedicata all'osservazione del mondo adolescenziale del regista statunitense, iniziata con Elephant e proseguita con Last Days. Il film mette in scena l'omonimo romanzo di Blake Nelson, che racconta la presa di coscienza di un adolescente di fronte all'accidentale omicidio di cui e' artefice. Alex ha sedici anni, frequenta il liceo, e' un bel ragazzo ed e' appassionato di skateboard; una sera, accidentalmente, uccide una guardia di sicurezza nei pressi di Paranoid Park, il parco piu' malfamanto della citta'. La morte dell'uomo è efferata, poichè caduro sotto le rotaie di un treno in transito rimane tranciato a meta'. La scena è certamente incisiva ma dai toni splatter al limite del grottesco. Si tratta di una fatalita', di una tragedia non voluta, che turba profondamente Alex e che lo chiude in un silenzio apatico. Tutto cio' che gli accadra', dopo quella sera, gli scivolera' addosso come acqua, mentre egli cerca una via d'uscita dalla spirale di senso di colpa ed angoscia che lo divora lentamente. Il film ha una struttuta spezzata e non lineare, sorretta da flashback e dalla voce fuori campo narrante del protagonista, espediente che cerca di unire le varie parti narrative. Lo spettatore si trova disorientato in questa costruzione, alimentando un certo disagio. Gli occhi di Alex sono gli occhi dello spettatore: tutto rimane sospeso in un limbo sofferto ed estraniante; i suoni si mescolano e spesso sostituscono le parole, alterando la percezione del presente, molti silenzi lasciano spazio alle immagini di lenti movimenti, sulle quali tanto ama soffermarsi il regista. Alex barcolla in uno stato onirico e turbato, il suo viso d'angelo ricorda le figure della pittura del Raffaello, angeliche, pulite, con lo sguardo non più sognante, ma teso alla ricerca muta di una via di fuga. Il racconto si dipana lentamente, mantenendo un tempo dilatato e colloso. Non coinvolge ne' emoziona questa parabola sulla accidentalita' degli eventi e le conseguenze delle prorie azioni, ma certamente e' apprezzabile per la perfezione tecnica con la quale e' stata girata e montata, per la bellezza dei giovani protagonisti, celebrati come icone di un presente contraddittorio e malato, dove il sogno americano ha perso la propria identita' ed i propri riferimenti. La narrazione assume toni sempre piu' cupi e mostra i giovani in tutta la loro indifferenza verso gli altri, in questa ennesima fotografia sugli Stati Uniti di oggi. I genitori sono sempre inquadrati di spalle, sfocati o in ombra, presenze ai margini dello schermo, della memoria, incapaci di aiutare o anche solo di ascoltare i bisogni dei propri figli. La solitudine avvolge questi corpi adolescenti acerbi e bellissimi, toccati dal male e corrotti nel profondo dalla disillusione.

martedì, dicembre 11, 2007

Across the universe

Julie Taymor, ci ha abituato ad un cinema che canta fuori dal coro non solo per le scelte stilistiche, frutto di un talento a tutto campo, capace di spaziare dal teatro alla pittura e senza trascurare danza e letteratura. A film che sono innanzitutto spettacolo per gli occhi ma lasciano il segno per l'efficacia dei contenuti. E su queste basi che si rimane delusi da "Across the universe", un greatest hits romanzato sul gruppo piu' famoso del mondo. Un idea mica male quella di unire un repertorio musicale solitamente confinato nella realta' fotoromanzo ad uno epoca storica (siamo a cavallo degli anni 60/70) in cui l'America doveva fare i conti con le conseguenze di una politica falsamente libertaria nei costumi ed antiprogressista nei contenuti. Peccato che l'emozione delle note si cosparga su un plot che sembra un riassunto del bignami, pieno di tutto (amore, sesso politica e rock and roll) tranne che di idee. Un album delle figurine in cui riconoscere i personaggi della storia, quella musicale, popolata dalle facce che l'hanno fatta (Jimi Hendricks e Janis Joplin) e quella personale, per riconoscersi tra quelli che credevano di poter cambiare il mondo. Insomma una cosa nostalgica adatta a tipi come Gianni Mina' e Fabio Fazio, ma inutile per quelli che vogliono cercare di capire chi eravamo e come siamo diventati. La faccia angelica di Rachel Wood che gioca con il fuoco e rischia di bruciarsi, i capelli a caschetto del protagonista, le comparsate delle star di turno e le coreografie sempre uguali di Daniel Ezralow dovrebbero rafforzare la potenza dell'opera ed invece sono magnifici orpelli di un successo mancato.

Piano, solo

Il riferimento musicale del titolo allude alla solitudine del protagonista, il jazzista Luca Flores suicidatosi in giovane eta' , al termine di un esistenza ricca di successi artistici, ma inevitabilmente segnata dalla scomparsa della madre di cui non smise mai di sentire la responsabilita'. Un legame strettissimo che andava a colmare quello pressoche' assente con il padre, geografo di fama, rubato alla famiglia dagli impegni di lavoro e da un carattere privo di slanci affettivi. Il film ripercorre in maniera cronologica i momenti salienti della sua esistenza, dall'infanzia assolata delle spiaggie del Kenia, agli inizi musicali, folgoranti e talentuosi, che precedono gli anni della crisi, quelli su cui maggiormente si sofferma la narrazione, in cui la parvenza di normalita' lascia il posto all'instabilita' psichica. La scelta di rinunciare alla riproposizione dell'artista maledetto per soffermarsi sul dramma dell'"uomo interrotto" appare in linea con lo spirito del libro che ha ispirato il film e con i toni volutamente sommessi della regia. La prova attoriale, in aderenza con il inguaggio cinematografico del film, ci da l'opportunita' di apprezzare una schiera di attori che da soli costituiscono passato e presente del nostro cinema piu' recente: da Kim Rossi Stuart, a suo agio con gli sguardi insondabili del giovane musicista, a Mariella Valentini, indimenticabile giornalista che tormentava Michele Apicella con il "Trend negativo" (Palombella Rossa) a Corso Salani, regista e attore un tempo famoso ed ora impegnanto in un cinema di ricerca che non si chiude in se stesso (Palabra), per continuare con la delicata Sandra Ceccarelli, attrice di cui si sentiva la mancanza ed ancora Paola Cortellesi in un ruolo che ne conferma la grande versatilita' . Un Pantheon di prime donne che suonano come violini sull'altare delle emozioni, grazie ad un regia da sempre abituata a privilegiare il fattore umano. Quello che impedisce al film di portare a casa l'intera posta e' un eccesso di didascalismo, soprattutto nella parte centrale, quando il disagio del protagonista avrebbe meritato qualcosa in piu' dei continui primi piani ed un eccesso di pudore che normalizza in modo eccessivo un percorso artistico ed umano fuori dal comune.

10 items or less

Girato nello stile caro al cinema indie (pauperismo produttivo, telecamera a spalla, luci naturali, scenografia presa in prestito dalla realta' ) il film di Brad Sieberling mette in scena l'incontro di due solitudini sullo sfondo di una Los Angeles lontana anni luce dall' immagine ideale e glamour che propaganda: lui (un Morgan Freeman leggero come l'aria) e' un attore hollywoodiano in cerca di rilancio, lei (Paz Vega dallo sguardo di fuoco e le curve consistenti) e' una cassiera di un supermarket periferico. Due modi diversi di reagire alle difficolta' della vita ma la stessa ansia da prestazione che ne accompagna le scelte quotidiane. Una giornata particolare dara' loro l'occasione per fare pace con se stessi e credere nuovamente nelle proprie capacita'. Balzato alle cronache per meriti che nulla hanno a che fare con le sue qualita' artistiche(nell'estate americana il film era regolarmente nelle sale e ufficialmente scaricabile dalla rete ) il film si sviluppa su due momenti successivi, il primo, reso divertente dalla comicita' involontaria delle situazioni e da una scelta stilistica che lavora sulle suggestioni tanto dei corpi quanto delle parole, la seconda piu' riflessiva ed intimista, quasi un on the road esistenziale, in cui le diverse fermate (a casa della collega che le ha rubato il marito, nel grande magazzino per la scelta dei vestiti, nell'ufficio in cerca di un nuovo lavoro) rappresentano il passaggio obbligato per il definitivo cambiamento. Un film di affetti speciali prodotti dalla generosita' di due interpreti in stato di grazia, che non si limitano alla replica di uno schema gia' pensato ma diventano essi stessi personaggi, espressioni di un feeling vitale e contaggioso che dimentica la tecnica e prende a piene mani dalla vita. Il duetto fisico e vocale ci restituisce due persone in carne ed ossa, lontani dal modello surrogato da tanto cinema contemporaneo; riesce a rendere la sospensione emozionale, l'afflato sottile e soprattutto la distanza fisica che divide l'empatia caratteriale dal desiderio omnicomprensivo.

lunedì, dicembre 10, 2007

Neandertal

Non e' detto che qualunque film arrivi dalla Germania debba essere per forza una cosa da vedere. Il fatto di vivere un nuovo
rinascimento cinematografico dopo i fasti dei mitici '70 non assicura sempre la qualita' del prodotto. Prendi Neandertal, per esempio e ti accorgi della verita' di questo assioma. Presentato in concorsoal Torino Film Festival 2007 come un film su un ragazzo affetto da una dermatite acuta che gli deturpa la faccia e gli impedisce di vivere una vita normale, il film a poco a poco si trasforma in un percorso di ribellione di stampo sessantottina che e' anche un riassunto frettoloso di tutte le istanze del ribellismo dantan e della contestazione giovanile (rifiuto dei modelli familiari, fuga da casa e vita nel falansterio maledettismo, anarchia, sesso, droga e rock and roll, e l'elenco delle voci potrebbe dare vita ad altre sottocategorie che renderebbero l'elenco insostenibile) che si conclude, dopo un accumulo fraccassone e sgangherato, con un improvviso quanto repentino ritorno alla normalita', sancito da un commento fuori campo che annuncia il prossimo ritorno dell'Uomo di Neandertal. Indeciso sulla strada da seguire, il regista ha pensato all'ipotesi minestrone nella speranza che la quantita' della carne al fuoco ed una musica a tutto volume potessero da una parte acchiappare un pubblico trasversale, dall'altra far sentire in maniera chiara la rabbiosa urgenza che l'avrebbe convinto a girare il film. Peccato che oltre alla coerenza drammaturgica (dopo un po' della malattia non resta traccia ed il film prende tutt'altra direzione) al risultato faccia difetto uno stile ibrido e irrisolto, che assume il modello fassbinderiano come semplice cliche', ed una recitazione davvero approssimativa, con attori poco incisivi (il protagonista) o sopra le righe. Nel frattempo il film e' finito da un bel pezzo ed ancora non abbiamo capito il senso del titolo; prima o poi qualcuno lo spieghera' anche a noi,nel frattempo prendete carta e penna e segnatevi il titolo del film e il nome... del regista: se lo incontrate evitatelo con cura.

Nella valle di Elah

"Nella valle di Elah" e' un film che parla di dolore ma non solo. La presa di coscienza, lenta ma inesorabile del protagonista, interpretato da un Tommy Lee Jones in versione Eastwoodiana, e' un modo per mettere in discussioni due decenni di politica americana e per dire basta alla peggiore delle abberrazioni umame. Ma e' anche un'occasione per ricordarci che in questo cammino di redenzione abbiamo bisogno di tutto, di noi stessi, delle persone che ci vivono accanto, di quelle che ci circondano, nel piu' assoluto anonimato, per le vie delle nostre citta', del senso della vita che abbiamo completamente perduto, di quel senso religioso, di cui il film e' impregnato fin dal dal titolo, e poi proseguendo, con la raffigurazione di una famiglia "sacra" che riesce a sopravvivere ad un esperienza terribile, la morte del figlio prediletto, aggrappandosi alla speranza che quell'esempio disumano salvera' altre vite, che sara' il punto di partenza per la liberazione definitiva. Tutto cio' non basterebbe se non fosse supportato da un copione di ferro, che mette sullo stesso piano impegno civile e necessita' dell'anima, stendendo su entrambi un pietoso velo di parole e silenzi che sembrano durare all'infinito. Chiamato alla prova piu' difficile, quella della riconferma, dopo un successo da Oscar, Paul Haggis fa vedere di che pasta e' fatto, mostrandoci una guerra senza sangue, che riesce ad essere terribile anche solo a sentirla raccontare; c'e' la fa vedere sulla faccia delle persone, sui soldati rimpatriati che in realta' non sono mai tornati, su quelle dei genitori che non riusciranno piu' a dormire. Non ha bisogno di armi da fuoco, Paul Haggis riesce a sparare con la forza delle immagini ed il potere defragrante della verita'. Bisognerebbe ringraziarlo per averci fatto partecipare a questo viaggio nella notte oscura, dandoci la possibilita' di tornare e di iniziare a fare qualcosa anche noi per impedire che la storia torni a ripetersi.

Diario di una tata

Se uno non lo leggesse con i suoi occhi, si stenterebbe a credere che gli autori del magnifico American Splendor, esempio di un cinema che non rinuncia alle sue prerogative e prova vivente della cecita' distributiva dei nostri mestieranti, siano gli sceneggiatori ed i registi di una simile banalita'. Siamo d'accordo che l'integrita' dell'arte sia ormai una roba d'altri tempi e magari neanche di quelli, cosi' come della necessita' di lavorare all'interno del sistema per riuscire a sfruttare le sue potenzialita' di promozione e visibilita', ma ci dovrebbero essere dei limiti. Ed invece in barba a qualsiasi considerazione artistica ed ad un talento a cui non vorremmo rinunciare, i due ci rifilano la solita polpetta infarcita di buoni sentimenti e finale a lieto fine.
Scarlett Johansson sempre più a disagio davanti alla macchina da presa grazie anche ad un copione che ne mortifica la fisicita' e la relega ad un ruolo monofaccia, vi interpreta il ruolo di una Tata "Pretty Woman" con aspirazioni cristologiche, costretta per spirito di corpo (nei confronti del copione, non della storia di cui si vede non le interessa un granche') a subire le vessazioni di una "matrigna" dalla faccia d'angelo, interpretata con la solita professionalita' da Laura Linney, e le sporche attenzioni del di lei marito, cattivo e fedigrafo, impersonato da quel marpione della recitazione di Paul Giammatti. Non contenta di cotanta afflizione la poverina rincara la dose e si sacrifica nel tentativo di salvare il figlio di questi sciagurati, una simpatica faccetta simile al piccolo Nicholas Bradford della mitica serie televisiva (stesso taglio di capelli, stessa faccia paffutella). Non temete però, con un finale da fantascienza - ma non doveva essere una commedia di costume, che poi era diventata una commedia sentimentale? - tutto si conclude senza spargimento di sangue e con un happy end che non si fa piu' neanche in televisione. Che dire di piu', speriamo solo di aver sognato oppure facciamo finta che nulla sia accaduto e rimettiamoci in attesa del nuovo film di Robert Pulcini e Shari Springer Berman: quello appena visto non e' mai pervenuto.

giovedì, dicembre 06, 2007

Charlie Bartlet

Presentato nella sezione anteprime della 25esima edizione del Torino Film Festival, "Charlie Bartlet" rappresenta l'esordio alla regia di James Poll, gia' montatore della serie "Ti presento i tuoi/miei" e di "Scary movie n.3", qui alle prese con un film che analizza le inquietudini giovanili, utilizzando il genere "College movie" come contenitore, in cui far confluire non solo le forme dell'intrattenimento giovanilistico (amore, amicizia,conflitto generazionale) ma anche quelle di un cinema piu' adulto e nichilista, sulla falsa riga di due campioni del genere come "Heathers" e "Pump up the volume". Affiancando il protagonista a uno stuolo di attori consumati (Robert Downey jr, Hope Davis) il regista disegna uno spaccato di gioventu' depressa e desiderosa di comunicare il proprio disagio senza sentirsi giudicata. Charlie Bartlet fa al caso loro e quando le circostante della vita lo mettono in contatto con un simile uditorio si producono una serie di reazioni a catena che costituiscono la parte piu divertente del film. Soprattutto nella prima parte, Poll si ricorda delle sue origini e presenta in maniera efficace il suo protagonista e l'ambiente in cui si muove. Diversamente se ne dimentica quando deve tirare le fila, dilungandosi in un finale telefonato e poco rischioso, dove la morale della "famiglia a tutti costi" getta una luce di conformismo sull'intera operazione.

The art of negative thinking

Finalmente un film liberatorio ed anticonformista che se ne frega del politicamente corretto e picchia duro sull'ipocrosia della societa' borghese. Piu vicino al cinema da camera ed alla compostezza formale di Susan Blier che alla presunta improvvisazione di Von Trier il film fa parte di quel cinema scandinavo che riesce ad intrattenere e nello stesso tempo a raccontare la societa' in cui vive, senza avere paura di affrontarne i tabu'.
Nel caso specifico a venire demolito e' il sistema di pensiero e le azioni che riguardano il recupero psicologico delle cosiddette "persone diversamente abili": terapia di gruppo, assistenza medica domiciliare, pensiero positivo vengono tirati in ballo quando la moglie del protagonista, nel disperato bisogno di recuperare il matrimonio messo a rischio da un incidente stradale che lo ha reso tetraplegico, si affida ai moderni mezzi del sistema sanitario, ottenendone in cambio un unita' di supporto modello Ghostbuster, capitanata da una venditrice di fumo intenta a confermare le teorie contenute del libro che vuole pubblicare e formata da un accolita di derelitti, che dovrebbero essere la prova della giustezza del metodo ed invece ne sono la sconfitta piu' evidente. Dall'incontro/scontro tra il mondo del dolore reale e quello immaginato, ognuno dei protagonisti trovera' la sua dimensione e forse una vita piu' felice. Caratterizzato da momenti di comicita' involontaria che non e' mai gratuita ma
scaturisce dall'assurdita' delle situazioni, il film e' allo stesso tempo duro e delicato ed ha il pregio di non dare nulla per scontato. Corredato da spunti cinefili che diventano il simbolo di una condizione (il protagonista, giacca verde e capelli spinaciosi, sembra un reduce del Vietnam e fa la roulette russa come Christopher Walken ne "Il Cacciatore" ) e con un crescendo emotivo che sfocia in una catarsi finale inaspettata e liberatoria, il film e' un autentica rivelazione e si candida di diritto tra i possibili vincitori del Torino Film Festival 2007.

Actrices

Giunta alla seconda parte della sua cinebiografia, Valeria Bruni Tedeschi abbandona il mondo agrodolce e le nostalgie colorate di "E' piu facile per un cammello.." e si immerge nelle atmosfere autunnali e un po' rarefatte di "Actrices". La materia del contendere nasce dall'urgenza di oggettivare un esistenza in bilico tra i successi del palcoscenico e la precarieta' del privato. Per tradurre questa necessita' la Tedeschi adotta una storia vicina alla sua vicenda personale (il palcoscenico delle prove e' lo stesso che la vide esordire nei teatri parigini mentre il ricordo dell'amante prematuramente scomparso rimanda all'analogo destino toccato in sorte al fratello dell'attrice, a cui il film e' dedicato) ed una struttura di impianto teatrale, corredata da intermezzi di quotidianita' che alleggeriscono i toni e danno ritmo alla narrazione. Durante le prove di "Un mese in campagna" di Turgeniev, un'attrice di massimo successo e' colta da una crisi d'identita' che mettera' in discussione il valore dell'arte e le scelte di una vita. Il tema e' di quelli impegnativi cosi' come le scelte della Tedeschi che non rinuncia al suo cote' attoriale ma lo mette a disposizione di un linguaggio cinematografico tradizionalemente frequentato da grandi come Bergman, ampiamente citato nelle estemporanee resurrezioni dei cari estinti e nell'alter ego artistico della diva, impersonato da una Valeria Golino in libera uscita, per non parlare di Truffaut, riproposto nella rappresentazione di un modello narrativo in cui il binomio arte/vita fluisce senza soluzioni di continuita' . I propositi sono lodevoli ma il film non decolla perche' i modelli sono accettati in maniera acritica e senza l'elaborazione necessaria ad evitare il cliche'. Le situazioni d'autore, schematiche e poco appassionanti, sono presentate in maniera programmatica ed alla fine fanno addirittura rimpiangere il dilettantismo dei siparietti familiari.

lunedì, dicembre 03, 2007

Vogliamo anche le rose

Salutata con la solita sobrieta’ da un popolo festivaliero numeroso e trepidante Alina Marrazzi torna al Torino Film Festival dopo lo strepitoso successo ottenuto da "Un ora sola ti vorrei" il documentario che l’ha imposta come una delle realta’ piu’ interessanti del nostro panorama cinematografico, non solo tra gli addetti ai lavori, a volte propensi ad inventare il caso per sfruttarne l’inevitabile ritorno di visibilita’, ma anche dal pubblico piu’ giovane che aveva apprezzato l’originalita’ dell’opera e la delicatezza nella rappresentazione di un dramma personale. E non c’e’ dubbio che anche questa volta il tema dell’emancipazione femminile e piu’ in generale quello della condizione della donna a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘70 non sia semplicemente l’oggetto dell’indagine ma appartenga al vissuto dell’autrice non solo come categoria ma anche come esperienza vissuta. Lo dimostra la volonta’ di privilegiare la dimensione privata ed emozionale delle sue protagoniste all’elemento sociale e politico: nel corso del documentario, costruito come un patchwork di immagini e parole tratte dalle fonti piu’ disparate (materiale di repertorio, super 8, filmato d’animazione e testimonianza diaristica), al di la’ della cronaca di una battaglia che non e’ ancora finita , emerge il tormento di una presa di coscienza lunga e dolorosa, popolata da fantasmi personali e sovrastrutture opprimenti ed in cui solitudine e sensi di colpa sono le uniche certezze. La fluidita’ dello stile insieme ai simpatici siparietti d’epoca concorrono ad abbassare i toni, ma i nervi sono scoperti ed il pericolo di farsi male e’ inevitabile. Nel corso della presentazione del film, rispondendo ad una domanda di Nanni Moretti su un suo eventuale passaggio al cinema di finzione, l’autrice dapprima titubante poi decisa, ha detto di considerare come tale il suo documentario per la capacita’ di far vivere le protagoniste al di sopra del vissuto che raccontano.

La promessa dell'assassino

Utilizzando un impianto di genere, il gangster movie, ed una citta’, Londra, David Cronemberg continua a parlare di violenza come pulsione primaria dell’essere umano, raccontando le vicende di ordinaria criminalita’ di una famiglia mafiosa alle prese con uno scomodo diario e costretta a fronteggiare l’idealismo senza frontiere di una coraggiosa dottoressa. Il microcosmo delinquenziale inserito all’interno della comunita’ russa e’ l’ambiente ideale per vedere in azione i meccanismi che regolano l’esistenza umana. La struttura tribale come principio informatore di ogni attivita’ ,i meccanismi ancestrali vissuti come fardello psicologico, le relazioni familiari organizzate come strumento di potere sono rappresentate con sguardo da entomologo ed una messa in scena che e’ un referto patologico. Il determinismo darwiniano impone la sua legge attraverso l’escalation di un "uomo tranquillo", un factotum della mafia con aspirazioni filosofiche, personaggio speculare all’imperturbabile padre di famiglia di "A History of violence", che mostra la sua vera natura quando, in un escalation di brutalita’ realizzata in puro stile cronemberghiano con i corpi che si avvinghiano in un estasi di sangue e redenzione e’ costretto a lottare per salvare la propria vita. Come al solito il regista piega le regole del genere alle necessita’ della sua visione ma questa volta il meccanismo non funziona perche’ si lascia trascinare da un plot monocorde, piu’ attento ai dettagli visivi (il look tatuato ed il taglio di capelli del faccendiere) che allo sviluppo drammaturgico (la bellezza bionda e angelica di Naomi Watts e la virilita’ nera e trattenuta del protagonista) che non aiuta l’elaborazione di quel mondo altro che si annida dietro la normalita’ del quotidiano. Ciononostante il pubblico del TFF come era accaduto per il deludente "Blueberry Nights" ha applaudito con convinzione i titoli di coda confermando una succube assuefuazione.

The Savages

Forte dei successi riscossi al Sundance "The savages" e’ stato scelto per inaugurare non solo il concorso ufficiale ma anche la vetrina del 25° Torino Film Festival (TFF). Una scelta su cui riflettere per cercare di capire quale sara’ la tendenza di questo edizione. L’opera in questione sembra riflettere il carattere del suo direttore, serio, professionale, che bada alla sostanza infischiandosene del chiacchericcio mediatico che lo circonda. Se poi ci si vuole inoltrare nello specifico bisogna aggiungere che il film riassume pregi e difetti del cinema Indi targato Redford: una sceneggiatura di ferro, attori che calzano a pennello con i personaggi interpretati (Linney e Hoffman nella stessa inquadratura valgono il biglietto), regia pragmatica ed al servizio dell’opera ma anche una certa ripetitivita’ dei temi, in questo caso le conseguenze di una educazione anaffettiva e violenta, e delle scelte stilistiche, improntate ad un minimalismo carveriano che alla lunga appare monocorde e poco vitale. Detto questo il film e’ all’altezza del compito perche’ riesce ad essere impegnato senza venir meno alle sue prerogative di intrattenimento cinefilo.