martedì, novembre 29, 2016

TRAIN TO BUSAN

Train to Busan
di Yeong Sang-ho
con, Ma Dong-seok, Gong Yoo, Kim Sun-an, Kim Eui-sung, Jung Ju-im
Corea del Sud 2016 
durata, 118'

L'ulteriore, bieca accelerazione inferta al nostro modo di vivere (?), ben si presterebbe ad una lettura metaforica incline a porre - entro il territorio dell'horror, spesso così fertile di punti di vista eccentrici, genuinamente inquietanti; di riletture in chiave apocalittica o parodistica del presunto reale - il periodico ripresentarsi di figure di riferimento di un intero immaginario (qui, gli zombi/morti viventi/non morti, dotati di inediti atout fisici) in correlazione diretta con l'inesausto affastellarsi di propositi parcellizzati a cui è assimilabile il cosiddetto presente, secondo i termini di un autentico rapporto di causa-effetto e nella forma di un medesimo, letale virus, movente di ogni contagio, indi di ogni nuova invasione.


Del resto, se, per dire, indizi complementari della stessa ipotesi possono essere rilevati - sebbene capovolti, a testimoniare se non altro come l'assunto arrivi a funzionare anche agli estremi dello spettro narrativo - nel circo congelato dell'ultimo Refn (all'interno del quale, come visto, la velocizzazione costante del meccanismo di riproduzione/consumo/deiezione della Bellezza stride/sanguina con l'inerzia ingorda della stilizzazione volta al raggiungimento della posa/finzione perfetta, in un processo d'irrigidimento sovrapponibile al decorso di una patologia degenerativo-progressiva che mina l'organismo dall'interno fino alla sua consunzione, al tempo predisponendosi, senza ostacoli apparenti e a reiterazione dello schema, alla rinascita in un altro ospite: più o meno, la concatenazione di eventi che lega la trasmissione dell'infezione all'innesco della metamorfosi in zombie), nondimeno teorici vincoli di consequenzialità lineare si sono resi manifesti a partire da avvisaglie balenate qua e là nelle proposte cinematografiche recenti, ad integrazione ed arricchimento di quel magistero sociologico concepito e trasformato in linguaggio da un autore come Romero. Prova ne sono - e solo per fare mente locale - l'esperimento in chiave apertamente cinetica (risolto ancora, però, nonostante buona lena e lucido pessimismo, al limite dell'omaggio-riadattamento delle coordinate stabilite dal maestro newyorkese) condotto da Snyder nel 2004 (a sua volta in gestazione, volendo includere altre suggestioni, già nel "28 days later..." di Boyle, di poco precedente), allorquando in "Dawn of the dead" presenta un'orda tanto affamata quanto rapida negli spostamenti e un minimo imprevedibile nelle strategie di caccia, e l'apoteosi podistico-mirmecologica delle biche inumane (trans-umane ?) viste nel "World War Z", di Forster nel 2013.

Ebbene: il novero di queste alterazioni, asistematiche ma ricorrenti nel metabolismo inquieto dell'horror contemporaneo, si ripropone al cospetto di un'opera come "Train to Busan", del coreano Yeong Sang-ho, da poco incrociata alla Festa del Cinema di Roma, in replica alla XVI edizione del Trieste science+fiction Festival e - ci si augura - prima o poi in uscita nelle sale, con l'aggiunta dello specifico vettore simbolico di propagazione-del-Male rappresentato da un treno in corsa che stipa individui impegnati ad evitare di essere contaminati/fagocitati da bipedi mostruosi posseduti da un misterioso morbo. A rigore, quindi, erano presenti un buon numero di fattori per illustrare con coerenza - e auspicabile resa spettacolare - gli eventuali nessi che avvicinano (magari ancora non così platealmente, eppure al punto in cui siamo, tutto sommato, già con una sua sinistra plausibilità) la frenesia irriflessa e onnivora di una modernità che s'agita a mo' di cadavere percorso da spasmi post-mortem e l'imprevedibilità tourettica di creature animate da un vitalismo talmente sospetto da non poter escludere del tutto la congettura in base alla quale la malattia che li scatena sia conforme al parossismo (leggi: pulsione di morte) di un mondo che, in qualche modo, li ha prodotti o, comunque, di fatto, ne contempla l'esistenza e, a suo modo, la prepotente brama di vivere.


Perlopiù, invece, assistiamo, nel lavoro di Sang-ho, ad un incontro di variazioni su temi a lungo sperimentati. Ad esempio, quello dell'epidemia fuori controllo (come conseguenza di un progetto bio-tecnologico sfuggito di mano per un accidente del caso), la cui pericolosità si diffonde esponenzialmente per il tramite del morso di un soggetto - all'apparenza affetto da un sorta di furibonda idrofobia - indotto a sbranare (in parte per cibarsene) suoi simili sani, a loro volta, dopo rapida mutazione, pronti ad ingrossare le fila dei predatori. Perdono consistenza, così, mano mano, le sopracitate alternative inerenti un racconto allegorico (da centrare sul nesso davvero angosciante che vorrebbe saldare senza mediazioni il forsennato torchio quotidiano a cui sono assoggettati milioni d'individui, ad un irreversibile stravolgimento fisico degli stessi, in cui far convergere giorni, anni di rancori, di umiliazioni, di frustrazioni senza sbocco, al punto zero di un'esagitata esplosione a cavallo tra esuberanza senza freni, redde rationem ed èlan mortel), e (ri)prendono vigore, altresì, i piani narrativi - e immaginativi - di certa consuetudine, a partire da quelli che intersecano le vicende di personaggi diversi per estrazione, mentalità, interessi, et., loro malgrado chiamati ad una disperata lotta per la sopravvivenza su un convoglio in viaggio (per ciò che ci riguarda, una tratta veloce tra Seul a Busan). Ritroviamo, allora, la varia umanità composta da, nel caso, un paio d'anziane sorelle in composto diporto; una mezza squadra juniores di baseball. Quindi, professionisti, studenti, pendolari, coppie assortite. E alla fine, la piccola Soo-an/Kim Sun-an, ragazzina seria e precocemente giudiziosa, a fianco del padre Seok-woo/Gong Yoo, giovane analista finanziario, tipo sbrigativo e distante, obtorto collo persuaso ad accompagnare dalla madre la figlia - ancora speranzosa in una possibile ricomposizione del nucleo familiare - utilizzando inconsapevolmente proprio il treno fatale...


A merito del film va ascritta in primis l'attitudine a sfruttare con una certa abilità sia l'angustia degli spazi dell'aerodinamica barain movimento ingombra di figure tanto fameliche quanto quasi inermi se non sollecitate da un rumore o da un contatto visivo diretto (per mezzo d'inquadrature al contempo pragmatiche ed estrose, primi piani carichi d'ansia e bruschi stacchi ad intercettare gli spasmi dei corpi impegnati nella lotta o nella fuga); sia - ed è meno ovvio - l'inerte ostilità dei vuoti - stazioni, aree di parcheggio, ampie zone di transito e di attesa - riportati ad una specie di desolazione originaria dopo il passaggio dell'esercito cannibale. Da segnalare, inoltre, l'indomita tempra, la segaligna tenacia, nonché la sorprendente resistenza agli urti, delle avanguardie zombie, in grado di lanciarsi a peso morto da scalinate, tetti, alte vetrate, elicotteri (!), senza sfracellarsi: al contrario lesti, dopo qualche istante d'immobilità seguito da un generale sgranchimento, a gettarsi all'attacco con rinnovato slancio, al punto d'aggrapparsi - facendosi trascinare - al locomotore che trasporta i pochi superstiti, nella foggia di una ghignante catena di braccia e gambe serrate fra loro. D'altra parte, è pure vero che il ritmo sostenuto della vicenda (in virtù dell'elementare ma sempre efficace rilancio operato sull'eventualità di un'incursione imprevista dei cacciatori o di un passo falso delle prede) è, a scansioni quasi regolari, spezzato da pause riservate oltre che alla ovvia necessità di tirare il fiato e riorganizzarsi da parte dei rimasti, ad un esplicito tratteggio in miniatura della perentorietà dei rapporti di forza operanti su scala sociale, per cui il pezzo grosso Yong Suk/Eui-sung Kim, ben presto e d'autorità prende il controllo delle decisioni scavalcando anche il personale di bordo e il macchinista del treno, mentre, all'opposto, il rude proletario Sang Hwa/Ma Dong-seok, disincantato e d'indole beffarda con moglie incinta al seguito, ecco che, in crescendo, mostra coraggio e spirito di sacrificio assieme ad un'epidermica insofferenza alle ingiustizie ("Tu sei un broker", apostrofa il padre di Soo-an, "cioè uno esperto a lasciare indietro i più deboli"). Tra tali estremi, cerca la sua collocazione il resto della compagnia - Soo-an e Seok-woo inclusi - a riproporre, nell'insieme, i lasciti logori di una lotta di classe da quel dì conclusasi con la vittoria del Capitale e la periodica recrudescenza di una sterile guerra tra poveri per essere sul serio rivitalizzata da scampoli di un umanitarismo generico e, un tanto opportunisticamente, risorsa-d'ultima-istanza, dinamica, questa, lontana, purtroppo, tanto dagli ambigui scenari adombrati con ben altra tensione, mettiamo, dallo "Snowpiercer" di B.Joon-ho, quanto dall'idea radicale ma, come accennato, non così peregrina, riguardo una parentela stretta tra il nostro tritacarne quotidiano, il suo disperato rincorrere un'immagine fantasmatica di sé stesso, e ciò che, più mestamente e angosciosamente, in parte, già siamo.
TFK

domenica, novembre 27, 2016

LA FOTO DELLA SETTIMANA


























La  stangata di George Roy Hill (Usa, 1973)

YO-YO MA E I MUSICISTI DELLA VIA DELLA SETA

Yo-Yo Ma e i musicisti della via della seta
di Morgan Neville
con Yo-Yo Ma, Kinan Azmeh, Kayhan Kalhor
USA, 2015 
genere: documentario
durata: 95' 



Figlio di un musicologo violinista e di una cantante lirica di Hong Kong, nato a Parigi nel 1955 e cresciuto a New York, il celebre violoncellista Yo-Yo Ma conosce bene, anche se non direttamente, l'oppressione dei regimi rispetto alla libera espressione artistica. Così anche diversi componenti della Silk Road Ensemble, collettivo internazionale di circa cinquanta musicisti da lui riunito nel 2000. L'ex bambino prodigio, che a 7 anni ha suonato alla Casa Bianca davanti a JFK e Jackie Kennedy, noto per le sue interpretazioni dei classici, da Bach a Beethoven, da Schumann a Dvorak, ma anche per il suo eclettismo, è riluttante a restare ingabbiato nel repertorio. Prima ha portato la musica fuori dalle accademie e dagli auditoria, a beneficio di chi più difficilmente ne godrebbe, poi fondato quel progetto dietro il quale sta l'idea di ricreare quel tessuto connettivo, ovvero di scambio non solo commerciale ma anche creativo, che caratterizzava la via della seta, antichissimo collegamento tra Cina e Mediterraneo. In poco più di 15 anni la formazione ha realizzato sette album, suonando in trentatré diversi Paesi. Per rappresentare cinematograficamente questa sua idea Ma si affida a Morgan Neville, già produttore di diversi documentari musicali, nonché premio Oscar 2014 per il documentario 20 Feet From Stardom, inedito in Italia, sul ruolo di quei cantanti di seconda fila che rispetto ai divi per cui lavorano stanno "a venti passi dalla fama". Invece di riposare sugli allori di un successo acclarato, Ma desidera uscire dal divismo della classica e interrogarsi sul compito dell'artista, che può andare molto oltre la perfezione dell'esecuzione in sé. Ovvero la ricerca di sé, citando Leonard Bernstein. In una delle prime sequenze lo si vede infatti dietro le quinte di un teatro minimizzare e canzonare l'ampollosa presentazione che precede il suo ingresso. L'incontro tra Ma e Neville dà luogo a un film che si prefigge di celebrare il potere unificante e universale della musica, la sua straordinaria capacità di connessione tra esseri umani oltre ogni diversità etnica e religiosa. 


Nel farlo, non si sofferma tanto sul suo protagonista, sugli aspetti della creazione musicale o sulle performance concertistiche, quanto sulle esperienze di quattro di loro: Wu Man, campionessa di liuto cinese, che ricorda i limiti della Rivoluzione culturale e ci fa scoprire l'ultima generazione degli Zhang, suonatori e artisti di teatro di figura; il siriano Kinan Azmeh, clarinettista, che nonostante la devastazione del suo paese vede nella musica un futuro; Cristina Pato, virtuosa della gaita, la cornamusa galiziana, e fiera conservatrice delle isolate tradizioni locali; l'esiliato Kayan Kalhor, maestro di kamancheh, antico strumento a corde iraniano, sopravvissuto a traversie causate da repressioni e conflitti. Tra le loro testimonianze passano in rapida successione immagini naturali e paesaggistiche, anche vere e proprie esplosioni cromatiche, a tratti estetizzanti, con il preciso compito di interrompere con una prorompente bellezza racconti individuali spesso drammatici. Il film è produttivamente complesso, con tantissime le location, da Istanbul a Boston, da Teheran alla Spagna, anche difficili, come il capo profughi siriano o la Cina. Più che documentario strettamente musicale, il film è saggio umanista sull'importanza di preservare musica, lingua, cultura, per scambiarle e continuamente arricchirle nell'incontro con l'Altro: un inno alla simpatia, nel senso più originale di condivisione e connessione, di corde che vibrano insieme, di atto politico e gioioso di contrasto a qualsiasi tentativo di divisione. Un film teso a tal punto all'utopia che, per l'intensità con cui la mostra, in chiusura quasi rischia l'enfasi. La portata dell'esperienza resta trascinante, come la musica della Silk Road Ensemble; i movimenti di macchina volanti nella prima performance en plein air, così come nelle altre, danno l'illusione che un altro mondo sia veramente possibile.
Riccardo Supino

venerdì, novembre 25, 2016

IL CITTADINO ILLUSTRE

Il cittadino illustre
di Marian Cohn, Gaston Duprat
con Oscar Martinez, Dady Brieva, Andrea Frigerio, Nora Navas
Argentina, Spagna 2016
genere, commedia, drammatico
durata, 118'




Ne è passato di tempo da quando nel cinema argentino si riusciva a fare film solo con narrazioni impregnate di impegno civile o volte a criticare gli orrori del passato golpista. A prendere il posto delle metafore e delle grandi costruzioni allegoriche di cui erano pieni i film di quel periodo sono oggi progetti più concreti che amano spaziare soprattutto nel cinema di genere, come testimonia il successo internazionale di thriller come "Il segreto dei suoi occhi" e "Nove regine" e di commedie sul tipo di "Cosa piove dal cielo?", comprati ed applauditi in ogni angolo di mondo. Per questo motivo destava curiosità la presenza nel concorso ufficiale di "The Distinguished Gentleman" diretto da un coppia di registi - Marian Cohn, Gaston Duprat - da anni attivi nel cinema e nella televisione ma da noi pressoché sconosciuti. La trama del loro film era di una semplicità estrema, raccontando di un illustre romanziere che all'indomani della vittoria del premio Nobel accetta di tornare nel paese natale per tenere una serie di conferenze e ricevere la cittadinanza onoraria conferitagli dai suoi concittadini. Fedeli al motto "Nemo Propheta in Patria" i registi riservano all'illustre cittadino un'accoglienza ambivalente che inizia all'insegna del tripudio e si trasforma in una resa dei conti piena di odio e di rancore nei confronti di chi è riuscito a farcela. Ed è proprio la riflessione sulla fama e sul successo artistico, con ciò che esso comporta sia in termini di opportunità - come quella di ritrovarsi nel proprio letto una fan bella e disponibile - sia per quanto riguarda i fraintendimenti che derivano dall'identificare il privato dello scrittore con quello dei suoi personaggi a creare terreno fertile per un umorismo divertente e caustico, ideale per una commedia drammatica come "The Distinguished Gentleman". Oscar Martinez nella parte di Daniel Mantovani si candida al premio per il migliore attore del concorso.

mercoledì, novembre 23, 2016

SNOWDEN

Snowden
di Oliver Stone
con, Joseph Gordon-Levitt, Shailene Woodley
Usa, 2016
genere, drammatico
durata, 134' 


Il nuovo film di Oliver Stone si poggia su un presupposto che non centra nulla con la biografia di Edward Snowden e che chiama in causa "Citizenfour", il documentario realizzato da Laura Poitras per il quale la regista è riuscita a vincere l'Oscar nella categoria di riferimento. Ricordiamo che il lavoro della Poitras si basava per la maggior parte sulla registrazione filmata dell'intervista rilasciata da Snowden a lei e al reporter del Guardian che poi ne avrebbe diffuso le dichiarazioni sull'esistenza di un programma di sorveglianza di massa utilizzato dal governo americano per spiare le mosse dei governi stranieri come pure dei suoi stessi cittadini. A dispetto del caos mediatico scatenatosi all'indomani delle affermazioni rilasciate dall'ex consulente dell'NSA il film della Poitras fu ignorato dal pubblico statunitense (e non solo), mai troppo tenero con chi ha il coraggio di mettere in dubbio i pilastri della sua democrazia, terminando la corsa al botteghino con un incasso di poco inferiore ai tre milioni di dollari. Un dato che, numeri alla mano, equivaleva a considerare "Citizenfour" una sorta di desaparecidos delle sale, uscito nei cinema senza lasciare alcuna traccia. Ed è qui che si inserisce Oliver Stone e l' idea di realizzare una versione dello stesso film con le forme e la progettualità della grandi produzioni mainstream.

In questo senso "Snowden" senza avere la possibilità di potersene ufficialmente fregiare partiva con le caratteristiche che lo indicavano come il remake in chiave fiction del film del 2014. La sceneggiatura scritta da Stone e da Kieran Fitzgerald in effetti recepiva l'assunto del modello offertole dal lavoro della Poitras confermandone l'impianto di base e quindi le rivelazioni a cui abbiamo fatto cenno nel precedente paragrafo e la location principale (la stanza di un hotel di Hong Kong), nella versione pensata dal regista di "Platoon" chiamata a fare da cornice ai flashback che mettono insieme la parti inedite, quelle che per forza di cose non potevano essere incluse nel documentario della Poitras. Stiamo parlando degli inserti narrativi che consentono allo spettatore di passare in rassegna il quadro completo degli aspetti pubblici e privati attribuiti al personaggio e che hanno come estremi da una parte il mancato arruolamento nei corpi speciali dell'esercito per motivi di salute e la conseguente annessione nei ranghi della Cia che gli permette di farsi strada nella comunità intelligence nazionale, dall'altra il passaggio alla società di consulenza che supportava la National Security Agency.


Apprendiamo cosi che la goccia che fa traboccare il vaso, convincendo Snowden a entrare nella clandestinità non è tanto il sistema messo a punto dai suoi datori di lavoro, moralmente discutibile ma necessario per tutelare il paese da eventuali attacchi esterni non preventivati, quanto piuttosto il fatto che ad essere vittima della raccolta segreta di informazioni da parte dei servizi segreti americani non siano solo i governi delle nazioni avversarie o quelli in carica nelle aree di possibile ingerenza ma anche l'intera comunità dei cittadini statunitensi. In questo ambito è del tutto inedita dal punto di vista cinematografico il ruolo di Lindsay Mills (interpretata da Shailene Woodley) la fidanzata di Snowden che oltre a sostenere l'uomo per tutto il corso della sua articolata e drammatica esperienza fornisce al film di Stone la possibilità di dotarsi di un filone sentimentale che insieme a quello spionistico rappresentato dalle azioni poste in essere dal protagonista per l'assolvimento dei suoi compiti consentono al film di cambiare pelle assumendo le sembianze del cinema d'azione. 

Un po' per mancanza di soldi - trovati in Europa e non negli States - un po' perché il linguaggio tecnico e le spiegazioni di Snowden sarebbero difficile da comprendere per i non addetti ai lavori senza un minimo di mediazione, lo "Snowden" di Stone tende alla semplificazione, allestendo uno spy movie anomalo per la mancanza di sparatorie, esplosioni, inseguimenti ed effetti speciali che normalmente fanno da corredo all'esposizione delle grandi teorie complottistiche. Valorizzato dal mimetismo attoriale di Joseph Gordon-Levitt "Snowden" è il film di un regista che supplisce con il mestiere al venir meno dell'antica energia.

(pubblicata su ondacinema.it)

martedì, novembre 22, 2016

THE ZERO THEOREM - TUTTO E' VANITA'

The zero theorem
di, Terry Gilliam
con,  Christopher Waltz, Melanie tThierry, David Thewlis, Tilda Swinton, Matt Damon
USA/GB,Romania/Francia 2013 
durata, 107'



Autentico don quixote, l'altro Terry (essendo l'uno, volendo, Malick), mastro Gilliam, con sardonica negligenza s'applica, in questo teorema zero - sul cui misterioso profilo di opera solo fuggevolmente apparsa si sono depositati gl'invece infiniti granelli della polvere di tre anni - ad un intreccio (per lui) sin troppo familiare. Ossia la prepotenza coercitiva di un potere (nel caso, la Direzione suprema e sfuggente della Mancom, super-dittatura globale), tanto più brutale nelle pretese quanto di base ottuso, che si esercita sull'esistenza/inconsistenza già grama di un solitario, fobico, genialoide e malinconico a nome Qohen Leth/Waltz (patronimico evocativo al punto da suonare più come una sentenza che come una stranezza), chiamato a misurarsi col fondo mai del tutto abraso dell'umana disperazione - a dire il-senso-della-vita - nella forma dello spericolato, ingenuo e grottesco "Zero Theorem" del titolo, rappresentato (con gustosa cattiveria) da un'animazione digitale con cui il protagonista interagisce ricostruendo laboriosamente, in foggia di minuscoli cubi solcati da simboli matematici via via incastrati in opportuni vani su pareti di un fantasmagorico edificio a metà fra il nastro di Möbius, le spirali proteiche e le strutture ricorsive di Escher, quella che dovrebbe essere nientemeno che la forma definitiva dell'Equazione-Mondo, come se non bastasse un singolo inserimento sballato per far crollare intere sezioni dell'insieme, distruggendo giorni di feroce applicazione e cristallizzando, al tempo, la vanità di un gesto, di per sé, già così smisurato. Si aggiunga la deliziosa incoerenza del diversivo incarnato da Bainsley/Thierry (figura chissà quanto reale, chissà quanto idealizzata, inviata comunque dal Sistema per stimolare la produttività dell'incerto analista vieppiù vincolata alla trasmissione oraria di dati aggiornati) capace di strappare dai recessi di un uomo provato tremori forse mai del tutto spenti, e apparirà quasi ovvio come per Qohen Leth - di suo pure novello Estragone ossessionato da una telefonata decisiva che non arriva mai - il sussistere stesso diventi impraticabile se non al prezzo di una perentoria torsione verso il sogno/incubo di una virtualità consolatrice, degno corollario di quel vuoto interiore (non a caso identificato con un buco nero che vortica) da cui non gli riesce d'emanciparsi.



Lungi dallo splendore sarcastico e dalla rutilanza del tratto di alcuni altri suoi predecessori - da "The adventures of Baron Münchausen" a "The Fisher King"; da "Twelve Monkeys" al poco ricordato "Tideland", passando per il celeberrimo "Brazil" - "The Zero Theorem" ne diluisce l'allegra baldanza e l'estrosa originalità, lasciandone pressoché intatto l'aspetto esteriore, come se l'insolente resilienza di un universo sgangherato ma vivissimo e l'inesauribile capacità di sbozzare figure raminghe e paradossali di esiliati (innanzitutto dentro se stessi), avessero brigato - per momentanea inerzia, per il disincanto che suscita a volte il cimento corrente al baluginare improvviso di una nuova attrattiva - al fine d'imbastire un capriccioso cupio dissolvi dell'immaginazione, sì brillante eppure dispersivo, sempre alla rincorsa di ulteriori esagerazioni, teso per sua indole alla composizione di una insopprimibile irrequietezza ma incerto fra la narrazione elegiaco-favolistica e l’inappellabile dissacrazione di qualunque presunta razionalità, quasi la generosità comune ad ogni gesto del suo autore avesse incontrato una sorta di sorniona dissipazione e le avesse lasciato strada. Di  fatto, è una qual stanchezza ad emergere a mo' di tratto prevalente dalla presente galassia iper-densa e jacovittiana di Gilliam, fatta - da prassi - d'inquadrature spesso sghembe, al limite della deformazione, come che sia sature di ogni tipo di dettaglio, a conferma di quella stramba sensazione per cui "sembra che il mondo ti rida alle spalle", mentre gioca sull'illusione di star coinvolgendo. 



In questo suo bizzarro futuro che tutto sommato somiglia ad un presente persistente, per quanto distorto, Gilliam si concede ancora il raro privilegio della coesistenza: tra ieri e oggi, tra oggi e un ipotetico domani, tra modernità e tradizione, come parimenti tra realtà e ricostruzione artificiosa della stessa, in un caleidoscopio che nulla si vieta - contagiando/travolgendo anche Qohen Leth - e che chiama al girotondo stili eterocliti di mobilio giustapposto, suppellettili di-pessimo-gusto, abbozzi di un laboratorio in perenne allestimento, condutture, ingranaggi, meccanismi, strati di tomi in equilibrio precario, fogli, matite, telefoni, i soliti molteplici schermi. Per non parlare dei cavi, dei tubi, delle derivazioni, ad intersecare mucchi di cianfrusaglie, di chincaglieria, del ninnolame più stravagante. L'incognita e l'irresolutezza del film gravitano proprio attorno all'alone d'estraneità che pare avvolgere gli elementi fisici ed intellettuali di un canone espressivo che aveva sempre rilanciato sulle proprie prerogative e che forse ora di tanta continuità comincia ad avvertire l'affanno. "Il futuro è già passato. Tu dov'eri ?", annuncia, soavemente ammonitrice, una voce femminile da un monitor gigantesco. Medesimo interrogativo deve essersi posto Gilliam, concedendo a Qohen Leth (e a se stesso) un istante di tregua in cui ritrovarsi, quella dimensione in cui diventa possibile stringere il sole - immane zero incandescente - tra le dita, prima che prosegua la sua corsa verso il tramonto.
TFK

lunedì, novembre 21, 2016

PER MIO FIGLIO

Per mio figlio
di Frederic Mermoud
con Emmanuelle Devos, Nathalie Baye
Francia, Svizzera 2016
durata, 89'


Non è così frequente ma qualche volta capita che il significato di un film si raggrumi all’interno di una singola sequenza. A Frederic Mermoud ad esempio bastano pochi minuti, il tempo necessario per organizzare l’incontro tra le protagoniste di Per mio figlio e il gioco è fatto. Alle titubanze iniziali e alla forzata concatenazione degli eventi che permettono a Diane di individuare i (presunti) colpevoli della morte del figlio subentra quasi per magia una ripresa di senso dovuta in parte ai fotogrammi scelti dal regista per avviare la resa dei conti tra vittima e carnefici.

Il tenore delle scene in questione, ambientate all’interno della profumeria, è costruito all’insegna di una frivolezza che contrasta con la tensione drammatica percepibile nello sguardo di Diane: lo scambio di battute tra lei e Marlene (“Cerca qualcosa di particolare” chiede quest’ultima a Diane che a tono risponde “No, stavo guardando le creme per le occhiaie) seguito dal primo piano sul make up a cui Diane si sottopone per giustificare le sua presenza nel negozio, da una parte, rimandano alla “ricerca” che permette alla donna di individuare le sue prede e, ancora, al “mascheramento” che gli consente di avvicinarle senza destare alcun sospetto; dall’altra, alla duplicità narrativa che il film esprime quando, nella seconda parte, accanto alla componente thriller rappresentata dal modus operandi con cui Diane mette a punto la sua vendetta, acquista sempre maggior spazio il risvolto esistenziale della vicenda, quello che attraverso il rapporto instauratosi tra le due donne finisce per far entrare il racconto nell’intimità delle loro solitudini.

Rispetto al libro (Moka che è anche il titolo originale del lungometraggio) di Tatiana de Rosnay il regista sposta l’ambientazione da Parigi a quella porzione di provincia francese confinante con la Svizzera che nella sua vocazione frontaliera (sottolineata dagli sconfinamenti  necessari  a Diane per entrare in contatto con Marlene) contribuisce non poco a definire la dimensione di transitorietà e lo spaesamento che progressivamente, ma con una certa decisione, si impossessa delle vicende del film e dei suoi tormentati personaggi.
(pubblicata su TaxiDrivers.it)

domenica, novembre 20, 2016

LA FOTO DELLA SETTIMANA





























Quando la moglie è in vacanza (Seven Year Itch) di Billy Wilder - Usa 1955

sabato, novembre 19, 2016

AGNUS DEI

Agnus Dei
di Anne Fontaine
con Lou de Laâge, Agata Buzek, Agata Kulesza 
Francia-Polonia, 2016 
genere: drammatico
durata: 116' 


Nel 1945, Mathilde Beaulieu è una giovane dottoressa francese della Croce Rossa che vive in Polonia. Quando una suora cerca il suo aiuto, Mathilde la segue nel convento di benedettine, dove scopre che molte di loro, violentate dai soldati russi nel corso di un'irruzione, sono rimaste incinte e sono sul punto di partorire. Tenuta al segreto professionale, cui si aggiunge quello imposto dalla madre superiora e dalla situazione, Mathilde fa visita alle monache di notte, esponendosi a molti rischi. Gradualmente, riesce a superare la loro diffidenza, raggiungendo con una di loro, Suor Maria, un'intesa profonda. Anne Fontaine, che da sempre racconta storie di donne, questa volta supera la dimensione individuale per approcciare quella collettiva, non solo perché s'immerge nella vita di comunità del monastero, con la sua drammaturgia di differenti caratteri con tante motivazioni, paure e gerarchie, ma perché, sollevando il velo su una prassi di guerra tanto atroce quanto comune, parla di ciò che non può essere ignorato da nessuno, nemmeno nel nome del pudore. Lo stile di regia sembra tener presente un'ampia destinazione del messaggio: la storia intensa non si traduce mai in immagini forti, la vita della protagonista fuori dalle mura del convento è romanzata a fini narrativi e il film si chiude in maniera forse fin troppo ottimista.


La motivazione è chiara: il film è anche e soprattutto un racconto di resistenza e di superamento del male. Ispirato al diario del medico francese di stanza in Polonia Madeleine Pauliac, "Agnus Dei" trasforma la scrittura scarna e cronachistica degli appunti privati in un racconto vivo e pulsante, che trae una sorta di universalità e anche di contemporaneità dal fatto di essere ambientato in un mondo, quello del convento, in cui il tempo ha un altro passo, più lento, quasi immobile. È dunque la Polonia del 1945, ma potrebbe essere la Bosnia del 1993 o l'Africa di oggi. Divise tra l'essere donne per natura e spose di Cristo per scelta, grazie alla mediazione della discreta Mathilde, le suore trovano, col tempo, nella maternità, un'identità e una vocazione che può placare il dissidio. Parallelamente, nella collaborazione tra la religiosa Maria e l'atea Mathilde che porta alla soluzione finale, si compie una delle linee più riuscite del film, oltrepassando lo scandalo e la denuncia e parlando di relazione.
Riccardo Supino

venerdì, novembre 18, 2016

IBRAHIMOVIC - DIVENTARE LEGGENDA

Ibrahimovic - Diventare leggenda
di Fredrik e Magnus Gertten che in Ibrahimovic
Svezia, Paesi Bassi, Italia 2016
genere, documentario
durata, 100’



Nel mondo dello sport e in particolare nel football professionistico esiste il detto che per arrivare ai massimi livelli il talento da solo non basta, e che per riuscire a farcela bisogna essere campioni anche nella testa. Con qualche eccezione, a risultare costante nel pedigree dei fuoriclasse sono i crismi di un rigore che travalica il rettangolo di gioco per arrivare a toccare gli aspetti più disparati dell’esistenza umana. E se non sorprende che a fare tesoro di questa massima del calcio siano atleti come Messi e Ronaldo, in grado di convertire il proprio estro in un logo riconoscibile in ogni angolo del pianeta, si rimane spiazzati dall’apprendere che a tale categoria appartiene anche un tipo come Zlatan Ibrahimovic che ha fatto dell’eccesso e dell’intemperanza il proprio marchio di fabbrica.

A smontare la leggenda del calciatore tutto genio e sregolatezza contribuisce in parte il documentario girato dagli svedesi Fredrik e Magnus Gertten che in Ibrahimovic – Diventare leggenda costruiscono il ritratto di un fuoriclasse lontano dai soliti intenti celebrativi e invece predisposto a intercettare i fantasmi di una personalità fuori dagli schemi: perché se è vero che le doti calcistiche di “Zlatan” appaiono fin da subito cristalline è fuor di dubbio che l’affermazione delle stesse in termini di risultati è tutt’altro che indolore (complice un ‘autostima che in certi momenti lo rende inviso tanto agli avversari quanto ai compagni di squadra), nella maniera in cui si evince dalle immagini del film, intrise nelle sequenze più intime e private da un misto di fatalità e malinconia – di cui è complice lo spleen scandinavo irrorato a piene mani dalla messinscena dei registi – che riassume come meglio non si potrebbe la conflittualità del personaggio. 


Ed è proprio la capacità degli autori di trasformare gli aneddoti del resoconto sportivo negli elementi di un vero e proprio romanzo di formazione a fare di Ibrahimovic – Diventare leggenda un film universale, in grado di coinvolgere anche chi di calcio capisce poco o niente. Esemplare, in questo senso, è la scelta di trasgredire le regole del genere, optando per un biografia parziale che esaltando le potenzialità drammaturgie insite nel personaggio Ibrahimovic descrive come fosse un rito di passaggio l’ascesa di Ibrahimovic nel calcio che conta, quello che dal campionato svedese lo porta all’Ajax e successivamente alla corte della Juventus.

(pubblicato su TaxiDrivers.it)

giovedì, novembre 17, 2016

KILLER JOE

Killer Joe
di William Friedkin
con Matthew McConaughey, Juno Temple, Emile Hirsh, GIna Gershon
Usa, 2011
genere, drammatico
durata, 102'


Nella sua ultima fatica Friedkin opera un ulteriore scarto rispetto alle modalità espressive utilizzate nel suo cinema più recente. In Killer Joe, infatti, a fronte di una rappresentazione realistica dell'orrore oramai considerata invalsa, si reagisce forzando lo stile al punto di mescolare il serio al faceto, il dramma alla commedia, con esiti che ampliano lo spettro della rappresentazione in una sintesi in cui angoscia e iperrealismo prendono alternativamente il sopravvento di una scena ormai preda di un'incontrollata follia. Al centro della storia del film troviamo una famiglia di rednecks avvilita da ignoranza e mancanza di denaro. L'altra faccia di un sogno americano richiamato dall'opzione di un benessere improvviso, regalato alla famiglia Smith attraverso la possibilità di riscuotere i soldi dell'assicurazione sulla vita intestata alla madre, separata e convivente. Per forzare gli eventi in quella direzione, l'improvvisato sodalizio decide di ingaggiare un poliziotto che arrotonda lo stipendio uccidendo le persone su commissione dietro lauto pagamento. 

E' lui Killer Joe, angelo della morte freddo e sistematico fino a quando si invaghisce di Dotti, sorella un po' tarda di Chris,  il figlio che ha ideato il  piano allo scopo di recuperare in tempo utile il denaro necessario a ripagare un debito che potrebbe costargli la vita. Da quel momento tutto si complica e si distorce spingendo la storia verso una conclusione tanto drammatica quanto grottesca. Friedkin sembra avere un solo scopo: distruggere i pilastri della società americana. Per farlo azzera qualsiasi differenza all'interno del nucleo familiare attorno a cui ruota la vicenda. E lo fa in maniera diretta e senza alcun rispetto, tanto per le convenzioni sociali quanto per quelle cinematografiche, a cominciare dalla prima scena con il full frontal della matrigna di Chris (una Gina Gershon invecchiata di colpo) sbattuto in faccia al ragazzo e allo spettatore, e continuando, senza distinzioni tra genitori (biologici o acquisiti) e figli, pronti a scannarsi per il più misero tornaconto. Incesto, matricidio, tradimento, pedofilia, tutto è possibile in questo inferno a cielo aperto. Senza stato ne famiglia, con la giustizia ridotta ad utopia, l'America di Friedkin si misura nella quantità di sangue versato. Per non farsi mancare niente, e ricordandosi della lezione del collega Romero che attraverso i suoi Zombie criticava il sistema consumistico, anche Friedkin organizza il suo de profundis capitalistico con una delle sequenze più agghiaccianti ed allo stesso tempo ridicole, quella in cui il personaggio della Gershon, in un crescendo di violenza e parossismo, è costretta ad inginocchiarsi di fronte al killer ed a fargli una fellatio prendendo in bocca la coscia di pollo fritto, tra i simboli di consumo più tipici del quotidiano a stelle e strisce, maneggiato come fosse un vero fallo. Quel pollo fritto, usato e poi gettato con disprezzo, è il crollo di ogni parvenza di efficienza e prosperità perchè tutto è destinato ad essere travolto dalla furia di un'umanità disperata. L'America non esiste più, inghiottita dentro l'oscurità della dissolvenza che chiude il film con il primo piano della pistola sul punto di far partire il proiettile che mette fine al gioco. Alle prese con una storia di disfunzioni e di paura, Friedkin non esita a fare del suo film una vera e propria apoteosi della carne offerta come esposizione in bella vista di corpi trascurati - date un'occhiata alle forme voluttuosamente imperfette di Juno Temple o a quelle rifatte e allentate di Gina Gershon per farvene un' idea - oppure conseguenza delle sevizie e della violenze subite che, nel caso di Chris (Emil Hirsh) malmenato e tumefatto diventano cartina di tornasole di una corruzione che distrugge l'individuo in senso fisico.
 


In alternativa, il regista contempla, seppur con un sorriso ghignante, taluni momenti di romantica sublimazione nella relazione tra Joe e Dotti, in cui lo slancio sentimentale e rarefatto vira spesso verso implicazioni pragmatiche, basti pensare al primo incontro dove la cena a lume di candela diventa il preliminare di un peepshow culminato in un inatteso amplesso. Scelta, questa, rafforzata dalla presenza costante di elementi naturali come l'acqua (nella prima parte del film la pioggia fa da sfondo alle azioni dei personaggi), e il fuoco, oppure ancestrali come il sogno e la pulsione - incestuosa quella di Chris nei confronti della sorella, amorale quella di Joe nei confronti della ragazzina - a ricordarci che Killer Joe è un esplosione irrazionale di istinti primordiali. 





Se la parte centrale dell'opera è quella meno efficace, con uno sviluppo fin troppo ordinario e qualche passaggio affrettato - la sottotrama relativa all'ultimatum dei creditori nei confronti di Chris viene abbandonata senza nessuna conseguenza - a rimanere in mente è quello che succede prima e dopo, in cui Friedkin pare rendere merito ad un cinema che mette insieme Lynch (nella prima parte, quella dedicata alla presentazione dei personaggi e della storia) e Tarantino (nella parte conclusiva), quella della resa dei conti. Presentato in concorso nell'edizione 2011 del Festival di Venezia, Killer Joe conferma il tratto distintivo di un regista la cui manifesta insoddisfazione verso la presunta normalità delle cose consegna a un itinerario ben lungi dal dirsi concluso.
(http://www.ondacinema.it/monografie/scheda/william_friedkin.html)

mercoledì, novembre 16, 2016

VENEZIA 73: ANIMALI NOTTURNI

Animali notturni
di Tom Ford
con Amy Adams, Jake Gyllenhall
USA, 2016
genere, thriller, drammatico
durata, 



Se voleva trovare un modo per rendere indimenticabile la sua entrata in scena alla Mostra di Venezia, Tom Ford non poteva aprire il suo film in un modo migliore. La sequenza iniziale è a dir poco spiazzante perché di fronte a noi, in un crescendo di pose, ammiccamenti e nudità integrali, si esibiscono una dietro l'altra alcune modelle che farebbero la felicità di un regista come Ulrich Seidl, già apprezzato estimatore di nudità extralarge nel famigerato e ai tempi scandaloso "Canicola".  Qui però, a fare la differenza con il lungometraggio del regista austriaco, e quindi a risultare sorprendente invece che osceno, sono le aspettative create da "Animali notturni" che si annunciava provvisto di una confezione che faceva del mistero e di un'estetica bella e raffinata i suoi riconosciuti punti di forza. Detto che preferiamo lasciare il lettore con il dubbio a proposito della maniera in cui si evolve il finale della scena a cui abbiamo appena accennato, ci sembra importante evidenziare come tale inizio sia la firma di un regista che dimostra di saper aggiungere al mezzo cinematografico le invenzioni e la fantasia che ne contraddistinguono il lavoro nel campo della moda. Il cortocircuito tra le facce opposte della stessa medaglia presente in quei primi fotogrammi, e quindi l'accostamento tra il corpo esibito e opulento delle voluminose donzelle, fa il paio con la bellezza levigata e accuratamente vestita di Susan, la gallerista ricca e avvenente interpretata dalla bravissima Amy Adams stabilendo il leitmotiv visuale ed emotivo che ritroveremo per tutta la durata del racconto.


Perché "Animali notturni" è un film letteralmente scisso nella duplice personalità dei suoi personaggi e, ora possiamo dirlo, della costruzione narrativa prevista da Ford. Il quale, partendo dal libro che Susan riceve da Edward (Jake Gyllenhaal), scrittore ed ex marito, mette in scena un gioco di specchi che funziona come vaso comunicante tra le vicende narrate all'interno del romanzo (intitolato "Animali notturni") e quelle divise tra passato e presente che appartengono alla vita della donna. Ma non solo, poiché all'educazione, al bon ton, ai modi aristocratici del mondo in cui vive Susan e soprattutto alla condizione di subordinazione nei confronti della vita (e del nuovo marito) a cui la donna si è legata, "Animali notturni" fa corrispondere un universo violento ed estremo in cui caos e irrazionalità sostituiscono la morale vittoriana che regola la quotidianità del mondo reale. In questa maniera la lettura del libro e la visualizzazione dei fatti di violenza ivi raccontati diventano: da una parte, la benzina per sbaragliare la distanza che Susan ha messo tra lei e ciò che la circonda, gettandola in un tourbillon di sentimenti contrastanti; dall'altra, la chiave per innestare un processo di scoperta e disvelamento che porterà a galla la vera natura delle cose e dei personaggi.

Caratterizzato da una fotografia che alterna le esplosioni di luce del deserto texano,  dove si colloca l'ambientazione del romanzo di Edward, alle ombre in cui sono immersi gli interni della villa di Susan, "Animali notturni" è un thriller a più strati che riesce a tenere alta la tensione dello spettatore sia quando inscena squarci di inaudita brutalità (che si compiono nella pagina scritta che Susan sta leggendo), sia quando si tratta di farla vedere attraverso i non detti e gli enigmi a cui si espone la condotta di Susan. Ford lambisce David Lynch e nel frattempo si guadagna la propria identità con un'opera di sicuro valore.
(pubblicato su ondacinema.it/73 festival del cinema d Venezia)

martedì, novembre 15, 2016

CHE VUOI CHE SIA

Che vuoi che sia
di Edoardo Leo
con Edoardo Leo, Anna Foglietta, Rocco Papaleo, Marina Massironi
Italia, 2016
genere, commedia
durata, 105'


Dopo un'attività di lungo corso che lo ha visto praticare senza particolare successo le vie più tradizionali del cinema e della televisione la carriera di Edoardo Leo ha ricevuto una svolta in senso positivo con la partecipazione in veste d'attore a film come "Smetto quando voglio", girato da Sidney Sibilla nel 2014, e di "Perfetti sconosciuti" uscito nel corso di questa stagione, che, nel panorama sempre più paludato della commedia italiana, e, in generale nell'ambito della produzione spiccatamente commerciale, rappresentano una tipologia di lungometraggio capace di mettere insieme idee e intrattenimento con una buona dose di originalità. Consapevole del momento favorevole Leo, con intelligenza e senza strafare aveva approfittato dell' improvvisa popolarità per realizzare a cavallo dei lavori appena menzionati "Noi e la Giulia - di cui era regista e interprete - che senza essere all'altezza dei titoli appena citati era stato comunque in grado di fare sue la voglia di fuga e la complicità tutta al maschile che erano state il tratto dominante dei primi lavori di Gabriele Salvatores. Con la particolarità che questo film alla pari degli altri avevano come comune denominatore il fatto di essere storie corali in cui a contare non era il protagonismo delle singole parti ma piuttosto il risultato di uno sforzo condiviso ed equamente distribuito tra i singoli attori.



Cosa che in effetti non succede in "Che vuoi che sia" dove Leo nel ruolo di un ingegnere informatico che sbarca il lunario riparando i computer infettati di clienti abbonati ai siti pornografici divide la scena con la sola Anna Foglietta, arruolata per l'occasione nella parte della compagna, insegnante scolastica desiderosa di passare di ruolo per avere la sicurezza economica necessaria all'arrivo. In "Che vuoi che sia" infatti i protagonisti dominano la vicenda sia come calamite dell'umanità che si aggira nei dintorni del loro raggio d'azione, sia come propulsori del desiderio scatenatosi allorquando la coppia decide di realizzare il filmino a luci rosse che gli consentirà di intascare i soldi elargiti dalle migliaia di generosi che dopo aver aderito al relativo crowfunding non vedono l'ora di vederli all'opera in camera da letto. Lontanamente ispirato a "Proposta indecente" di Adrian Lyne (1993) "Che vuoi che sia" sposta l'interesse dal corpo divistico degli attori che era stato al centro del lungometraggio del regista inglese a una critica aperta e in qualche caso anche corrosiva contro la dittatura del mezzo tecnologico, o meglio ancora nei confronti dell'uso ossessivo e indiscriminato che si fa dei vari social, dei siti hard e di ogni tipo di applicazione. In questo senso il film di Leo sembra più vicino al già citato "Perfetti sconosciuti", al quale lo accomuna il rovesciamento di senso attribuito a uno strumento di uso domestico (li era il cellulare qui sono la rete e il relativo terminale) e le conseguenze da esso provocate all'interno delle coppia, messa in discussione da un tradimento che, paradossalmente (ma fino ad un certo punto visto che parliamo di una fruizione del reale del tutto virtuale) nel caso di Claudio e Anna è più ideale che pratico.


Detto che le simpatiche partecipazioni di Rocco Papaleo nella parte dello zio di Anna e di Marina Massironi in quella della di lui moglie non vanno oltre lo sketch televisivo e che l'ambientazione milanese preferita a quella capitolina appare in sintonia con l'effervescenza imprenditoriale che ruota attorno alla vicissitudini dei protagonisti e con il gusto avveniristico segnalato dalla presenza di inserti ricavati dall'allestimento di mosaici digitali, "Che vuoi che sia" è un prodotto che pur in assenza di particolari sbavature non riesce ad avere il peso specifico di cui vorrebbe dotarsi. A provocarne la causa secondo chi scrive sono, in ordine d'importanza: la scelta di un espediente narrativo che non riesce a trovare nel vojeurismo sessuale la pietra dello scandalo capace di giustificare agli occhi dello spettatore cotanta riluttanza da parte dei protagonisti; e, subito dopo, la vena a dir poco dimessa del di Leo attore che, nella parte di Claudio, non riesce neanche per un momento a indossare i panni del mattatore. Con buona pace dell'attore che, siamo sicuri, avrà modo di rifarsi nei due sequel del film diretto da Sibilla che lo vedranno ancora una volta tra i partecipanti.
(pubblicato su ondacinema.it)