Gettare via un film facendolo precedere da una quindicina di trailer ha un preciso significato. Un significato che si può riassumere in una sola parola: Disney.
Ente quasi monopolistico della cinematografia e dell’intrattenimento di massa, poligambista in settori bancari, aeronautici, di trasporto, la Disney si configura come uno dei tanti “loro” o “gli altri” nel tipico spiegone di Jerry in Ipotesi di complotto. Come è noto, “Loro” hanno comprato i diritti sugli X-Men.
Finora tenuti accuratamente separati dagli Avengers per ragioni di diritti e business (al punto da dover uccidere almeno uno dei due Quicksilver), Endgame aveva però sparigliato il mazzo di carte, lasciando presagire un inevitabile travaso di X-Men nel filone Avengers, ormai in fase di esaurimento. Fusione che non appare tanto una somministrazione di sacche di sangue fresco, quanto una semplice convenienza di produzione.
McAvoy e Fassbender, da attori di spessore, ma soprattutto non americani ma neanche british (come invece Hiddleston), hanno dichiarato di non essere interessati all’entrata nel DisneymaticUniverse, dove probabilmente i loro personaggi sarebbero stati presi, frullati, reimpastati, ritagliati con lo stampino e infornati come biscotti (Jerry dixit, A.D. 1997). Come Cap e Tony Stark, sarebbero stati anche loro accoppiati con femmine della specie, sarebbero divenuti padri di famiglia, avrebbero giocato con i pargoli, festeggiato il Tacchino Day.
La “ics” sarebbe stata posta sul bromance Charles-Erik, e con esso il perno di ciò che gli X-Men hanno rappresentato nel corso di vent’anni: che la diversità non è tutta questa gran gioia che dicono.
Opposto polare degli Avengers, gli X-Men vivono la loro diversità con fatica, sopportazione, angoscia. Non è un dono, un superpotere che viene dal morso di un ragno o da un bombardamento di raggi gamma, ma da qualche base azotata che si ricombina a casaccio, facendoti diventare blu, o grosso e peloso. È una diversità “brutta”, da tenere nascosta, è pericolosa, a volte ti uccide. La Mystica di Jennifer Lawrence in questo senso è la più sincera espressione degli X-Men: dotata di una mutazione potente ma spaventosa, dice a Xavier che è facile essere “mutanti e orgogliosi” se la società non se ne accorge. “Mutant and proud” è un chiaro e diretto riferimento all’orgoglio gay, e lo stesso McKellen, convocato per essere un attivista, ha dichiarato di aver accettato il ruolo perché propostogli da un regista notoriamente bisessuale (ma forse non troppo attento ai diritti dei minori).
Gli X-Men sono tra noi, si nascondono, non usano il loro potere, non difendono l’umanità, pensano semmai a difendersi da essa. Quando fanno coming out in famiglia i genitori sono pronti a dirgli che ci sarà pure una cura. I fratelli lesti a denunciarli. Non sono supereroi a caccia di villain per far consumo vistoso dei loro superpoteri, sono persone in fuga dalla società e spesso da sé stesse, dai loro ricordi, dalla loro vera natura. Sono i “sacrificabili” della società.
In questo senso non stupisca che l’unico Avenger amato dal fandom degli X-Men sia Loki, il figlio reietto, il dissidente, l’eversivo, l’emarginato, il rifiutato. Un peccato che per Hulk la Marvel abbia deciso altrimenti, ma anche Bruce Banner è un ramingo, un fuggiasco. I più anziani ricorderanno la serie con Bill Bixby, in cui Banner è un vagabondo e Hulk stesso non è una bestia da guerra, un’arma da scatenare contro il nemico, ma una creatura spaventata che si difende per come può.
Un film come Dark Phoenix non può essere esente da questo tipo di lettura sociale, più che tecnica. Nonostante frutto di ritardi, arrangiamenti, postproduzioni, tagli, rielaborazioni, il film esce pulito e onesto. Niente di particolare, un plot di partenza molto simile a un tipo di cinematografia ormai vintage, ma nulla da invidiare ad altri film di action-hero. Se una Chastain non perde un attimo della sua altezzosa perfezione recitativa, disturbano una Turner indubitabilmente talentuosa ma fuori ruolo, un McAvoy a cui troppo spesso sfugge la Patricia di Glass e Split, una Mysticad all’appearance rielaborato per essere più “gradevole”. La brevità de l film toglie ricchezza a ottimi spunti, come la polemica di Mystica e Bestia sul comportamento di Charles, la comunità di Magneto autoreclusa in una sorta di riserva indiana, in cui il concetto di esclusione sociale è ambivalente e reciproco, polarizzazione con uno Xavier perfettamente integrato: linea diretta col presidente USA e applausi alle conferenze. Se per questa integrazione forzata i suoi X-Men devono indossare belle tutine, sorridere e salutare, morire se necessario, ça va bien quandmê me.
Tutte le sofferenze di Dark Phoenix sono ascrivibili a una produzione che Jerry definirebbe boicottata dal business cinematografico: l’attesa di Capitain Marvel e di Endgame, l’adattarsi a quelli che si sapeva sarebbero stati due blockbuster,riprese durante le pause di altri film (non stupisce l’emergere di Patricia), scene completamente rigirate (dov’è finito Fassbendersulla sedia a rotelle?), il tenere a freno personaggi come Magneto, Fenice Nera, Mystica –potenzialmente superiori a molti Avengers, la consapevolezza di dover chiudere una saga per non finire nello stritolante e zuccheroso abbraccio Disney. Stanti così le cose, il film risulta non solo onesto, ma finanche ben fatto e privo di sbavature: questo vuol dire una sola cosa, aver voluto bene a un progetto cinematografico, averci messo testa e cuore, tempo, sacrificio e cervello.
Il finale accontenta chi ha molto creduto nel bromance Ch-Erik, chi l’ha molto amato e sostenuto. E possiamo dire che se questo film s’è girato, nonostante gli ostacoli che si è trovato per strada, è proprio per i fandom degli X-Men e di Ch-Erik. Quello zoccolo duro, molto più adulto dei “groot” innamorati degli Avengers, che sostiene un film per i suoi contenuti, per affetto nei confronti dei personaggi.
Emarginati nei fumetti, gli X-Men si ritrovano emarginati anche nella loro trasposizione cinematografica da una major che si dirige a un pubblico di “famiglie naturali”. Ma se con Endgame la Disney ha sbattuto le porte in faccia al fandom gay, con X-Men-Dark Phoenix la soddisfazione è stata quella di sbattere la porta in faccia alla Disney, semplicemente chiudendo il ciclo e andandosene, lasciando coerenza e sincero affetto per i personaggi.
Lidia Zitara