martedì, settembre 26, 2023

ASSASSINIO A VENEZIA

Assassinio a Venezia

di Kenneth Branagh

con Kenneth Branagh, Kelly Reilly, Michelle Yeoh

USA, 2023

genere: giallo, thriller

durata: 103’

Le atmosfere più cupe, scure, a tratti orrorifiche del nuovo capitolo dell’Hercule Poirot di Kenneth Branagh non spengono l’entusiasmo per l’ennesimo riuscito giallo alla Agatha Christie.

Il regista inglese torna a dirigere e impersonare il celebre detective, ma stavolta lo fa in terra italiana, più precisamente a Venezia.

Poirot, “sorvegliato” continuamente da una guardia del corpo da lui stesso assoldata (un Riccardo Scamarcio che cerca di mimetizzarsi accanto agli attori internazionali), si vede costretto a interrompere la sua quotidiana routine per seguire un caso suggeritogli da una sua vecchia amica e scrittrice di gialli, alla ricerca di nuovi spunti per i suoi romanzi. Il detective partecipa, quindi, a una festa di Halloween al palazzo dell’ex cantante lirica Rowena Drake. La festa viene, però, scombussolata da un’infermiera medium che cerca di mettere in contatto Rowena con la figlia defunta precedentemente. A Poirot lo spettacolo non va a genio e lo smaschera subito salvo poi scoprire l’assassinio della medium stessa e trovarsi costretto a indagare su questo, sul delitto che ruota attorno alla figlia di Rowena, apparentemente morta suicida, e a molto altro ancora.

Come anche nei precedenti capitoli, la storia, più che efficace, creata dalla penna di Agatha Christie, si va a fondere perfettamente con la struttura del film. Branagh, anche in questo caso, riesce a conferire la giusta dose di mistero ed enigma. Continua a non essere tutto chiaro e semplice fin dall’inizio, anzi anche noi procediamo per deduzioni insieme al detective. Quasi preso alla sprovvista dalle strane reazioni che il suo corpo ha, Poirot sembra perso e appare, inizialmente, quasi come sconfitto e sopraffatto dal susseguirsi degli eventi. Vorrebbe agire in un certo modo, ma il suo corpo sembra opporsi e andare sempre nella direzione opposta.

Geniali, e in pieno stile con il personaggio, alcune trovate, come quella di dare un background autentico a tutti i personaggi, ma soprattutto quella di contrapporre all’oggettività delle indagini e delle soluzioni (corredate da prove concrete) la religione e tutto il “mistero” che essa porta con sé da secoli. Una “differenza” resa in maniera evidente dalla seduta della medium che cerca di far credere di poter davvero contattare le persone defunte, ma che viene frenata dall’astuzia e dall’intelligenza del detective. Quello che il personaggio di Joyce Reynolds, la medium, sembra affermare è che il soprannaturale esiste e, “strizzando l’occhio” a Poirot che non sempre per risolvere un caso ci si deve affidare a delle indagini, delle supposizioni e delle prove concrete.

Il rapporto tra concreto e astratto fa, quindi, comunque un po’ da fil rouge per l’intera vicenda, tornando prepotentemente alla ribalta nel momento in cui Poirot cerca la soluzione, “combattendo” con ciò che vede, sente e prova.

Una soluzione quella a cui ci conduce il detective che, rispetto ai precedenti capitoli, sembra fare più fatica a emergere anche a causa dei variegati personaggi coinvolti. Come nei più classici gialli, tutti hanno sempre qualcosa da nascondere e qui, ancora più che negli altri due capitoli, non siamo in grado di fidarci di nessuno. Come il protagonista, anche noi, fin dall’inizio, oltre a tentare di risolvere il caso, cerchiamo di individuare quella persona sulla quale poter contare e della quale fidarci. Persona assente in questo terzo capitolo nel quale il riferimento unico sembra essere Poirot.

Infine ad alimentare un giallo che altrimenti avrebbe avuto troppi richiami e similitudini con tanti altri ci pensano alcuni momenti più “spaventosi” che, mescolati a un sapiente uso di luci e ombre, creano la giusta atmosfera per un’indagine.

Perché Halloween e delitto vanno spesso a braccetto sul grande schermo. E Branagh prova a sfruttare proprio questa perfetta equazione.


Veronica Ranocchi

lunedì, settembre 25, 2023

JEANNE DU BARRY - LA FAVORITA DEL RE

Jeanne du Barry – La favorita del re

di Maïwenn

con Johnny Depp, Maïwenn, Benjamin Lavernhe

Francia, 2023

genere: biografico, drammatico, storico

durata: 113’

Una storia di corte a Corte. “Jeanne du Barry – La favorita del re” ha aperto il Festival di Cannes 2023 permettendo a Johnny Depp di riprendersi il centro del red carpet dopo il processo con la ex moglie. Acclamato come un re, sembra che, con questo film la realtà voglia abbracciare la finzione, dal momento che l’attore presta il volto proprio a un sovrano, più precisamente Luigi XV. Ma, ciononostante, non è lui al centro della vicenda, ma, come anticipato dal titolo, la favorita del re, Jeanne du Barry, appunto, interpretata da Maïwenn, qui nella veste anche di regista.

Di umili origini Jeanne du Barry, sfruttando fascino e intelligenza, riesce a scalare i ranghi della società, facendosi notare dal re in persona che ne richiede la compagnia, inizialmente in segreto. Col tempo lei si affeziona al re in un sentimento condiviso e reciproco, tanto che quest’ultimo, una volta morta la regina consorte, fa sposare Jeanne con il Conte du Barry, per farla salire di rango sociale, invitando poi lei, il marito e il figlio di lui a vivere a Corte.

Se quindi Jeanne diventa a tutti gli effetti la favorita del re, dall’altra parte viene, però, “ostacolata” dalle figlie del sovrano e da tutti coloro che non la ritengono all’altezza a causa delle sue umili origini. Una scalata sociale non completamente riuscita, anche a causa di circostanze non sempre favorevoli.

Quella compiuta da Jeanne du Barry è anche una presa di posizione più che all’avanguardia per l’epoca. Anche se si può leggere il film come orientato a mettere in risalto l’aspetto più frivolo e “carnale”, in realtà ciò che fa Jeanne du Barry è usare a suo vantaggio l’intelligenza e l’astuzia.

Descritta agli occhi di tutti come la giovane di umili origini non degna di stare a fianco del re, in realtà lei dimostra più volte e in più occasioni di essere superiore, per conoscenza, al sovrano e a gran parte delle persone che l’avrebbero voluta lontano da Corte.

Il punto a sfavore in questo da parte della regista è il non essere riuscita a valorizzare appieno questo aspetto che, invece, tra situazioni quasi al limite dell’assurdo, e personaggi fin troppo caricaturali, risulta troppo leggero e non fa comprendere al pubblico più mainstream la forza di una donna che nel XVIII secolo si fa carico di tutto e porta sulle spalle il peso di una personalità scomoda e ingombrante, ma sicuramente all’avanguardia.

Dai modi di fare all’approccio con le persone, Jeanne du Barry si distingue e si fa notare non soltanto per essere arrivata a corte “all’improvviso”. Nonostante molti non la ritengano degna di ricoprire il nuovo ruolo, lei riesce ad andare oltre e imporre, in maniera indiretta e involontaria, un proprio stile di vita. Non è più solo la favorita del re, ma diventa la favorita anche di chi la osserva e, proprio in quanto osservatore esterno, vorrebbe poter intervenire a dare una mano.

Tra risate e serietà, Maïwenn impone il proprio ritmo alla narrazione, così come il personaggio da lei interpretato detta le nuove regole di corte, permettendo al film di trattare svariati temi, compreso anche quello del razzismo in una scena che, senza prendersi troppo sul serio, descrive perfettamente una situazione non così distante nel tempo.

Senza cadere in volgarità e banalizzazioni Maïwenn tratteggia una donna che potrebbe tranquillamente vivere nel 2023.

Un film che fa salire nuovamente alla ribalta Johnny Depp, innalzandolo al ruolo di re, ma che al contempo ne fa un burattino nelle mani di una donna libera e pensante, capace anche di vestirsi da uomo e rompere le regole rigide imposte dal Regno.


Veronica Ranocchi

giovedì, settembre 21, 2023

LUBO

Lubo

di Giorgio Diritti

con Franz Rogowski, Valentina Bellé, Joel Basman

Italia, Germania, 2023

genere: storico, drammatico

durata: 181’

Presentato all’80esima edizione della mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Lubo è uno dei film italiani in concorso, diretto da Giorgio Diritti.

Il film, prodotto da Indiana Production, Aranciafilm, Rai Cinema, hugofilm features, Proxima Milano, è distribuito da 01 Distribution.

Lubo è un nomade, un artista di strada che nel 1939 viene chiamato nell’esercito elvetico a difendere i confini nazionali dal rischio di un’invasione tedesca. Poco tempo dopo scopre che sua moglie è morta nel tentativo di impedire ai gendarmi di portare via i loro tre figli piccoli, che, in quanto Jenisch, sono stati strappati alla famiglia, secondo il programma di rieducazione nazionale per i bambini di strada (Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse). Lubo sa che non avrà più pace fino a quando non avrà ritrovato i suoi figli e ottenuto giustizia per la sua storia e per quella di tutti i diversi come lui. (Fonte: La Biennale)

Un giro (quasi) a vuoto quello che fa Lubo alla disperata ricerca dei propri figli. Ma in realtà una ricerca che va oltre e che va a scavare nell’identità di chiunque, anche nella giustizia.

Forse una lunghezza non del tutto necessaria per raccontare, anche con dovizia di particolari, la vicenda che colpisce Lubo Moser, così come tanti altri, costretti a vedersi sottratti i propri cari e le proprie libertà.

Un artista di strada e, quindi, un’anima destinata a non rimanere confinata in un luogo e in una vita e soprattutto a non seguire rigidamente e meccanicamente delle regole. Da qui parte il racconto di Giorgio Diritti, mostrando una famiglia di artisti che si esibisce, tra musica, colori, applausi e tanto apprezzamento da parte del pubblico. Un tono, sia visivo che sonoro, destinato, però, a cambiate radicalmente già nella sequenza immediatamente successiva con prevalenza di toni scuri e cupi che a malapena fanno vedere i personaggi e le loro azioni. Si fa fatica a riconoscere lo stesso Lubo nel bosco, così come le sue azioni e tutto ciò di cui si impossessa.

Le ombre che si susseguono sullo schermo sono le ombre che lo stesso Lubo porta con sé. Prima ci sono quelle metaforiche a sottolineare la perdita della moglie (e dei figli) e la perdita di quella che è ed era la sua ragione.

Poi, nel momento in cui comincia a elaborare la situazione e capire come poter agire, la scena inizia a farsi più chiara e nitida. Anche lo spettatore si accende con lui e comincia a comprendere le ragioni del suo comportamento, salvo poi perdersi nuovamente in una ricerca quasi vana.

Lo scopo principale di Lubo sembra venire meno dopo i primi momenti, quando lui decide di compiere un viaggio troppo largo per raggiungere il proprio obiettivo. Inesorabilmente passa in secondo piano la sua volontà e, giunti alla metà del film, viene da interrogarsi sull’intento perseguito.

Ad accompagnare la ricerca, oltre all’uso simbolico di luci e ombre, ci sono naturalmente la musica e i suoni. Molto silenzio accompagna le azioni del protagonista, soprattutto le più crudeli (ma non per forza violente), rotto spesso da urla o suoni naturali.

E poi c’è il valore simbolico (e quasi catartico) della musica, in modo specifico quella creata da Lubo. In quanto artista, la musica è uno dei suoi elementi e a lei si affida nei momenti più bui. In un primo momento quando deve arruolarsi, rimasto solo e privato di tutto e di tutti trova conforto soltanto nel suo strumento. E sempre lo strumento è ciò che lo rende libero, nonostante la privazione della libertà stessa. Quel momento, seppur breve, che gli viene concesso per dare libero sfogo alla propria musica e, quindi, alla propria arte è motivo di ritrovamento. È stato privato di tutto, non è riuscito a ottenere niente e si è reso conto che la giustizia, invece di aiutarlo, lo ha accusato. L’unica cosa che gli resta è, quindi, la musica. La sua ancora di salvezza.

Su una questione ci interroga il film di Giorgio Diritti: qual è la giustizia? Esiste davvero? La vita e le vicissitudini di Lubo sembrano dire il contrario. Ma sta allo spettatore andare a fondo e capire il vero motivo di questa spasmodica ricerca di un giusto e di uno sbagliato. Da che parte stare? Anche gli esiti, simili eppure così diversi, delle famiglie e dei figli del protagonista sembrano voler sottolineare questa riflessione.

Se la sorte dei primi è in balia del destino e diviene poi palese solo a posteriori, quella dei secondi è più nascosta e dilatata nel tempo. E, quindi, a Lubo non resta che sacrificare i propri ideali per sperare di ottenere quello che ha sempre cercato in vita. Una vita trascorsa tra silenzi e sofferenze, negli anni, indicati dalle didascalie che diventano necessarie per comprendere uno scorrere del tempo visivamente assente.

Ultimo dettaglio da non trascurare la precisione e l’attenzione linguistica che Diritti riserva al film e al protagonista. Oltre a spostarsi geograficamente, il film si sposta anche culturalmente e lo fa facendo parlare lo stesso Lubo in lingue diverse. Se inizialmente ci viene presentato utilizzando il tedesco e lo jenisch, successivamente inizia a parlare in italiano. Non soltanto l’abile Franz Rogowski si cala completamente nel personaggio, ma anche lo stesso Lubo, come una sorta di camaleonte, assorbe tutto quello che lo circonda e cerca di mimetizzarsi nella realtà in cui si trova (costretto) a vivere. Rimasto solo, e nomade per natura, cerca di adattarsi al meglio. E lo fa partendo proprio dalla lingua.

Una vendetta studiata in ogni, fin troppo minimo, dettaglio.


Veronica Ranocchi

(recensione pubblicata su taxidrivers.it)

mercoledì, settembre 20, 2023

IO CAPITANO

Io capitano

di Matteo Garrone

con Seydou Sarr, Moustapha Fall, Issaka Sawagodo, Hichem Yacoubi

Italia, Belgio, 2023

genere: drammatico

durata: 121’

Presentato in concorso all’80esima edizione della mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Io capitano è il nuovo film di Matteo Garrone.

Il film, prodotto da Archimede, Rai Cinema, Tarantula, Pathé FIlms, sarà distribuito da 01 Distribution.

Un racconto, tematicamente e visivamente, potente.

Io Capitano racconta il viaggio avventuroso di Seydou e Moussa, due giovani che lasciano Dakar per raggiungere l’Europa. Un’Odissea contemporanea attraverso le insidie del deserto, gli orrori dei centri di detenzione in Libia e i pericoli del mare. (Fonte: La Biennale)

Un tema impegnato e impegnativo quello scelto da Garrone per il suo nuovo film che, per certi versi, sembra tornare alle origini con aspetti che richiamano i suoi primi lavori. Se, in qualche modo, la presenza di Ospiti e Terra di mezzo si vede e si sente, è altrettanto evidente lo scenario dei film più recenti.

Io capitano è il mix perfetto della poetica di un Matteo Garrone in splendida forma, a metà strada tra il documentario e la finzione.

Seydou e Moussa sono due personaggi qualunque, non sono gli eroi, né hanno particolarità che possano renderli tali. Anzi, sono gli emarginati, quelli che hanno bisogno di aiuto e che, per questo, lo ricercano autonomamente. Un po’ come il Marcello di Dogman e anche lo stesso Pinocchio.

Per sapere qualcosa della loro vita quotidiana e familiare al regista bastano pochi istanti: una condizione quasi inconcepibile per l’Occidente che fa scattare subito il senso di protezione nei loro confronti. I bei colori e i canti del posto, mescolati ai sorrisi dei vicini e ai giochi delle sorelline sono, in realtà, velati di tristezza. Una tristezza che i due pensano di poter fermare.

Seydou e Moussa sono cugini. Inseparabili e dipendenti l’uno dall’altro, decidono insieme di partire per questo viaggio, un’Odissea contemporanea che li metterà di fronte a tanti pericoli e ostacoli. Ciononostante, al di là dell’importante forza di volontà e della profonda fiducia l’uno nell’altro, il film di Garrone ha come scopo anche quello di mantenere sempre accesa la luce della speranza.

Proprio il profondo legame tra i due permette di vedere Io capitano in un modo speciale. Senza cadere in pietismi e in retorica, Garrone presenta i fatti, fa empatizzare con i personaggi che, dall’essere i due protagonisti, diventano ben presto due viaggiatori universali. Il loro viaggio è quello compiuto da tanti altri come loro.

La bravura del regista romano, però, risiede nel presentare la tematica e i personaggi in un modo convenzionale e, al tempo stesso, diverso dal solito. È vero che la messa in scena e le scelte registiche sono classiche, pulite, senza sbavature, ma il prodotto finale che arriva allo spettatore è quello di un film che non ha una definizione precisa. Come detto, è a metà strada tra il documentario e il film di finzione. E per fortuna.

Con delle belle panoramiche sull’incredibile vastità dei paesaggi e poi l’insistenza sui primi piani, spesso sofferenti, emaciati e sanguinanti, dei due giovani, Io capitano racconta ed emoziona. Ma soprattutto fornisce speranza a chi guarda e a chi vive il viaggio in prima persona. La sensazione, infatti, non è mai di totale smarrimento. Quella luce in fondo al tunnel accompagna costantemente i personaggi e il pubblico con loro.

In un film come Io capitano la storia parla da sé e qualsiasi elemento stilistico a supporto della narrazione appare quasi superfluo. La storia che vediamo è in soggettiva, dal punto di vista dei due giovani che sperano di compiere un viaggio più grande di loro, ma che li porterà alla terra promessa, quell’Europa che agognano come il luogo dei sogni.

Ad alimentare la soggettività ci sono gli enormi e incredibili spazi aperti e sconfinati che si stagliano davanti a Seydou e Moussa, impotenti di fronte a cotanta vastità. Ma subito, per contrasto, ad opprimere questo senso di libertà c’è l’uso delle luci che si fanno sempre cupe nei momenti di massima paura e perdita di fiducia.

Come detto, però, è la speranza che guida il film di Matteo Garrone e i sogni a occhi aperti che il giovane Seydou fa ne sono la dimostrazione pratica. Fantastici e apparentemente scollegati dal resto della narrazione, sono, invece, emblema di una morale e una moralità che il film vuole lasciare allo spettatore.

Forse troppo favolistico o troppo sognatore, ma Io capitano di Garrone ha la forza prorompente di contrastare dei buoni avversari. Un po’ come il grido disperato e liberatorio di Seydou. Perché siamo tutti un po’ capitani.


Veronica Ranocchi

(recensione pubblicata su taxidrivers.it)

martedì, settembre 19, 2023

ENEA

Enea

di Pietro Castellitto

con Pietro Castellitto, Sergio Castellitto, Benedetta Porcaroli

Italia, 2023

genere: drammatico

durata: 115’

Consigli per lo spettatore. Al cinema bisogna entrare già caldi e pronti alla visione perché, soprattutto in quello d'autore, ciò che bolle in pentola viene chiarito nelle primissime sequenze, chiamate a funzionare come una sorta di bussola necessaria a orientarsi all'interno del film. "Enea" di Pietro Castellitto ne ha bisogno perché il regista e attore romano fa di tutto per presentare allo spettatore uno spettacolo non preconfezionato, tanto nei significati quanto nella forma, diviso com'è tra alto e basso, tanto nell'esposizione del proprio pensiero quanto nella natura delle immagini.

La possibilità di apprezzare fino in fondo un film come "Enea" dipende anche dalla volontà di sposarne l'assunto relativo a una realtà indecifrabile e sfuggente. Non a caso nella scena incriminata, quella che precede i titoli di testa, assistiamo a una sorta di resa dei conti filosofica, in cui, di fronte alla decadenza del mondo, e dunque alla scelta di rimanere soli o di condividere la propria sorte, il protagonista opta per la seconda, declinandola però attraverso un gruppo più ampio del normale, rispondente al modello clanico.

Il rifiuto della famiglia tradizionale a favore di quella tribale, oltre a costituire una critica alla società borghese, diventa il richiamo a un passato glorioso, quello della città capitolina in cui la storia è collocata, trasfigurato secondo le vestigia dell'antica Roma (anche il nome del protagonista viene da li), idealizzate tanto nel dialogo introduttivo, simile a una sorta di simposio, quanto nel contesto ambientale, immerso in un buio primordiale (una caratteristica destinata a ritornare nel corso del film), con i primi piani di Enea, dell'amico e della madre trasfigurati dalla luce del fuoco. L'assenza della figura paterna, da tempo avulsa dall'agone esistenziale, e la benedizione della sua controparte fanno di Enea il capo della sua ma anche dell'altra famiglia, quella che sulla scia del padrino coppoliano, necessità di un vertice a cui obbedire per poter vivere al di sopra della legge comune.

Se "I predatori" era un film collettivo nel suo essere, il risultato di diverse linee narrative, "Enea" per quanto detto lo è ancora di più. Accanto al filone centrale che vede il protagonista e il suo migliore amico impegnati nel tentativo di tenere per se i ricavi di una grossa partita di droga, fronteggiando la minaccia di chi li vuole recuperare, "Enea" nella volontà di esplorare e mettere in rapporto dialettico temi come quello dell'amore e dell'amicizia, della fedeltà e del tradimento, del potere e della potenza, solo per dirne alcuni, chiama in concorso una comunità umana (i genitori, il fratello, la fidanzata, l'amico del cuore, il boss del quartiere e così via) di cui, in un modo o nell'altro, il protagonista, e con lui il film, si prende cura, preoccupandosi di darne conto.

Un universo che Castellitto sembra mettere in scena prendendo in prestito l'esclamazione del padre di Enea - "In questa casa non si riesce a finire un discorso" -, pronunciata di fronte ai figli e alla moglie, rei di non lasciargli concludere mai un discorso. La battuta diventa così il principio di una rappresentazione volutamente incompiuta, con stacchi di montaggio anticipati e salti spazio temporali volti a riprodurre gli effetti lisergici delle sostanze assunte dai due amici.

Girato dall'interno, "Enea" è un'opera che alza il tiro delle ambizioni del suo autore, rischiando qualche volta di girare a vuoto come capita ai personaggi del film. Ogni volta capace di riprendersi e di confezionare scene come quella finale (che non sveliamo per mantenere l'effetto sorpresa), pronte a stupire attraverso la capacità di inventare cinema con pochi elementi. In concorso all'80ª Mostra internazionale d'arte cinematografica, "Enea" è atteso nella sale per verificare il suo appeal con il grande pubblico.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

lunedì, settembre 18, 2023

IL PIU' BEL SECOLO DELLA MIA VITA

Il più bel secolo della mia vita

di Alessandro Bardani

con Sergio Castellitto, Valerio Lundini, Carla Signoris

Italia, 2023

genere: commedia

durata: 83’

Una commedia dolceamara sul senso della vita e dei rapporti interpersonali. Il film di Alessandro Bardani altro non è che un dramma travestito da commedia per far sorridere lo spettatore nonostante stia guardando sullo schermo un centenario che ribadisce più volte, almeno inizialmente, di non avere troppo tempo a disposizione.

Tutto inizia con una bella sequenza in bianco e nero che sembra proiettare lo spettatore in una certa direzione, quella di un cinema più serio e drammatico, ma che, in realtà, fa solo da preambolo, necessario per comprendere sia il protagonista sia il tema alla base del film.

Conosciamo subito il piccolo Gustavo e la sua indole non troppo docile. Il bianco e nero, che ci aiuta a capire che si tratta soltanto di una parentesi relativa al passato, torna poi anche successivamente con piccoli inserti storici che l’anziano protagonista ricorda. Passa quasi un secolo e ritroviamo Gustavo, ormai centenario, contattato da un’associazione che permette a coloro che riescono ad arrivare alla soglia della tripla cifra, e che non conoscono i genitori, di conoscerli. O meglio di avere informazioni in merito a chi ha dato loro la vita.

Gustavo (un ben truccato Sergio Castellitto) si scontra quindi con Giovanni (un inedito Valerio Lundini). Uno scontro quasi obbligatorio, considerati carattere e modo di fare di entrambi. Se il primo, nonostante l’età, è molto energico, pieno di vita e di voglia di fare, il secondo è, invece, l’anziano della situazione. E questa dinamica si riflette anche nell’approccio che i due hanno al tema centrale. Gustavo non sembra interessato a conoscere i propri genitori, ha semplicemente colto l’occasione di uscire dalla casa di riposo nella quale era stato confinato. Giovanni, dal canto suo, è intenzionato ad andare fino in fondo, sembra quasi che sia lui a dover cercare i genitori, un’intenzione mascherata da quello che lui afferma essere uno dei momenti più importanti per l’associazione se non quello di svolta che possa permettere poi ad altre persone come Gustavo di conoscere le proprie origini. Lo scopo, infatti, sia dell’associazione che del film stesso è mettere al corrente più persone possibili riguardo l’assurdità di questa legge che non consente di conoscere i genitori fino al compimento dei 100 anni e che, oltre a non permettere un’identità completa, non aiuta nemmeno nel campo della sanità perché, così facendo, non si conoscono eventuali malattie o patologie che possono essere ereditarie.

A convincere, però, sono principalmente due persone, i due interpreti principali che, insieme a una Carla Signoris più che in forma, regalano forti emozioni. Molto ben assortiti ed entrambi in ruoli opposti rispetto al solito e rispetto alla loro persona, si calano perfettamente nei personaggi cucendosi addosso anche ansie e paure. Da una parte un divertito Castellitto si cimenta in qualcosa di raramente visto al cinema, dall’altra Lundini si toglie la maschera del comico per prendere temporaneamente in prestito quella dell’attore, apparentemente già rodato e in grado di dire molto più di quello che si vede.

Due opposti legati tra loro come due calamite che, come nella maggior parte dei casi, insegnano che si può sempre cambiare e migliorarsi.


Veronica Ranocchi

COUP DE CHANCE

Coup de chance

di Woody Allen

con Lou de Laâge, Valérie Lemercier, Melvil Poupaud, Niels Schneider

Francia, UK, 2023

genere: drammatico

durata: 93’

Presentato fuori concorso all’80esima edizione della mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Coup de chance è davvero il colpo di fortuna di questa edizione e del regista americano che si conferma un maestro nel tirare fuori il coniglio dal cilindro nei momenti più inaspettati.

Il film, prodotto da Gravier Productions, sarà distribuito in Italia da Lucky Red.

Coup de Chance parla dell’importante ruolo che il caso e la fortuna giocano nelle nostre vite. Fanny e Jean sembrano la coppia di sposi ideale: sono entrambi realizzati professionalmente, vivono in un meraviglioso appartamento in un quartiere esclusivo di Parigi, e sembrano innamorati come la prima volta che si sono incontrati.

Ma quando Fanny s’imbatte accidentalmente in Alain, un ex compagno di liceo, perde la testa. Presto si rivedono e diventano sempre più intimi... (Fonte: La Biennale)

Coup de chance ruota intorno al destino, alla fortuna e al caso e a come questi possano influenzare di continuo le nostre vite.

Con la sua ultima fatica Allen dimostra di avere ancora voglia di sperimentare e di giocare con lo spettatore senza rinunciare a essere sempre al passo dei tempi rinnovandosi ogni volta di più.

L’inizio girato tra la folla parigina è all’insegna del movimento. Da dietro seguiamo Fanny, la giovane protagonista del film, nel momento in cui viene fermata da un ex compagno di liceo. Con un bel piano sequenza immerso nel brulichio della città non perdiamo mai di vista la centralità della vicenda, ovvero l’inevitabile incontro di due anime destinate a corrispondersi. Tutto è preambolo di ciò che viene dopo, con la giovane donna che, alla stregua di una spada di Damocle, dovrà subire quello che il destino le ha riservato. Con il pubblico destinato a essere il (solo) testimone di quanto avviene, per l’appunto, alle sue spalle.

La domanda al centro del film è inerente al destino. Alain è colui che, prima di tutti, introduce l’elemento nella storia. Ma è anche quello che ne subisce maggiormente gli effetti. In ogni suo dialogo con Fanny il caso, la fortuna e il destino sono presenti, così come nel romanzo che sta scrivendo.

Jean, invece, è l’esempio di chi la fortuna se la crea concorrendo a riflettere sull’accezione del termine e sulle sfaccettature che esso porta con sé. Si tratta davvero di fortuna?

Il francese è la lingua scelta da Woody Allen per il suo 50esimo film. Una prima volta forse coincidente con la decisione di cambiare direzione, allontanandosi dalla coralità dei suoi ultimi film, per interrogarsi sulla vita (e sulla morte) e su cosa essa può riservare all’uomo, chiunque egli sia. Per farlo il regista americano si mette in gioco e disegna quello che, se non si scorgessero i richiami continui alla sua poetica e al suo cinema, potremmo dire essere un perfetto thriller. La differenza con quelli più classici è che, in parte, inaspettato è condito alla Allen con divertimento e ironia. Come i riferimenti ai gialli che la madre di Fanny legge per diletto.

Caricature di sé stessi, i personaggi che Allen mette in scena raccontano molto più di quanto si possa pensare. Se Fanny e Jean apparentemente sono la coppia perfetta, in realtà rappresentano gli antipodi di una visione effettiva del mondo. Da una parte abbiamo la donna trofeo, da esibire alle cene con i colleghi per bellezza e fascino, ma poi relegata a marionetta nelle mani di un marito che, come ribadito, vuole farsi la propria fortuna. Condizione calzante con il paragone del treno che Jean si regala, e che al pari della moglie, è solo l’ultimo tassello necessario a coprire e dare prestigio a una vita sostanzialmente vuota (non è un caso che non lo vediamo mai lavorare). L’uomo pensa di poterla controllare come fa con il suo trenino, ma Fanny cerca di non farsi manipolare, aggrappandosi all’unica speranza che le viene fornita: l’incontro con Alain.

Un destino dal quale si sente attratta, ma al tempo stesso lontana: come dimostra il mancato interesse nei confronti delle ipotesi sospettose della madre.

Ad accentuare questo colpo di fortuna che alimenta l’intero film, oltre alla splendida conclusione confezionata da Woody Allen, c’è anche il rapporto con e tra i personaggi. In una prima parte in cui a farla da padroni sembrano Fanny e Alain con Jean quasi come comparsa, nella seconda parte arriva la rivalsa di quest’ultimo che si prende la scena, insieme alla madre di lei, arrivando quasi a oscurare Fanny. Un modo come un altro per sottolineare ancora una volta questo coup de chance continuo. Anche nell’essere protagonisti o meno della vicenda.


Veronica Ranocchi

(recensione pubblicata su taxidrivers.it)

domenica, settembre 17, 2023

THE KILLER

The Killer

di David Fincher

con Michael Fassbender, Sophie Charlotte, Tilda Swinton

USA, 2023

genere: azione, thriller

durata: 116’

Il regista diventa autore quando non si limita a mettere in scena un copione con rigore professionale e maestria tecnica, ma nel momento in cui, attraverso la sua opera, qualunque essa sia, riesce a conferire uno sguardo personale sul mondo che racconta. Quando succede il film, al di là della sua natura, può considerarsi un'opera e il suo artefice un artista. Lo diciamo non a caso ricordando i pregiudizi che accolsero l'uscita dei primi lungometraggi di David Fincher, rei, secondo i detrattori, di essere solo film di genere, per di più realizzati da un ex regista di videoclip. Per fortuna molta acqua è passata sotto i ponti, come dimostra in questi giorni la presenza del suo nuovo lavoro nel concorso ufficiale della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.

"The Killer" è in tutto e per tutto un film del suo autore. A dirlo è l'incipit, una lunga introduzione in cui Fincher non solo ci presenta il personaggio principale, un killer (Michael Fassbender) di cui non conosceremo mai il nome, ma si premura di definirne l'arco esistenziale attraverso una fase di stasi, quella che separa la lunga attesa dal momento in cui lo stesso dovrà premere il grilletto, centrare l'obiettivo e riscuotere il soldo. Per Fincher il killer è una macchina priva di emozioni che s'identifica con il proprio lavoro. Quando questo non succede - come vediamo all'inizio del film -, allorquando l'empatia verso una parte di mondo s'insinua nel metodo, qualcosa si rompe, lasciando spazio al caos e a ciò che ne consegue: nel caso del film l'eliminazione di chi, dopo il fallimento, lo vorrebbe morto. È una legge spicciola, quella che fa da premessa alla storia di "The Killer", un processo di causa-effetto che il protagonista porta avanti, da quel momento in poi, come una macchina da guerra e con fede ossessiva in un mantra, oramai collaudato, che la voce fuori campo ci fa sentire più volte nello svolgersi della vicenda.

La trama di "The Killer" - tratta dalla graphic novel "Le Tuer" di Alexis Nolent - è ridotta all'osso, ma utile quanto basta al regista per ragionare sul dramma della condizione umana e sulle sorti degli uomini. Fincher lo fa come da tempo ci ha abituato, e come nessuno fa più, ovvero scegliendo di non aprire il suo thriller con il solito arrembaggio ipercinetico ma, al contrario, lavorando sul tempo (dilatato e reiterato) e sullo spazio, circoscritto per lo più alla stanza che si affaccia su quella in cui si trova l'obiettivo.

Interessato a esplorare gli antri della mente (la serie "Mindhunter") e meno alle conseguenze materiali delle sue dangerous mind ("Seven" insegna), Fincher, nel lungo preambolo che fa da premessa a "The Killer", si prende tutto il tempo che serve per definire il decalogo del protagonista, riproducendone la disillusione  attraverso una sorta di spleen di Parigi (dov'è ambientata la prima parte), con immagini di vita prosaica, il cui ripetuto minimalismo serve per trasmettere allo spettatore il tedio della "morte al lavoro" (in quanto tale cinematografica per eccellenza).

La maestria del regista è quella di saper lavorare sul tempo come pochi, grazie a stacchi di montaggio che rilanciano continuamente la narrazione, dividendola in una serie di micro storie costruite e concluse, trasfigurando i particolari più anonimi del quotidiano che nelle mani di Fincher, e secondo la lezione di Alfred Hitchcock, diventano il riflesso delle nostre angosce, caricandosi di presagi e pericoli: fino all'improvviso cambio di passo, quando la "finestra di fronte" diventa oggetto di una sequenza che ancora una volta rende merito al maestro inglese e dove l'eros e thanatos entrano nella tenzone con voyeurismo cinematografico.

Con il rigore che contraddistingue il suo cinema, Fincher, e con lui "The Killer", non prende mai scorciatoie, rimanendo fino all'ultimo fedele alla personalità del protagonista, che porta avanti la propria vendetta con freddezza e con una violenza che la necessità di proteggere la propria famiglia giustifica solo in parte, e che in qualche modo sfida lo spettatore - come mai si è visto a livello mainstream - nel continuare a stare dalla parte del personaggio.

Un'intransigenza rischiosa ma indispensabile per tratteggiare l'alienazione di un mondo come quello contemporaneo, chiuso nelle sue ossessioni e incapace di comunicare con gli altri. Il killer di Fincher è un homo faber che non sa cosa farsene delle parole. Guardandolo, vengono in mente atmosfere presenti in certi film della New Hollywood. Nella solitudine (e nonostante la consolazione offerta nella scena conclusiva) il protagonista ricorda il personaggio di Robert Redford ne "I tre giorni del Condor" (un altro film che, come "The Killer", depotenzia i cliché tipici del genere). Anche nel film di Sydney Pollack c'era una guerra in atto e, come oggi, i giornali parlavano di cospirazione globale. Sarà un caso, o forse no, sta di fatto che "The Killer" trasfigura il nostro tempo meglio di altri, oltre a incollare allo schermo lo spettatore. Tra quelli visti in concorso "The Killer" è uno dei film più convincenti.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

sabato, settembre 16, 2023

MAESTRO

Maestro

di Bradley Cooper

con Bradley Cooper, Carey Mulligan, Matt Bomer

USA, 2023

genere: biografico, drammatico

durata: 129’

La cura filologica tipica del biopic unita alla cura formale dell’opera destinata al grande pubblico sono da sempre un’arma a doppio taglio: sinonimo di professionalità e di rispetto delle fonti ma al tempo stesso cause di una perfezione che spesso sconfina nell’artificialità. In questo senso il regista Bradley Cooper, coadiuvato da una squadra di produttori da far paura (tra di loro figurano Martin Scorsese e Steven Spielberg) non si nasconde, puntando, sì, alla credibilità del cinema d’autore ma senza rinunciare allo spettacolo e dunque alle grandi possibilità di allestimento messegli a disposizione da mecenati che di certo non gli hanno fatto mancare il tempo (e i soldi) per costruire la performance interpretativa, musicale e coreica in cui si lo stesso si cimenta nel corso del film.

Che poi il regista ne abbia fatto buon uso è un’altra storia, poiché il bianco e nero elegante e levigato si addice all’upper class newyorkese e ai prestigiosi auditori frequentati dal protagonista, nella stessa maniera in cui quello sporco e materico era appropriato alle provocazioni anti-sistema e ai night club metropolitani da cui Lenny Bruce lanciava i suoi anatemi nel capolavoro di Bob Fosse "Lenny".

Certo è che "Maestro" prende sul serio le parole del suo protagonista, soprattutto quando afferma la difficoltà di irreggimentare un talento così poliedrico (autore, compositore, performer, direttore d’orchestra, insegnante musicale e altro ancora) da rendergli la vita schizofrenica. "Maestro" lo dichiara fin da subito attraverso la scena della famosa telefonata che gli cambiò la vita, facendo debuttare Bernstein alla Carnegie Hall in sostituzione del titolare improvvisamente malato. Cooper fa corrispondere infatti la rivoluzione artistica ed esistenziale di Bernstein a quella della macchina da presa che nel lungo e mirabolante piano sequenza dal buio della camera da letto porta il nostro direttamente sul palco da cui di lì a poco prenderà il volo la sua luminosa carriera.

Ma non solo, perché facendo sua a livello filmico la dissociazione di cui sopra "Maestro" racconta l’ascesa del protagonista e con essa il crescendo della sua unione sentimentale attraverso un montaggio che lavora soprattutto sullo spazio scenico, mettendo in comunicazione senza soluzione di continuità pubblico e privato, arte e vita, in un caleidoscopio visivo e sensoriale capace di rendere merito all’irresistibile ascesa artistica e sentimentale della coppia.

Salvo poi, nella seconda parte, rallentare il passo fino quasi a fermarlo per dare spazio e tempo alla riflessione della maturità e alle ombre della vita con piani fissi che sembrano materializzare l’impasse cui a un certo punto è sottoposta l’esistenza dei personaggi. Un cambio di marcia anche visivo, con la fotografia destinata a fare da contrappunto all’andamento emotivo del film. In bianco e nero quando si tratta di raffreddare una materia di per sé incandescente e contenere la gioia irrefrenabile degli inizi, a colori (anni Settanta) nel momento in cui c’è bisogno di ravvivare la cupezza dovuta all’incedere del tempo e alla fatica di tenere fede alle promesse della giovinezza.

Il suo essere multiforme come lo è il protagonista appartiene al film anche dal punto di vista degli interessi messi in gioco, perché se gli appassionati della materia potranno apprezzare il lungometraggio per il suo andamento rapsodico e musicale e per la colonna sonora che riprende le composizioni più celebri del musicista, altrettanto importante e forse di più è la storia d’amore tra Leo e Felicia, esemplare soprattutto oggi nell’offrire un modello di unione matrimoniale capace di conciliare l’amore eterno con la libertà della propria natura (l’omosessualità di Bernstein conosciuta dalla moglie non impedì alla coppia di avere tre figli e una costante vita famigliare).

Sulla scia di "A Star Is Born" Bradley Cooper continua a indagare il rapporto tra arte e vita attraverso la relazione tra due artisti ancora una volta messi alla prova dalla difficoltà di coniugare reale e ideale, creatività e ragione. Nel farlo non si dimentica del proprio passato affidandosi alla bravura degli attori: alla sua e a quella di una strepitosa Carey Mulligan, capace di sostenere e ancora di più di dare vita con la presenza dello sguardo e l’intensità del volto a primi piani che assurgono a dei veri e propri ritratti esistenziale. "Maestro" è destinato a fare incetta di candidature, prima fra tutte quella per la miglior attrice protagonista. Se fosse per lo scrivente la mitica statuetta l’avrebbe già vinta. 


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

venerdì, settembre 15, 2023

FELICITA'

Felicità

di Micaela Ramazzotti

con Micaela Ramazzotti, Sergio Rubini, Max Tortora

Italia, 2023

genere: drammatico

durata: 104’

Si intitola Felicità il film che segna l’esordio alla regia dell’attrice Micaela Ramazzotti. Presentato nella sezione Orizzonti Extra dell’80esima mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il film è prodotto da Lotus Production e Rai Cinema e distribuito da 01 Distribution.

Una famiglia disfunzionale è al centro del dramma della debuttante regista romana che, complice anche la sua esperienza davanti alla macchina da presa, confeziona un film interessante.

Questa è la storia di una famiglia storta, di genitori egoisti e manipolatori, un mostro a due teste che divora ogni speranza di libertà dei propri figli. Desiré è la sola che può salvare suo fratello Claudio e continuerà a lottare contro tutto e tutti in nome dell’unico amore che conosce, per inseguire un po’ di felicità. (Fonte: La Biennale)

Un dramma familiare e una famiglia disfunzionale sono le carte scelte dalla Ramazzotti che, in veste anche di attrice protagonista, si carica del fardello non solo del film, ma anche della famiglia stessa.

Giocando su tematiche sempre più attuali e vere pone lo spettatore di fronte a delle situazioni, talvolta quasi al limite, volutamente, del paradossale per far riflettere e criticare determinate scelte.

E il coraggio della regista romana forse sta proprio in questo: non andare ad addentrarsi in tematiche troppo lontane dal suo cinema. Anche se il suo cinema lo sta facendo nascere adesso.

I contorni, l’ambientazione e i personaggi sono comunque autentici e imperfetti. Quindi veri e reali.

A contrastare la drammaticità insita nel film c’è il complesso, ma sincero rapporto tra Desiré e Claudio, due fratelli che hanno un legame speciale e riescono a supportarsi a vicenda trovando conforto l’uno tra le braccia dell’altro. Claudio cerca sempre Desiré, anche solo con uno sguardo, un movimento o una parola. Non hanno bisogno di darsi tante spiegazioni per capirsi. Ma anche Desiré cerca sempre Claudio. L’unica sua ancora.

Perché tra i due genitori egoisti e possessivi che, pensando di fare il bene dei figli, hanno ridotto Claudio in uno stato dal quale deve faticare per riprendersi, e il compagno di lei, anch’egli, a suo modo egoista, Desiré si sente persa nel mondo.

Indubbiamente i momenti più interessanti e forti dell’intera vicenda sono quelli in cui nascono i feroci litigi tra i vari personaggi. Appoggiati alle convincenti interpretazioni del cast, le schermaglie si animano con l’andare avanti della vicenda, diventando sempre più acute e portando a momenti sempre più precari e pericolosi.

Emblematico quello della famiglia riunita intorno al tavolo insieme al compagno di Desiré dove ci si rende conto fin dal primo istante del totale disinteresse da parte di tutti i presenti riguardo il reale motivo dell’incontro. Ognuno pensa al proprio tornaconto personale, rigirando la frittata a proprio vantaggio.

Ma allo stesso modo è esemplificativo anche l’incontro dalla psicologa che segue Claudio. Facendo uscire fuori la reale indole di ogni personaggio.

Un bravo, ma disgustoso, Max Tortora, in coppia con Anna Galiena che, in quanto a bravura e disgusto non rimane indietro, sono i genitori di Desiré e Claudio (Matteo Olivetti). Ogni loro momento in scena provoca nello spettatore, e nei figli, un sentimento di inadeguatezza. Non degni di essere genitori e nemmeno (e soprattutto) di prendere decisioni per loro conto. Al contempo nemmeno il compagno di Desiré, interpretato da Sergio Rubini, è un personaggio positivo. Inizialmente sembra l’unico in grado di far ragionare la compagna, salvo poi capire, insieme a lei, che è fatto della stessa pasta dei genitori.

Se con il titolo scelto Micaela Ramazzotti vuole farci credere che ci sia davvero una speranza e una felicità per tutti, il film, in realtà, sembra prendere due binari paralleli.

Da una parte c’è il legame, come detto, tra fratello e sorella. Un legame forte e solido, in grado di vincere qualsiasi cosa, letteralmente.

Ma dall’altra parte c’è anche la paura di perdersi e andare nella direzione sbagliata. Le parole che Desiré usa nei confronti del compagno durante uno dei litigi più feroci tra i due sono le stesse utilizzate dalla madre nei suoi confronti (e che possiamo solo immaginare siano già state usate in passato proprio contro la figlia).

E se la mela non riesce, quindi, a cadere troppo lontano dall’albero come si raggiunge la vera felicità?


Veronica Ranocchi

(recensione pubblicata su taxidrivers.it)

giovedì, settembre 14, 2023

FINALMENTE L'ALBA

Finalmente l’alba

di Saverio Costanzo

con Rebecca Antonaci, Lily James, Joe Keery

Italia, 2023

genere: drammatico

durata: 140’

Immerso nel buio e circoscritto nello spazio angusto di un armadio dentro il quale una donna e una bambina si nascondono per sfuggire alla violenza dei soldati. Così si presenta allo spettatore il nuovo film di Saverio Costanzo, memore di ciò che è stato "Private" - il suo film d’esordio che in fondo raccontava la medesima situazione - fino al punto di nutrirsene e rielaborarlo in una storia che fa del cinema, proprio e di quello degli altri (per esempio Federico Fellini), lo spazio, reale e mitologico, attraverso cui raccontare un’intera epoca. D’altronde l’esistenza di un doppio sguardo - dei personaggi e dello spettatore -, che presiede alla narrazione di "Finalmente l’alba" è dichiarato fin dal principio. La carrellata all’indietro, aprendosi sulla sala in cui scorrono le immagini di quello che credevamo essere il "nostro" film, mentre invece lo è della protagonista e di chi, come lei, lo sta guardando, serve all’autore per stabilire la premessa indispensabile alla visione, ovvero la distinzione tra il nostro punto di vista di spettatori consapevoli del simulacro e quello della giovane Mimosa, che lusingata dalle attenzioni delle star di turno finisce per credere alla fabbrica dei sogni.

Come "La Rosa purpurea del Cairo" anche "Finalmente l’alba" racconta di un innamoramento cinematografico, dell’identificazione tra l’osservatore e l’oggetto amato ma anche di una società dello spettacolo oramai privata di qualsiasi spontaneità e abituata in ogni occasione a recitare una parte. Come ci dimostra il film in una delle scene più belle, quella in cui, invitata a recitare una poesia davanti alla platea di inviati, Mimosa reagisce all’imbarazzo con un pianto talmente insostenibile da essere scambiato per una performance attoriale.

Se Jeff Daniels usciva dallo schermo per convincere Mia Farrow a seguirlo nelle sue avventure, Mimosa compie il percorso opposto nella sequenza che la vede anteporsi alle immagini del cinegiornale che ne sovrappongono l’esperienza a quella di Wilma Montesi (un altro doppio), aspirante attrice la cui morte avvenuta in circostanze mai chiarite scosse l’opinione pubblica del tempo, e della quale la nostra sembra rivivere le gesta nel corso del viaggio notturno che la porterà a frequentarne gli stessi luoghi e forse le medesime persone, sulle orme della star americana (Josephine Esperanto, interpretata da Lily James), di cui è diventata suo malgrado la favorita.

Costruito sulla fascinazione ma anche sulle paure di Mimosa nei confronti di un universo bello ma sconosciuto, "Finalmente l’alba" sembra popolarsi dei fantasmi dell’immaginario della sua protagonista: la quale, nel ruolo della giovane bella e perduta in un mondo che la sovrasta e la seduce, sembra ricalcare l’esperienza delle protagoniste di "Mulholland Drive" e in tono minore di "The Neon Demon" (nell’utilizzo dell’impianto sonoro). Senza spingersi così in là, Costanzo ne ricalca luoghi oscuri e latenza del male, oltre al già accennato tema del doppio, affidando al cinema - come faceva Lynch - il compito di somatizzare i riti della città trasfigurata nei suoi tratti più sotterranei.

Attraversato da varie forme cinematografiche (il peplum, la commedia sentimentale, il racconto di formazione, il thriller, il melodramma) "Finalmente l’alba" è un film personale anche nella scelta degli attori che Costanzo propone facendo una sintesi tra la capacità di affidarsi a interpreti internazionali e quella di saper lanciare volti nuovi. Dopo Margherita Mazzucco de "L’amica geniale" quello della bravissima Rebecca Antonaci è un nome da segnare.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

mercoledì, settembre 13, 2023

FERRARI

Ferrari

di Michael Mann

con Adam Driver, Patrick Dempsey, Panelope Cruz

USA, 2023

genere: storico, biografico, drammatico

durata: 130’

Uno dei titoli più attesi (complice anche la presenza del cast con deroga dagli scioperi) è sicuramente Ferrari di Michael Mann.

Un cast assortito che mescola italiani ad americani (e non solo) riesce a destreggiarsi nella lineare, seppur non così semplice, storia di Enzo Ferrari e della storica azienda.

Il film, tratto dal romanzo Enzo Ferrari: The Man, The Cars, The Races, The Machine di Brock Yates, prodotto da Moto Pictures, sarà distribuito da 01 Distribution.

È l’estate del 1957. Dietro lo spettacolo della Formula 1, l’ex pilota Enzo Ferrari è in crisi. Il fallimento incombe sull’azienda che lui e sua moglie Laura hanno costruito da zero dieci anni prima. Il loro matrimonio si incrina con la perdita del loro unico figlio Dino. Ferrari lotta per riconoscerne un altro, avuto con Lina Lardi. Nel frattempo la passione dei suoi piloti per la vittoria li spinge al limite quando si lanciano nella pericolosa corsa che attraversa tutta l’Italia: la Mille Miglia. (Fonte: La Biennale)

Quello che ci si può aspettare da un regista come Michael Mann è un guizzo, un’intuizione, almeno un elemento che sovverta gli standard canonici del cinema. I suoi titoli più celebri lo hanno dimostrato e Ferrari aveva tutte le carte in regola per seguire la scia de L’ultimo dei Mohicani, Heat, Collateral.

Per questo biopic, invece, Mann sceglie di adagiarsi sul terreno più facilmente raggiungibile della semplicità. Il regista statunitense, infatti, sembra limitarsi a esporre i fatti come sono accaduti, anticipandoli e facendoli seguire da didascalie esemplificative di quanto mostrato sullo schermo.

Se la prima parte risulta, nonostante la quasi totale assenza di scene in corsa, la più interessante e, per certi versi, quasi adrenalinica, la seconda punta tutto sulla celebre corsa Mille Miglia alla quale viene riservato un buon minutaggio. Tutto sembra poggiare sulle spalle di questo momento. Il pubblico è in fermento, così come i piloti stessi che dovranno affrontare la gara.

Ma a poco vale l’inserimento di quello che è stato definito dal regista stesso come l’incidente automobilistico più cruento della storia del cinema.

Una corsa e una rincorsa che tengono lo spettatore incollato allo schermo e che tolgono il respiro nel momento del climax assoluto, ma che, così facendo, confezionano un film non troppo diverso.

La suspense che inizia con il primo giro di prova da parte di uno dei piloti del team Ferrari culmina nella celebre corsa. Una corsa che si trasforma da semplice gara a una corsa per la vita in tutti i sensi. Ferrari nutre speranze nella vittoria di uno dei suoi piloti per far fruttare la propria azienda e il marchio, i piloti, dal canto loro, oltre che sperare di essere inseriti in un albo d’oro storico e rimanere nella memoria collettiva, sono spaventati per la propria incolumità. Riusciranno a tornare a casa sani e salvi dalle proprie famiglie e dai propri cari?

L’inseguimento che ne scaturisce è come una lotta all’ultimo sangue, tra Ferrari e altre macchine che vengono citate, ma rimangono sempre in secondo piano, come se fossero omologate ed equivalenti tra loro, sempre un gradino sotto rispetto alla storica rossa di Maranello.

Da un biopic del genere non può mancare, naturalmente, la vita privata del protagonista e tutto quello che ne consegue.

Anche in questo senso Michael Mann decide di rimanere sulla classicità e sull’inserimento del quasi onnipresente dramma familiare. Parte integrante della vita e delle decisioni, anche lavorative, di Enzo Ferrari, diventa fondamentale il suo rapporto incrinato con la moglie Laura, ma anche e soprattutto la sua relazione extraconiugale con Lina Lardi.

Con la prima la ferita è ormai troppo grande da ricucire e la scomparsa prematura dell’unico figlio Dino è la classica goccia che fa traboccare il vaso. Invece, con la seconda, il rapporto è diverso, amore e affetto, tanto da dare alla luce un figlio (riconosciuto ufficialmente solo in seconda battuta).

Una vita privata che sembra procedere come quella sulla pista. Il matrimonio e l’inizio di una vita insieme e la decisione di aprire un’azienda. La prima frattura (e il tradimento) e l’inizio della decadenza dell’azienda stessa.

Partendo dal presupposto che scegliere un cast straniero per un film del genere è piuttosto rischioso, Ferrari può comunque fare leva sui suoi interpreti. Oltre che su una giusta dose di ironia.

Adam Driver, ormai avvezzo a ruoli italiani, dopo il suo Maurizio Gucci, cerca di dare risalto all’ennesimo personaggio, per certi versi, controverso della storia italiana. Al suo fianco una brava Shailene Woodley nel ruolo di Lina che, però, poco si avvicina alla fisicità, le movenze e le pose italiane. Cosa che, invece, riesce meglio all’interprete della moglie Laura, Penelope Cruz. Con alle spalle alcune esperienze italiane, l’attrice spagnola convince grazie anche al suo costante malessere, alle sue occhiaie pronunciate e ai suoi modi di fare da vera padrona della casa (e della scena).

Belle interpretazioni che, però, possono poco sulla decisione di utilizzare costantemente la lingua inglese (tranne qualche parola saltuaria). Un inglese quasi maccheronico quello che viene utilizzato dai personaggi del film che cercano, così facendo, di avvicinarsi all’italiano. E anche gli italiani stessi (da Lino Musella ad Andre Dolente, da Michele Savoia a Giuseppe Bonifati) sono costretti a parlare inglese.

Per concludere fa, quindi, sorridere, e anche riflettere, che Enzo Ferrari parli inglese, pur essendo nato e vissuto a Modena…


Veronica Ranocchi

(recensione pubblicata su taxidrivers.it)