mercoledì, marzo 03, 2010

Gli occhi di Penelope (2) - IL RICCIO

Il riccio
regia di Mona Achache


"Il riccio" è la trasposizione cinematografica che una regista esordiente, tale Mona Achache, fa di un romanzo che nel 2006 ha segnato l’editoria francese (e non solo), facendo razzia di premi letterari: "L’eleganza del riccio" di Muriel Barbery.
Ho avuto il piacere di leggere il romanzo durante le ultime vacanze natalizie e, fortunatamente, appena prima dell’uscita del film nelle sale.
Avendo assolutamente gradito la lettura, che ha fatto balzare il romanzo nella mia personalissima top-ten delle preferenze letterarie, non ho potuto (né voluto) esimermi dall’andare a vedere il film, pur nella consapevolezza che una delusione avrebbe potuto tendermi un agguato. Psicologicamente preparata, ho varcato la soglia della sala.
Siccome non sempre le ciambelle riescono col buco, è capitato che l’autrice del romanzo abbia disconosciuto la pellicola, non ritenuta evidentemente degna di rappresentare su schermo quanto era già stato rappresentato su carta. Ma cosa è giusto aspettarsi da una operazione di questo genere?
In fondo, a ben pensarci, il romanzo in questione non è tra quelli che più si prestano ad una trasposizione cinematografica. Se lo si vuol guardare dal mero punto di vista della storia raccontata, bastano poche parole per riassumerne i punti salienti: c’è una portinaia parigina segretamente coltissima, una bambina aspirante suicida di famiglia ricca e dall’intelligenza superiore, un giapponese di mezza età perspicace e sensibile che si incontrano in un condominio alto-borghese. Un punto di partenza un po’ scarno per l’impianto narrativo di un film. Ma potrebbe essere proprio tale pochezza di accadimenti a costituire quella crepa in cui una giovane regista vuole coraggiosamente infilare la sua sfida cinematografica. La sfida è quella di riportare sul grande schermo l’atmosfera elegiaca del romanzo, la profondità delle tante riflessioni sofisticate, di riempire quei silenzi filosofici che rendono il libro gustoso ed allo stesso tempo confortante e dolcemente consolatorio, senza tradire o stravolgere le intenzioni intellettuali e lo stile dell’autrice. Sarà riuscita Mona Achache a compiere una siffatta impresa?
Io credo di sì. La regista compie un parallelo a mio parere molto riuscito: laddove nel romanzo la piccola Paloma è intenta a scrivere una sorta di diario, in cui annota i “pensieri profondi” e i “movimenti del mondo”, nella trasposizione della Achache lo stesso personaggio vuol cristallizzare le proprie considerazioni in un film, e lo si vede aggirarsi nelle varie situazioni con una vecchia videocamera, a riprendere i suoi familiari ed a descriverne le caratteristiche filtrandole attraverso i suoi occhi consapevoli e rassegnati. Dunque, pare sussistere l’uguaglianza “libro=film” non solo per il fatto che la storia raccontata è tratta, o almeno ispirata a quella di un romanzo, ma anche grazie alla scelta dello strumento di comunicazione dedicato al pubblico, che nel romanzo è giustamente un diario, quindi un altro scritto, e che nel film, nella massima coerenza, è un altro film. E così, ancora una volta, sia in letteratura, sia nella cinematografia, si vuol rendere omaggio al grande commediografo latino Plauto, colui il quale forse per primo scelse di svelare agli spettatori l’illusione del teatro mettendo in scena la rappresentazione teatrale stessa, dando i natali al cosiddetto meta-teatro. La regista, quindi, sceglie di mettere in scena la messa in scena, e non lo fa solo attraverso l’occhio della videocamera di Paloma, ma utilizza anche un altro registro linguistico, il cartoon, rivelando con innocente abilità i misteri di quel magico meccanismo che mette in moto le figure. E’ proprio così, usando questi strumenti, che l’arguta Paloma si racconta e racconta della delusione nei confronti del mondo che la circonda.
Il risultato è una sfiziosa favola moderna, i cui protagonisti sono significativi, seppur nella discrezione e nel garbo delle proprie personalità. L’atmosfera del romanzo viene disfatta e poi sapientemente ricostruita risultando in un alleggerimento complessivo dei temi trattati, il quale però non smarrisce il senso più profondo ed intimo del racconto della Barbery, ma si limita a sottacerne alcune introspezioni, che, seppur indispensabili all’economia del romanzo, nel film sarebbero apparse solo di contorno. Il messaggio dell’incontro e della comprensione dell’altro al di là delle apparenze giunge allo spettatore con una certa chiarezza, grazie all’efficacia delle due anime in incognito Reneè e Paloma, che trovano conforto e si nascondono dietro la maschera che la società ha attribuito loro, e grazie alla bravura di monsieur Ozu nel riconoscerne la prelibatezza e nello stanare il loro nascondiglio, con fiuto da vero cane da tartufo.
Le tante digressioni filosofiche del romanzo cedono il posto ad una certa leggerezza con cui la regista riempie i silenzi narrativi della storia. E lo fa con trovate graziose e sobrie, che spaziano dai disegni murali nella stanzetta di Paloma, fusione di creatività e razionalità, all’uso di fittizi cieli stellati, dal gusto infantile e fiabesco, alle tante citazioni letterarie, artistiche e cinematografiche che sembrano animarsi e vivere nella singolare concierge. Tutto questo viene annegato in un cocktail vincente a base di cartoon, di colori vivaci e di un linguaggio moderno ed accattivante. Particolarmente riusciti sono i visi e le espressioni delle due attrici protagoniste, che comunicano col solo sguardo, spento quello di Reneè, rassegnatamente disincantato quello di Paloma.
Insomma, l’autrice del romanzo ha messo questo film nella “boccia dei pesci rossi”. Ma tra la “boccia dei pesci rossi” e i “sempre nei mai”, ci sono infinite vie di mezzo, e questo film si pone in ottima posizione.

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