giovedì, luglio 14, 2011

The hunter

Un uomo torna a casa dal lavoro e scopre che moglie e la figlia sono morte. La versione ufficiale parla di una manifestazione in cui le due malcapitate sono state vittima del fuoco incrociato tra polizia e manifestanti. La disperazione lascerà presto spazio al desiderio di vendetta.

Nonostante i natali del suo regista, The hunter fissa fin dall’immagine della locandina (il protagonista vi appare ritratto come un cow boy urbano, appoggiato ad una macchina con lo sguardo che fissa l’orizzonte/frontiera) ambizioni e punti di vista che scavalcano i confini nazionali e trovano corrispondenze nella cultura cosmopolita del suo artefice, emigrato in Francia dove ha lavorato come aiuto regista con nomi illustri ed in cui ha potuto accedere ad un tipo di cultura aperta ad ogni tipo di influenza. Ne risulta quindi un film che pur mantenendo le caratteristiche del paese di provenienza, soprattutto per la sobrietà della messa in scena e per il pudore estetico (le “morti” del film sono sempre nascoste alla vista dello spettatore quand’anche fuori campo) si arricchisce di uno sguardo che deve molto alle arti pittoriche, soprattutto nella composizione delle singole inquadrature (le simmetrie delle vedute urbane e certi interni che sembrano catturare gli attori in spazi ristretti) e nel variegato uso dei colori.

Costruito alla maniera di una crime story americana, in cui la redenzione del personaggio principale deve fare i conti con un destino inesorabile, The hunter depotenzia le dinamiche drammaturgiche del genere per lasciare spazio agli elementi spaziali e temporali del racconto. Assistiamo allora ad un ripetersi di gesti, di espressioni (quella atona del protagonista) ma anche di singole scene che si dilatano e si ripetono per dare il senso di un destino inesorabile oppure per svuotare di senso un esistenza insondabile. Tanto la città quanto la foresta, coprotagoniste del film, risultano luoghi in cui l’individuo smarrisce la propria identità - in questo caso la scena finale con la sua macabra sorpresa sembra la traduzione di questa crisi- ed in cui l’assurdo, come in un romanzo di Camus, finisce per essere l’unico dato certo. A Pitts va dato atto di aver voluto tentare nuove strade, ma la contaminazione con le istanze del cinema occidentale non riescono a coniugarsi con la matrice originale. Molte cose rimangono nel vago,(ad esempio il nesso tra la polizia e gli omicidi della donna e della bambina), si risolvono senza un perché – l’uccisione dei due poliziotti ha un movente che si può intuire ma che non viene mai definito-oppure rimangono del tutto oscure (il protagonista è stato in carcere ma non ne sappiamo le ragioni). La sensazione finale è quella di una scommessa rimandata al prossimo tentativo.

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