con: G. Butler, A. Eckhart, M. Freeman, R. Yune, D. Mc Dermott, A. Bassett, A.Judd.
USA 2013
120 min
Antoine Fuqua, come qui tra i "moviemaniacs" abbiamo già avuto modo di dire, e' un regista la cui discontinuità rende imprevedibile: stargli dietro sui sentieri del cinema di genere, infatti, significa procedere in avanti ("The replacement killers"/"Costretti ad uccidere", esordio del 1998; "Training day"/id., 2001; "Brooklyn's finest"/id., 2010); fare passi indietro ("Bait"/"L'esca", 2000; "Tears of the sun"/"L'ultima alba", 2003; "King Arthur"/id., 2004) e cimentarsi in deviazioni ("Shooter"/id., 2007). Con questo "Olympus has fallen"/"Attacco al potere", siamo dalle parti delle incursioni "a latere" se e' vero, come e' vero, che il film passeggia con discreta disinvoltura tra una fitta successione di luoghi tornati di nuovo comuni ma e' tenuto in carreggiata da una favorevole inerzia, dalla corrispondenza eminentemente "fisica" tra attori e personaggi e dalla baldanza "muscolare" della messinscena.
Al seguito di una delegazione sud coreana e con l'ausilio di una talpa all'interno dell'apparato governativo dello Zio Sam, un gruppo di terroristi nord coreani appartenenti ad una organizzazione paramilitare, dopo aver semidistrutto la Casa Bianca, prende in ostaggio il Presidente e il suo staff ristretto. Mike Banning/Gerard Butler, ex ranger delle forze speciali, ex capo della sicurezza del Presidente, s'insinua fra le maglie allentate del sistema e in solitaria tenta di rovesciare le sorti della partita...
Registrando, in generale, dopo la lunga elaborazione seguita al fatidico "11/9", il ritorno di una traccia narrativa classica, quella "terroristica" (di simile ispirazione vive anche l'imminente "White House down" di Emmerich) e una qual ribadita tendenza del cinema USA nell'anticipare/leggere l'attualità - qui e' la matrice coreana del disegno eversivo (ma, forse, l'intero assunto potrebbe essere ricondotto, e sia detto come spunto, entro una fisiologica altalena nella finzione di trame e volti che scimmiotta la storica ricerca/necessita' da parte di una nazione avvezza alla preminenza di individuare un nemico da additare/abbattere) -, il lavoro di Fuqua si caratterizza, affidandocisi - con tutte le incognite del caso ma senza farsene sommergere - per uno schematismo logico e ideologico elementare (ragione tutt'altro che marginale per inquadrare il discreto successo ai botteghini a stelle e strisce) quanto funzionale alla resa epidermica; di facile immedesimazione come pure di minimo impatto concettuale (ciò che preme, in fondo, e rende superfluo calcare troppo la mano sul lato "(geo)politico" o "guerrafondaio" della faccenda e' che l'Eroe/Buono/dalla nostra parte non la faccia passare liscia all'Antieroe/Cattivo/sulla barricata opposta) e ad un'estetica - irrobustita da venti e passa anni di costanti progressi sul versante "effetti speciali" e tenuta a bada dalla mano esperta di Conrad W. Hall - che da precedenti significativi solo orecchiati o tenuti vagamente presenti, approda alla levigatezza steroidea dell'"action movie" tardo-post reaganiano. Per intendersi: questo micro genere orchestrato attorno ad un complotto ad alto livello/un Presidente (o una Nazione) in pericolo per minaccia interna o esterna/un solo nostro uomo (un tanto scavezzacollo) in campo a cavare le castagne dal fuoco, può idealmente inserirsi in un assai vasto campo di applicazione cinematografico che, prendendo le mosse da precedenti di valore (per dire, il "Manchurian candidate" e "Black sunday", entrambi di Frankenheimer, rispettivamente del 1962 e del 1976; se non, addirittura, i Siegel e i Peckinpah estremi di "Telefon" (1977) e "Osterman weekend" (1983)), produce nel tempo una copiosa filmografia - in specie di serie B - che arriva quasi ininterrottamente (la cesura e', appunto, data dal lungo interludio successivo all'11/9) fino ai nostri giorni e verso cui "Olympus has fallen" può vantare più di una lontana parentela. Senza la pretesa di essere esaustivi, rammentiamo un percorso che si snoda dalle smanie di accerchiamento mai del tutto sopite nel Grande Paese di "Red dawn"/"Alba rossa" di J. Milius (1984), passando per i primi capitoli della saga "Die hard" inaugurata da J. Mc Tiernan nel 1988 e per "In the line of fire"/"Nel centro del mirino" di W. Petersen del 1993 e che procedendo attraverso "Murder at 1600"/"Delitto alla Casa Bianca" di D. H. Little, "Shadow program" di G. Pan Cosmatos e, volendo, "Air Force One"/"id., ancora di Petersen, tutti e tre del 1997, giunge ai più recenti "The Sentinel"/"Il traditore al tuo fianco", di C. Johnson (2000) e a "Vantage point"/"Prospettive di un delitto" di P. Travis (2008). Tutti film il cui denominatore comune e' la sostanziale convergenza sull'"azione", nei confronti della quale la materia "seria" (equilibri internazionali, rivendicazioni, strategie economiche e militari) influisce come pretesto o "sfondo nobile" - a seconda delle capacita' e delle sensibilità - più o meno plausibile, più o meno problematico.
Parimenti, "Olympus has fallen" privilegia in maniera diretta l'alternanza canonica battere/levare, azione/interlocuzione, giostrando sui tempi e riducendo al massimo le pause. In tal modo, come non piove sul fatto che, ad esempio, molte battute risultano indifendibili non tanto per il loro contenuto propagandistico quanto perché esauste causa logorio - quindi involontariamente caricaturali, parodistiche loro malgrado - (effetto simile a quello prodotto da un attore del calibro di Freeman che deve pronunciarne diverse relegandosi, e non da oggi, in una sorta di pigrissima routine manieristica), e' pure vero, fatta la tara a qualche forzatura e inesattezza, che la bilancia del godimento torna in assetto grazie alla spiccia guasconeria di un simpatico marpione come Butler che, con l'aria stanca del grosso sanbernardo costretto agli straordinari (tipica del fisico prestante con principi di appesantimento), corre, rotola, fa a cazzotti, brutalizza alcuni avversari e trova pure il tempo per fare da padre putativo al piccolo rampollo trascurato della real casa presidenziale. Su un equilibrio tale, la retorica (che per quanto trita e di parte ha sempre un suo scopo) si stempera un bel po' e viene confinata negl'incastri narrativi che tutto sommato t'aspetti: il quadretto familiare introduttivo a Camp David; i concitati vertici tra le autorità assiepate attorno all'usuale "tavolo della crisi"; il pistolotto finale che ribadisce orgoglio nazionale, coesione d'intenti e bla, bla. In mezzo, iperdinamismo e schermaglie; mestiere delle armi e una certa reiterazione violenta sulla figura femminile; aerei cargo a precipizio in primissimo piano ed elicotteri che si sbriciolano come moscerini piezoelettrici: raffiche penetranti che svellono zolle dai prati immacolati della Casa Bianca e Radha Mitchell che sembra capitata nel film per caso. Fuqua raccoglie, frulla tutto e serve un cocktail come detto retorico ma non pretestuoso/indigesto (vd. l'ultimo "Die hard") e non si perde. Non del tutto. Scarta di lato.
TFK
Al seguito di una delegazione sud coreana e con l'ausilio di una talpa all'interno dell'apparato governativo dello Zio Sam, un gruppo di terroristi nord coreani appartenenti ad una organizzazione paramilitare, dopo aver semidistrutto la Casa Bianca, prende in ostaggio il Presidente e il suo staff ristretto. Mike Banning/Gerard Butler, ex ranger delle forze speciali, ex capo della sicurezza del Presidente, s'insinua fra le maglie allentate del sistema e in solitaria tenta di rovesciare le sorti della partita...
Registrando, in generale, dopo la lunga elaborazione seguita al fatidico "11/9", il ritorno di una traccia narrativa classica, quella "terroristica" (di simile ispirazione vive anche l'imminente "White House down" di Emmerich) e una qual ribadita tendenza del cinema USA nell'anticipare/leggere l'attualità - qui e' la matrice coreana del disegno eversivo (ma, forse, l'intero assunto potrebbe essere ricondotto, e sia detto come spunto, entro una fisiologica altalena nella finzione di trame e volti che scimmiotta la storica ricerca/necessita' da parte di una nazione avvezza alla preminenza di individuare un nemico da additare/abbattere) -, il lavoro di Fuqua si caratterizza, affidandocisi - con tutte le incognite del caso ma senza farsene sommergere - per uno schematismo logico e ideologico elementare (ragione tutt'altro che marginale per inquadrare il discreto successo ai botteghini a stelle e strisce) quanto funzionale alla resa epidermica; di facile immedesimazione come pure di minimo impatto concettuale (ciò che preme, in fondo, e rende superfluo calcare troppo la mano sul lato "(geo)politico" o "guerrafondaio" della faccenda e' che l'Eroe/Buono/dalla nostra parte non la faccia passare liscia all'Antieroe/Cattivo/sulla barricata opposta) e ad un'estetica - irrobustita da venti e passa anni di costanti progressi sul versante "effetti speciali" e tenuta a bada dalla mano esperta di Conrad W. Hall - che da precedenti significativi solo orecchiati o tenuti vagamente presenti, approda alla levigatezza steroidea dell'"action movie" tardo-post reaganiano. Per intendersi: questo micro genere orchestrato attorno ad un complotto ad alto livello/un Presidente (o una Nazione) in pericolo per minaccia interna o esterna/un solo nostro uomo (un tanto scavezzacollo) in campo a cavare le castagne dal fuoco, può idealmente inserirsi in un assai vasto campo di applicazione cinematografico che, prendendo le mosse da precedenti di valore (per dire, il "Manchurian candidate" e "Black sunday", entrambi di Frankenheimer, rispettivamente del 1962 e del 1976; se non, addirittura, i Siegel e i Peckinpah estremi di "Telefon" (1977) e "Osterman weekend" (1983)), produce nel tempo una copiosa filmografia - in specie di serie B - che arriva quasi ininterrottamente (la cesura e', appunto, data dal lungo interludio successivo all'11/9) fino ai nostri giorni e verso cui "Olympus has fallen" può vantare più di una lontana parentela. Senza la pretesa di essere esaustivi, rammentiamo un percorso che si snoda dalle smanie di accerchiamento mai del tutto sopite nel Grande Paese di "Red dawn"/"Alba rossa" di J. Milius (1984), passando per i primi capitoli della saga "Die hard" inaugurata da J. Mc Tiernan nel 1988 e per "In the line of fire"/"Nel centro del mirino" di W. Petersen del 1993 e che procedendo attraverso "Murder at 1600"/"Delitto alla Casa Bianca" di D. H. Little, "Shadow program" di G. Pan Cosmatos e, volendo, "Air Force One"/"id., ancora di Petersen, tutti e tre del 1997, giunge ai più recenti "The Sentinel"/"Il traditore al tuo fianco", di C. Johnson (2000) e a "Vantage point"/"Prospettive di un delitto" di P. Travis (2008). Tutti film il cui denominatore comune e' la sostanziale convergenza sull'"azione", nei confronti della quale la materia "seria" (equilibri internazionali, rivendicazioni, strategie economiche e militari) influisce come pretesto o "sfondo nobile" - a seconda delle capacita' e delle sensibilità - più o meno plausibile, più o meno problematico.
Parimenti, "Olympus has fallen" privilegia in maniera diretta l'alternanza canonica battere/levare, azione/interlocuzione, giostrando sui tempi e riducendo al massimo le pause. In tal modo, come non piove sul fatto che, ad esempio, molte battute risultano indifendibili non tanto per il loro contenuto propagandistico quanto perché esauste causa logorio - quindi involontariamente caricaturali, parodistiche loro malgrado - (effetto simile a quello prodotto da un attore del calibro di Freeman che deve pronunciarne diverse relegandosi, e non da oggi, in una sorta di pigrissima routine manieristica), e' pure vero, fatta la tara a qualche forzatura e inesattezza, che la bilancia del godimento torna in assetto grazie alla spiccia guasconeria di un simpatico marpione come Butler che, con l'aria stanca del grosso sanbernardo costretto agli straordinari (tipica del fisico prestante con principi di appesantimento), corre, rotola, fa a cazzotti, brutalizza alcuni avversari e trova pure il tempo per fare da padre putativo al piccolo rampollo trascurato della real casa presidenziale. Su un equilibrio tale, la retorica (che per quanto trita e di parte ha sempre un suo scopo) si stempera un bel po' e viene confinata negl'incastri narrativi che tutto sommato t'aspetti: il quadretto familiare introduttivo a Camp David; i concitati vertici tra le autorità assiepate attorno all'usuale "tavolo della crisi"; il pistolotto finale che ribadisce orgoglio nazionale, coesione d'intenti e bla, bla. In mezzo, iperdinamismo e schermaglie; mestiere delle armi e una certa reiterazione violenta sulla figura femminile; aerei cargo a precipizio in primissimo piano ed elicotteri che si sbriciolano come moscerini piezoelettrici: raffiche penetranti che svellono zolle dai prati immacolati della Casa Bianca e Radha Mitchell che sembra capitata nel film per caso. Fuqua raccoglie, frulla tutto e serve un cocktail come detto retorico ma non pretestuoso/indigesto (vd. l'ultimo "Die hard") e non si perde. Non del tutto. Scarta di lato.
TFK