giovedì, aprile 04, 2013

A proposito di: FIGHT CLUB, quattordicenne che fa domande (I)



"Si e' mai chiesto perché sui voli di linea ci sono in dotazione le maschere ad ossigeno ?", fa un giovanotto dall'aria decisa al coetaneo sedutogli a fianco nel posto che delimita il corridoio centrale dell'aereo. L'altro lo fissa per un istante, perplesso. Forse pensa di avere già visto quella faccia, magari nello specchio, quella stessa mattina. Forse riconosce se stesso per la prima volta... E' la zona interiore di ognuno di noi trascurata dall'aderenza passiva ad uno standard di vita basato sull'evidenza e sulla ripetizione che si e' destata e parla. Come un meccanismo innescato che, superato lo scatto iniziale, non può più fermarsi, quella zona ora agisce, interroga. "In situazione di pericolo evidente, a diecimila metri d'altezza, gran parte delle persone si abbandona al panico. La respirazione diventa concitata, affannosa. Si prendono grandi boccate di ossigeno dalla maschera. Questo produce uno stato di euforia. Alla lunga, di semincoscienza. Poi di torpore. A quel punto, cioè, sei pronto a morire, senza rendertene nemmeno conto... Ha fatto caso alle illustrazioni sul cartoncino che riporta le procedure in caso di emergenza ? Guardi i volti: occhi fissi, sguardi assenti. Calmi e tranquilli come vacche indù. Capisce di che parlo ?", chiede il giovanotto (interpretato da Brad Pitt) al sempre più esterrefatto ma incuriosito interlocutore (un emaciato Edward Norton). "No". "Illusione della sicurezza, del controllo. Lasciar credere che esista risposta ad ogni domanda".

Proprio questo era l'assunto di partenza di "Fight Club" di David Fincher, tratto dall'omonimo romanzo d'esordio dello scrittore Chuck Palahniuk (pron. "polanik"). Uscito durante la stagione cinematografica 1999 negli Stati Uniti con scarso successo e approdato poco dopo in Europa, in particolare alla Mostra del Cinema di Venezia dove raccoglieva pressoché unanimi stroncature, secondo le consuete categorie del film "nichilista", "cupo", addirittura "diseducativo", era interpretato dal divo Brad Pitt in versione pugilistico-trasandata, dall'allora nuovo talento del cinema a stelle e strisce, Edward Norton e dall'inglese Helena Bonham-Carter in una singolare versione alternativa del suo classico personaggio tardo vittoriano. Viene innanzitutto da chiedersi, ora come allora, cosa abbia tanto disturbato lo stomaco dei custodi del gusto europeo - quello americano essendo, assecondando con cautela una generalizzazione, storicamente più esposto alla "distrazione" indotta dalla matrice industrial-spettacolare del prodotto - stomaco che, generalizzando con altrettanta cautela, si presuppone avvezzo a qualunque stranezza o "provocazione". Cosa abbia irritato la sensibilità corrente nei riguardi di un film "laterale" pur se integralmente hollywoodiano, costruito e concepito nel rispetto delle sue regole interne, delle sue necessita' commerciali (i finanziamenti - il film era prodotto anche dalla 20th Century Fox - campagne pubblicitarie, cast costituito da almeno una star riconosciuta e da attori, anche se con alterne vicende, considerati in ascesa), quindi anche delle aspettative di un pubblico potenziale allenato da anni a visioni rispondenti a requisiti definiti, immediatamente riconoscibili. Diretto poi da un regista, Fincher, che aveva esordito nel '92, proveniente dalla pubblicità e dai video musicali, con "Alien 3" e si sarebbe successivamente imposto con opere diverse ma comunque molto caratterizzate e in teoria in ugual modo appetibili, tipo "Seven" (1995) - successo incondizionato e pellicola ispiratrice d'innumerevoli varianti e rivisitazioni - o "The game" (1997) - esperienza infelice, misconosciuta se non addirittura invisa -. Per rispondere al predetto interrogativo e' utile fare un passo indietro e tornare al punto di partenza: si parlava della necessita di porre delle domande, di porsi delle domande. Già. Ma quali ? Quelle giuste, si dirà. Ma quali sono ieri/oggi le domande giuste ? Uno dei principi fondamentali della logica contemporanea spiega che "non tutte le domande sono sensate e che non tutte le domande sensate ammettono risposta", cioè che esiste sempre uno scarto tra le domande che si pongono e le risposte che si danno. In maniera molto semplice, il film si sforzava da subito (ecco un primo elemento di freschezza nonostante gli anni trascorsi) di riaffermare l'improrogabilità d'interrogarsi da parte dell'uomo del ventesimo secolo, almeno allo scopo di spezzare il cerchio, quel senso impalpabile ma costante d'irrealtà che s'irradia dalla sua esistenza quotidiana così regolata, scandita da presunte invarianti consolidate dall'abitudine, organizzata dall'efficienza impersonale degli orari (e questi dalla tecnologia), sin nei minimi dettagli. "Cominciare a pensare" osservava Camus, "vuol dire essere minati. Instaurato il movimento della coscienza, la realtà si scrosta della sua apparenza rassicurante e comincia a produrre l'assurdo. Nulla e' più come prima". E questo e' esattamente il processo che subisce all'inizio della vicenda - un inizio raccontato per brevi scene autosufficienti, montate rapidamente in successione e commentate da una piatta voce-off monologante - il personaggio di Norton, anonimo funzionario del ramo assicurazioni e infortuni di una grande industria automobilistica, che spende quasi tutto il suo tempo passando da un aeroporto all'altro degli Stati Uniti, dove lo conduce il suo lavoro di perito, finalizzato, attraverso l'utilizzo di parametri matematici standard da adattare ai casi specifici di singoli sinistri, a stabilire se un determinato modello deve essere o meno ritirato dal mercato una volta accertato che un suo difetto di fabbricazione potrebbe superare il tetto massimo di richieste di risarcimento calcolato dalla casa produttrice. "Aeroporto di Vancouver, aeroporto di Dallas. Seattle, Miami. Avanti e indietro. Perdi un'ora, guadagni un'ora. Ma e' sempre la tua vita che se ne sta andando, un minuto alla volta...". L'inconsistenza della scansione dei giorni si manifesta con l'emergere dell'insonnia, ovvero di quello stato alterato di lucidità, di motilità forzata del corpo (chiara metafora dell'ossessione americana/occidentale a capitalizzare) che lungi dal condurre alla pazzia - cioè, per quanto paradossalmente, ad una via d'uscita o, quantomeno, ad un approdo - inchioda ad uno stato di eterno torpore, di estenuazione mista a stupore. Dice ancora il protagonista: "Quando soffri d'insonnia, non sei mai completamente sveglio ma nemmeno del tutto incosciente. Ogni cosa sembra attutita, liquida. La copia di una copia di una copia...".

prima parte

"Fight Club"
di: D. Fincher.
con: E. Norton, B. Pitt, H. Bonham-Carter
- USA 1999 -
135'


TFK

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