lunedì, maggio 06, 2013

MIELE

Miele
di Valeria Golino
con Jasmine Trinca, Carlo Cecchi, Libero di Rienzo
Italia/Francia 2013
genere: drammatico
durata, 96'

"E adesso quanto ci vuole?" chiede la donna distesa sul letto. "Due, tre minuti" risponde rassicurante la ragazza che le sieda accanto.

E' una questione d'attimi, giusto il tempo che intercorre tra l'ultimo sorso di vita somministrato dal cocktail letale, e la perdita di sensi che lascerà il posto all'agognata dipartita. Una cerimonia mortifera ed insieme salvifica per le caratteristiche di liberazione dal male, fisico ed anche psicologico, connesse con la scelta dei malati terminali che Irene, detta "Miele", aiuta a morire con sofferta quanto professionale partecipazione. Una liturgia a domicilio messa in pratica nella sacralità di un'ideale personale ricompensato con il denaro necessario a costruire una facciata di legalità che impedisca agli altri di guardare l'abisso del suo lancinante dolore. Per la sua opera prima Valeria Golino di professione attrice, e da oggi ufficialmente regista, non poteva scegliere tema più ostico, perché "l'eutanasia" rimane, soprattutto in Italia, una questione di cui è meglio non parlare. Un tabù che la settima arte ha cercato di sfatare con una bibliografia ancora giovane ma non per questo meno agguerrita, con un capolavoro come "Million Dollar Baby" (2004) a rilanciare una diatriba che in questa stagione aveva avuto due precedenti importanti come "La bella addormentata" (2012) di Marco Bellocchio e "Quelques Heures de Printemps di Stéphane Brizé", presentato all'ultimo Festival di Locarno e purtroppo ancora inedito sui nostri schermi. Oltre alle polemiche, c'era per la Golino un rischio più propriamente artistico che risiedeva in una "spettacolarità" del dolore" sempre più spesso abbracciata dai nostri produttori, ansiosi di replicare al cinema format già collaudati e conosciuti dal pubblico dei giornali e delle televisioni. Ed invece operando in maniera coraggiosa e non meno personale la Golino sceglie la strada più ovvia ma non per questo meno impervia, optando per un cinema tout court, in cui le immagini diventano il contenuto di una storia che parla di persone e delle loro emozioni, raccontate in punta dei piedi, con un pudore che riesce a fermarsi sulla soglia dell'ultimo atto - la sequenza d'apertura con Irene sul posto di "lavoro" sottratta allo sguardo dello spettatore da una vetrata spessa come un fondo di bottiglia è una vera potrebbe esserne la dichiarazione d'intenti - laddove neanche alla macchina da presa è concesso di entrare, ed in cui il vojerismo onniscente così in voga nei nostri tempi, ecco la differenza, è costretto a desistere. Una misura che investe l'intera opera a partire dalla sua direzione che, alla pari della protagonista - che assiste il trapasso dei suoi clienti partecipando in maniera defilata - diventa parte in causa della vicenda, condividendo gli affanni di Irene con primi piani ravvicinatissimi e "pedinamenti" di zavattiniana memoria, ma parimenti riesce a distaccarsene alternando il tranche de vie al referto psicologico, con una continua messa a fuoco che "Miele" non manca di certificare quando, con un montaggio ravvicinato ci mostra dapprima una soggettiva di Irene che dalla finestra di un albergo messicano osserva la strada che separa l'abitazione dalla farmacia dove acquisterà le medicine da utilizzare per i suoi servizi, e poi, in rapida successione, la sostituisce con un'altra pressochè identica, ma con Irene questa volta presente nello spazio scenico, a suggerire l'avvenuto cambiamento di sguardo.

Una capacità di guardare, quello della Golino, che riesce a tradurre l'indubbia bellezza delle inquadrature in sostanza che produce senso. In questo modo la natura sfuggente di Irene, il suo carattere introverso ed irriducibile si traduce in un puzzle di dettagli anatomici (uno zigomo, gli occhi, la bocca) in cui la personalità della donna risulta dall'impossibilità di coglierla, fisicamente, nella sua interezza, oppure nella sua collocazione ai margini del campo scenico; il suo isolamento nella sovrapposizione del volto a superfici trasparenti - il vetro della discoteca, il parabrezza del motorino - mentre l'ombra disegnata sul pavimento o riflessa in una pozzanghera d'acqua diventano il segno di una lacerazione, quella di Irene, proposta dal contrasto tra il sole della casa vicino al mare, dove la ragazza si rifugia per ritrovare se stessa, ed il grigiore della città, luogo dell'illegalità e dei tristi ricordi. E poi l'intuizione di rispolverare un attore di peso come Carlo Cecchi, assegnandogli la responsabilità di un contraltare - l'ingegnere Carlo Grimaldi depresso e pronto a farla finita con l'aiuto di Irene che invece si rifiuta di farlo per motivi etici - a cui la sceneggiatura consegna il disincanto necessario ad evitare le derive ricattatorie di una materia altamente emotiva, e di riflesso, attraverso la pungente dialettica e l'imprevedibilità del suo personaggio, un surplus di concretezza di cui il film si avvale quando trasforma lo scontro tra Irene e Carlo in una condivisione amicale profondamente sincera. Ispirato a quella libertà controllata che da sempre appartiene all'alfabeto cinematografico della scena indie americana (Gus Van Sant, Spike Jonze, Sofia Coppola) "Miele" è un'opera sfrenatamente cinefila ancora prima di iniziare, con il poster del film a reinterpretare in chiave personale il frame di un classico come "Dressed to Kill" (1980) di Brian De Palma, con Irene in versione Michael Caine, e come lui "vestita per uccidere" seppur in un diverso contesto. Frammentario ed ellittico, scandito da una colonna sonora potente e visionaria, il lungometraggio di Valeria Golino è un film denso di significati e di stati dell'anima, girato in modo superbo dalla sua regista, ed interpretato con aderenza fisica e qualche incertezza da Jasmine Trinca, ancora una volta, dopo il film di Giorgio Diritti ("Un giorno devi andare",2013) alle prese con un ruolo da actor's studios. Se il buongiorno si vede dal mattino il film di Valeria Golino è il segnale che riaccende le speranze su un cinema italiano finalmente libero da conformismi e scorciatoie, ed insieme un augurio per l'imminente festival di Cannes a cui "Miele" parteciperà gareggiando nel prestigioso "Un Certain Regard".

(pubblicata su ondacinema.it)

5 commenti:

veri paccheri ha detto...

ciao, ho molto apprezzato l'interpretazione di Jasmine Trinca che in questa indossa le vesti di una ragazza in cerca anche della propria identità, in un percorso di osservazione, insieme doloroso e disincantato, condotto ai margini della vita degli altri e delle loro sofferenze; siamo quasi in un "le vite degli altri" ma qui l'osservazione si fa partecipazione crescente e scava dentro all'animo della protagonista con una serie di domande che esplodono in una ineluttabile presa di coscenza.
Il tema è difficilissimo come ben hai descritto tu, e la messa in scena delal Golino è sicuramente di livello - sostengo la Golino, ritengo abbia molto da dire e spero di rivederla presto dietro la macchian da presa.
la sua traduzione in immagini è composta, pudica, ma mi è parso che la trasposizione manchi del giusto equilibrio; la regia da sola non riesce, a mio avviso, a coprire i buchi ed a volte i sorvoli eccessivi della sceneggiatura; certe sequenze restano quasi abbandonate a loro stesse oppure non scendono in profondità.
L'elaborazione del lutto materno così come la presa di coscienza finale mi sono sembrate un po' all'acqua di rose, accennate.
Certo è che Irene se ne esce dalla storia con comunque un brutta gatta da pelare, che cova in lei e con la quale dovrà fare i conti.

nickoftime ha detto...

Ciao..i film sono come le persone, nn possono piacere a tutti nello stesso modo..comprendo le tue riserve, mentre per quanto mi riguarda il linguaggio cinematografico della Golino mi ha convinto ed anche emozionato..

veri paccheri ha detto...

è vero, ognuno lo vive a proprio modo. è curioso il paragone che hai fatto. grazie della risposta.

nickoftime ha detto...

però se ci pensi e' vero, i film sono pezzi di vita e come tali ci sono più o meno vicini, a volte ci sono amici, a volte provocano dispiacere, come la vita appunto
nickoftime

aspirine ha detto...

Non m'è piaciuto particolarmente, a parte l'intro e Carlo Cecchi, fantastico. Trovo Jasmine Trinca troppo inquadrata (abbiamo capito che non ha i pori dilatati: beata lei), ma soprattutto finta e forzata. Sarà che non sopporto più l'accento romano quello che fa parlare con la patata in bocca