Il regno dei sogni e della follia
di Sunada M.
Giappone 201
genere, documentario
durata, 118'
E'
verosimile ipotizzare di far coesistere l'idea di un'entità produttiva
in teoria votata ad avere anche una voce in capitolo sul Mercato con la
sua gestione, simile per molti aspetti all'incognita di organizzare
un'eterogenea famiglia allargata ? Forse si'. A giudicare almeno
dall'interazione che ha messo a stretto contatto per anni - una
trentina, più o meno, e oggi funestata dalla prospettiva di un futuro
incerto - le componenti umane/inventive e quelle tecniche di decine di
persone radunate nello Studio Ghibli (nome ispirato dalla fascinazione
di Miyazaki per il bimotore italiano Caproni 309 'Ghibli' e che
la dizione giapponese restituisce come "Gibli"), impegnate a concorrere a
dare fisionomia definita alle intuizioni di due individui fuori da
comune, l'uno quasi il complemento dell'altro. Miyazaki Hayao, appunto,
da un lato, classe 1941, uomo metodico, incontentabile ("Domani. Domani
disegnerò meglio"), se pungolato loquace, bonariamente tirannico, quanto
intriso di un ostinato sebbene composto scetticismo ("Il mondo non sa
dove sta andando"; "Anche l'innovazione, come parte di un mondo
interamente meccanico, finisce per produrre sogni maledetti"); e
Takahata Isao, di un lustro più anziano, dall'altro, al contrario
laconico, presenza fisica stessa assai elusiva - nel film compare
pochissimo - in apparenza assorto o distratto ai limiti dell'inerzia,
esecutore certosino di portenti perlopiù negletti, dalla gestazione
travagliata e pressoché sempre fuori tempo massimo, come dagli esiti
avvilenti al botteghino. A meta' strada fra i due, punto di equilibrio e
parafulmine alle divergenze, stratego e produttore, Suzuki Toshio,
intimo di entrambi e co-fondatore dello Studio.
In tal senso, non
risulta dunque forzato o esageratamente poetico il titolo del
documento per immagini dedicato da Sunada alla fucina prima delle
animazioni nipponiche, insediatasi in seconda pianta stabile presso
Koganei - conurbazione dell'area metropolitana di Tokio caratterizzata
da edifici bassi, sovente muniti di tetti praticabili a mo' di
veranda-osservatorio e costellata di zone verdi da cui non e' inusuale, a
margine di giardini silenziosi che appaiono a volte imprevisti dietro i
profili delle costruzioni, vedere svettare frondosi alberi d'alto fusto
- Non e' così improbabile, in altre parole, che i sogni (memorie personali rielaborate, sedimenti letterari, suggestioni, fantasie, sofferenze composite, malinconie insopprimibili) e le follie (l'ossessione per l'esplorazione delle forme -
"La ricerca di un ideale che sfugge sempre", osserva Miyazaki - per la
composizione di moti interiori complessi, quindi spesso contraddittori;
la dedizione ad una tecnica di preferenza artigianale
nell'illusione/speranza di eliminare/ridurre la distanza tra
concepimento ed espressione per il tramite di un contatto fisico con
i parti dell'immaginazione e dell'intelletto) abbiano trovato dimora
comune in un luogo in cui e' a portata di sguardo scrutare il gioco
d'ombre e i riflessi della luce sulle foglie e sui fiori per la presenza
di grandi finestre e di ampie vetrate; spiare il cielo a fine giornata
da angoli privilegiati a qualche metro da terra; maneggiare matite,
pastelli, pennelli, scartabellare innumerevoli fogli su cui i tratti
sono appena abbozzati o già perentoriamente determinati, in un
andirivieni in cui disciplina ed estro, calcolo e improvvisazione,
sembrano aver raggiunto un soddisfacente compromesso e essersi dati sul
serio, per una volta, il medesimo obiettivo.
Del
resto, la pellicola indaga, appoggiandosi ad una struttura circolare
cadenzata su ritmi lenti contrappuntati dalla garbata mestizia delle
note di Masakatsu Takagi, proprio un periodo al tempo fecondo e
contrastato per lo Studio, quello relativo alle fasi finali della
realizzazione dei (forse) ultimi lavori di Miyazaki e Takahata: "Si alza
il vento" e "La storia della Principessa Splendente". Ciò che si
respira, infatti, tra i corridoi ingombri di schizzi, fotografie,
attrezzi da disegno, decaloghi affissi alle pareti tra l'assertivo e
l'edificante, sparuti pupazzetti in scala degli eroi della Casa, e'
innanzitutto un clima da chiusura di ciclo, da bilancio lucido di un
lungo arco esistenziale durante il quale, al netto d'inevitabili
altalene tra successi e rovesci, il tentativo di dare coerenza e
continuità allo slancio creativo non e' stato mai perso di vista.
Miyazaki - calzoni comodi, occhialoni quadrati, chioma e barba bianca su
grembiule avorio stropicciato e perenne palparsi alla ricerca di una
sigaretta - per mezzo di una applicazione metodica inderogabile, che con
i decenni e' diventata il ritmo interiore di una vita intera: una volta
la settimana ripulitura del fiume vicino casa; dal lunedì al venerdi -
dalle nove alle ventitré - al tavolo di sempre, le dita ad impugnare
matite 5B o pennelli, nella progressione minima ma indispensabile di
migliaia di tratti su migliaia di fogli. Di tanto in tanto un'occhiata
alla gatta-mascotte Oshiko, un giro tra le postazioni degli altri
disegnatori, una risata, un'idea o un commento a voce alta: la sintesi
volutamente distante e un po' naïf di una filosofia delle
piccole cose, degli stupori minati dalla consapevolezza, delle purezze
perdute (quest'ultime figlie anche di un rapporto mai del tutto
pacificato con l'infanzia, vissuta relativamente a riparo - al contrario
proprio di Takahata - dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale),
penetrata fin nei gesti più quotidiani. Takahata - detto "Paku-san",
vista l'abitudine di sgranocchiare sempre qualcosa - per l'inverso,
grazie ad un'indolenza silenziosa talmente manifesta,
un'imperturbabilità in apparenza talmente inscalfibile da sedimentarsi
solo - trovando così uno specifico, irripetibile senso - nei tempi
dilatati di opere (come accennato, quasi mai consegnate alla scadenza)
modellate nella forma di prodigi compositivi insensati tanto ambiscono ogni volta a ridisegnare i confini delle possibilità stilistiche e narrative - e i correlativi concetti di meraviglioso, struggente e incantato - di un gesto artistico che solo l'aderenza a formule corrive c'induce ancora a relegare in un genere.
Differenze caratteriali, allora, comportamenti antitetici che, pero',
nel reciproco gioco delle influenze spiegano almeno in parte le ragioni
di una collaborazione consolidatasi via via nonostante, per dire, e a
ricordarlo e' lo stesso Miyazaki, durante il frangente delle lotte
sindacali in seno alla Toei a cavallo degli anni Sessanta e Settanta,
Takahata, pur concorde, finisse spesso per addormentarsi dove capitava,
per lo sconcerto impotente dello stesso Hayao. Una vicinanza ineluttabile,
per certi versi, ribadita anche da un'altra figura importante, Oshii
Mamura ("Patlabor", "Ghost in the shell", "The sky crawlers", "Avalon",
et.): "La loro e' un'intesa straordinaria, anche perché non sono proprio
buoni amici. Sarebbe un grande errore pensarlo. In un certo senso, sono
come cane e gatto, ed entrambi hanno dei lati che l'altro non accetterà
mai. Eppure fanno senza problemi fronte comune".
E
se "a fare film l'infelicita' e' assicurata", in conclusione resta
scritto che "per altri dieci anni penso di voler lavorare". Magari non
e' ancora esaurito il bisogno di ricordare la pazienza monumentale degli
alberi; di guardare il cielo più come un invito a misurarsi che come un
rifugio: di rincorrere e ascoltare il vento, lui che ha sempre qualcosa
da dire. Chissà come la vede Takahata.
TFK