Conciliando intrattenimento e riflessione "2Night" affascina e seduce senza rinunciare a mettere in scena le inquietudini del nostro tempo. Di questo e altro abbiamo parlato con il suo regista, Ivan Silvestrini.
Il tuo film cerca di conciliare intrattenimento e riflessione. Tenendo in considerazione anche ciò che hai fatto prima di “2Night” mi sembra che il tuo cinema ruoti attorno a queste due polarità
Mi fa piacere che tu lo dica perché questa è la mia missione nella vita (ride). Credo che negli ultimi anni si sia creata una frattura tra autorialità e pubblico con la quale un regista come me si deve confrontare, magari cercando di fare film che riescano a colmare questo divario. Dai discorsi di amici e conoscenti, poi, il concetto di cinema d’autore è troppo spesso sinonimo di noia, supponenza, incomunicabilità, nozioni che vanno contro le caratteristiche di popolarità di cui io penso debba farsi garante. Ecco perché nel mio piccolo sto cercando di fare film impegnati senza dimenticare il pubblico, perché mi interessa che si veda quello che sto raccontando.
Una disaffezione che ha costretto il cinema italiano, soprattutto quello più indipendente, ad andarsi a cercare il proprio pubblico con una distribuzione mirata di sala in sala con la presenza di cast e regista. Come esempio mi viene in mente un film come “Lo chiamavano Jeeg Robot” ma ce ne sarebbero molti altri.
Ovviamente alle ragioni di cui ti ho appena detto si uniscono una serie di congiunture sociali ed economiche per cui i giovanissimi, avendo alternative diverse per poter vedere un film, spesso non reputano così importante l’esperienza della proiezione in sala. Certo, mi rendo conto che quando una persona ha preso troppe fregature tende a rinunciarvi; d’altro canto voglio sperare che non sia del tutto così, perché quando vai al cinema sei in qualche modo costretto a fruire dell’opera così com’è stata pensata dal regista e quindi senza le interruzioni e le distrazioni della visione casalinga, Inoltre, guardare un film insieme ad altri potenzia la forza di quest’ultimo.
Tu però in quanto regista di web series sei stato anche artefice di un cinema pensato per altri tipi di visione, non necessariamente in sala.
Si l’ho fatto anche come atto di reazione verso un sistema che temevo non mi avrebbe mai considerato. “Stuck”, la mia prima web serie è stata resa possibile grazie a una serie di innovazioni tecniche come quella rappresentata dal fatto che YouTube cominciasse a trasmettere in hd e che nel frattempo fosse entrato in commercio un tipo di telecamera che a un costo limitato permetteva di girare con effetti cinematografici. Io all’epoca vedevo che al prezzo di un cortometraggio si poteva realizzare qualcosa che andasse oltre i limiti narrativi di un corto, e l’ho sfruttato sul web. La rete ha avuto su di me un effetto liberatorio, perché mi permetteva di esistere senza dover chiedere il permesso a nessuno. C’è poi da considerare che se non lo avessi fatto non avrei avuto le possibilità che poi si sono presentate. Il mio primo film (“Come non detto”, 2012) è andato benino per essere un’opera prima ma è in seguito all’uscita in sala che ha avuto popolarità. E’ stato molto amato da tutte le comunità gay del mondo: era palese, cioè, che si fosse creato un apprezzamento emotivo trasversale e transnazionale, cosa che mi ha fatto davvero piacere. Ciò nonostante senza “Stuck e “Under” - la seconda web serie da me realizzata - non sarei stato considerato in grado di fare un lungometraggio come “Monolith" (n.d.) che in qualche modo aveva bisogno della padronanza dell’inglese da me dimostrata in “Stuck" ma anche di una certa dimestichezza nella narrazione di genere del tipo di quella esibita in “Under”.
Restando alle web series, ti volevo chiedere qual è stata per te la principale differenza rispetto ai lavori che hai fatto per il grande schermo.
La prima è la frammentazione della narrazione che è ancora più forte della serialità televisiva, perché si stima che la concentrazione dell’internauta non duri molto. Se fosse stata fruita in un’unica soluzione la mia prima serie web sarebbe durata all’incirca 100 minuti ma di fatto è stata distribuita a pillole di 10’ per far affezionare progressivamente il pubblico ai personaggi. Ovviamente come narratore questo mi ha permesso una sperimentazione che non sarebbe stata possibile sul grande schermo. Il cinema italiano non si è ancora cimentato su un genere come urban fantasy che è quello utilizzato per “Under”. In realtà e per esempio, “2night” nasce da un’intuizione delle due produttrici - Alessandra Brilli e Serena Sostegni della neonata “Controra film” - le quali, avendo visto le mie serie, hanno pensato che nella dimensione filmica potessi padroneggiare una macchina cinema un po' più leggera e dinamica, che poi era quella che loro potevano mettere insieme. In altre parole, avere visto il mio film le aveva rassicurate sul fatto che potessi destreggiarmi entro una narrazione continuativa: ciò che le ha convinte a scegliermi, però, è che sul web avevo dimostrato di poter gestire un’opera come “2Night” che, essendo, diciamo così, nouvelle vague nell’approccio, aveva bisogno di una leggerezza della macchina da presa che era la stessa dei miei lavori.
In Italia è più facile esordire che fare l’opera seconda, per cui ti volevo chiedere quanto è costato il film.
“2Night” è un film coraggiosissimo perché è stato prodotto con un budget - 140 mila euro - ultra indipendente. In effetti è stato prodotto come un ambizioso mediometraggio. Nonostante questo, il film ha una confezione elegante e una bellezza anche visiva che dissimula le ristrettezze del budget.Ti ringrazio perché questa è una cosa a cui ho riservato un’attenzione particolare. Ho lavorato molto con Davide Manca, perché tengo molto all’immagine. Sono convinto che l’elemento visivo non debba sovrapporsi alla narrazione ma siccome questo era un film sulla seduzione e sull’attrazione, non vedo perché le immagini non dovessero aiutare il pubblico a immergersi nella storia. Volevo che il film avesse un look sensuale e sexy all’occorrenza, quindi ho usato tutte le armi che avevo. Non doveva sembrare povero e credo che non lo sembri grazie a una serie di scelte premeditate come quella di evitare immagini buie nonostante il film fosse ambientato tutto di notte.
A proposito di immagini, quelle del tuo film sembrano attirare lo spettatore dentro lo schermo.
Ma anche dentro l’abitacolo. Volevo fare un film voyeurista nel senso più nobile del termine in cui lo spettatore non avesse uno sguardo distaccato rispetto a quello che succede ma fosse, di fatto, una sorta di terzo incomodo. Tu sai la teoria dell’effetto provocato da un osservatore esterno che attraverso lo sguardo riesce a modificare la realtà che gli sta davanti. Ebbene, così succede nel cinema quando la macchina da presa si fa invisibile e ti permette di osservare qualcosa che diventa profondamente intimo. Ovviamente, credo che atmosfere come le notti passate in macchina con la persona che ci piace sono molto particolari. Se ci pensi l’automobile di notte è una sorta di alcova dove il nostro corpo sparisce nell’oscurità e solo il nostro viso viene illuminato dalle luci della città. E’ un’atmosfera che tutti abbiamo vissuto e sono momenti che spesso ricordiamo per sempre. E’ questa potenza che ho cercato di rievocare nelle immagini del mio film.
Nonostante l’indubbio appeal del tuo film e alla luce delle difficoltà del nostro cinema, mi piaceva che tu raccontassi quanto è stato difficile produrlo e poi distribuirlo.
Non era scontato che un progetto cosi indipendente potesse uscire in sala. Produrlo è stato massacrante. Ho girato in 2 settimane: 13 giorni con gli attori e uno con i passaggi in macchina. A tal proposito, per un film del genere avevo predisposto una predominanza di riprese fatte con il camera car che però si è rotto il primo giorno e quindi tutto il film l’abbiamo dovuto ripensare con altre tecniche, ad esempio, attaccando la telecamera sul cofano e sui lati della macchina. Questo ha costretto l’attore (Matteo Martari) a guidare veramente in mezzo al traffico mentre recitava, cosa che ha reso tutto più realistico ma certamente più difficile. Abbiamo lavorato solo di notte, con quello che significa in termini di alterazione dei bioritmi. In più, per dirigere gli attori e per sfruttarne le intuizioni e le improvvisazioni, ho fatto tutto il film dentro la macchina. Ero sempre lì con un piccolo monitor e spesso anche quando li si vede entrambi in scena io sono rannicchiato dietro di loro in posizioni indicibili ma indispensabili per cogliere la verità della recitazione.
Gli attori - e l’energia con cui interagiscono davanti alla macchina da presa - sono uno dei punti di forza del film. Come sei arrivato a loro.
Matteo lo reputo una mia scoperta. Sono stato il primo regista a farlo lavorare, avendolo diretto in “Under”. Già lì mi aveva colpito la qualità della sua recitazione, e anche se il suo ruolo era molto tenebroso sapevo che era in grado di interpretare anche personaggi diversi da quello. Matilde invece, dopo averla vista ne “Il capitale umano”, per me era diventata l’icona di un nuovo cinema che avrei voluto incontrare. Lei era stata sempre molto impegnata ma il primo film da protagonista gliel’ho fatto fare io e questo mi fa molto felice.
La bravura della Gioli mi sembra in generale molto sottovalutata. Di lei non si considera il fatto che la sua recitazione ogni volta deve sublimare un’avvenenza a tratti ingombrante.
Esatto. Io, per esempio, mi ritengo un cassavetesiano e un bergamaniano, cioè credo moltissimo nel volto degli attori, per cui non penso che il cinema possa essere pressapochista nella scelta di una faccia. Ovviamente, un attore deve essere bravo ma il cinema essendo un’arte pittorica non si basa esclusivamente sulle qualità specifiche ma anche sui modi con cui l’attore riesce a manifestarsi davanti alla telecamera. Credo che lei in questo film abbia dato tantissimo, regalandosi con una generosità che mi ha sorpreso ogni giorno. Ci sono alcune scene in cui Matilde si apre a livello emotivo come mai aveva fatto. Un giorno prima di girare una scena importante mi disse che sarebbe arrivata a dire le battute previste dal copione precedendole con parole e pensieri che non c’entravano niente con la storia. Così facendo, ha compiuto una processo di reminiscenza Stanislavskijana in cui ha richiamato dentro di sé un dolore molto personale che poi ha donato al suo personaggio. E’ stato impressionante vederlo accadere davanti ai miei occhi.
Come hai lavorato con gli attori.
Abbiamo fatto molte prove a tavolino perché bisognava creare l’alchimia giusta. Allo stesso tempo non volevo ripetere troppe volte il testo, perché mi serviva che l’intesa tra i due protagonisti esplodesse definitivamente sul set. Inoltre, non volevo fare una storia dove i personaggi si incontrano, si piacciono e si capisce subito che sono fatti uno per l’altra, perché secondo me questa è una forzatura del cinema romantico. Al contrario, desideravo realizzare una vicenda anti-romantica, almeno in partenza, raccontando come due persone che si vogliono non sono fatte per forza l’una per l’altra. Sullo schermo e nella prima parte della narrazione, queste persone non scivolano perfettamente uno sull’altro ma sono ispidi, antagonisti ai loro caratteri.
Rispetto a certo cinema giovane, il personaggio della Gioli utilizza un linguaggio per nulla allusivo - anche dal punto vista sessuale - arriva al punto con una crudezza di vocaboli atipica per il nostro cinema, come pure per quello americano, ma che è realistico nel registrare un cambiamento antropologico in cui è la donna a farsi cacciatrice mentre l’uomo diventa preda.
Si. Noi volevamo raccontare il modo in cui i rapporti maschio e femmina stanno subendo delle mutazioni. Secondo me, quella di lei, la induce a esprimersi come fosse l’incarnazione del desiderio maschile nato dalla sovrapposizione di un lato indubbiamente affascinante con un altro un po’ respingente. In tal modo si ottiene una donna giustamente libera di esprimere i propri desideri e in grado di privare di fatto il maschio di parte del suo atavico ruolo dominante, spingendolo addirittura a chiedersi cosa fare. Infatti il protagonista viene a trovarsi a disagio rispetto alle richieste della donna.
La tua storia inizia come un gioco poi diventa una cosa seria. Nel corso della vicenda i protagonisti tentano di stemperare i momenti più drammatici ma l’effetto catartico non riesce a cancellare l’ansia di vivere e i dubbi tipici della loro età. In questo termini lo scarto di atmosfera con il tuo film precedente, che era certamente più gioviale, era il modo con cui volevi cogliere lo spirito del tempo o rispondeva a uno stato d’animo personale.
“2Night” è il remake di un film israeliano, anche se quello di cui parli è ciò su cui abbiamo lavorato per sentirlo nostro. Diciamo che il mio primo film era per certi versi una favola necessaria, perché ciò che accade al personaggio del film può sembrare molto leggero nei toni in virtù delle tempistiche in cui si sviluppano i fatti della storia, mentre questo, non giocando tra passato presente e futuro ma con il qui è ora, produce sensazioni diverse che era onesto raccontare nel rispetto delle singole parti. Quindi relativamente al mio sentire di maschio contemporaneo e a quello delle donne del nostro tempo. Credo che la figura interpretata da Matilde non vedrà un’immedesimazione immediata di tutto il pubblico femminile. A questo proposito, forse la cosa più interessante da chiedersi, da spettatrice, è perché questo personaggio mi attrae o mi repelle. In più - da spettatore maschio - perché mi trovo a giudicare questa donna e qual è il retaggio che mi porta a farlo. Oggi il giudizio sociale su un certo tipo di donna è ancora quello degli anni cinquanta. Il pettegolezzo, la voglia di screditare la libertà femminile è ancora vivissimo. Se questo film potrà aiutare a interrogarci sul perché tale sentimento esiste ancora, allora vuol dire che ”2Night” è riuscito a fare il suo lavoro. In questo senso il film, nonostante il suo appeal, risulta impegnato.
A livello drammaturgico tu utilizzi due espedienti: uno è quello tipico del cinema americano di procrastinare il momento in cui i protagonisti faranno l’amore. Il secondo è rappresentato dal far capire che entrambi stanno omettendo una parte importante della loro personalità. Queste due scelte finiscono per catalizzare l’attenzione del pubblico mettendo in secondo piano gli svantaggi conseguenti alla particolarità dell’ambientazione.
Ho cercato di fare in modo che la macchina fosse un elemento forte senza diventare uno strumento claustrofobico. La mia intenzione era quella di creare un’aspettativa e un desiderio e poi di raccontare cosa accade fino a che tale desiderio venga soddisfatto o meno. Non a caso il film si apre con questa domanda e si chiude con la risposta alla stessa che non è propriamente dello stesso tono, perché il film parte da un desiderio assolutamente carnale e poi si evolve verso un’altra serie di questioni che trovano in parte una risposta nel corso di quelle ore.
I personaggi sono tutt’altro che stereotipati e tu un po' come in “Perfetti sconosciuti” lasci che la complessità delle loro personalità e ciò che c’è dietro le apparenze venga fuori per gradi.
Il gioco non è lo stesso di “Perfetti sconosciuti” ma allo stessa maniera quando incontriamo degli estranei abbiamo tutti una maschera per cercare di sedurli. In questo senso, il film rivendica con orgoglio la bellezza dell’approccio fisico rispetto a quello messo in atto tramite i social. Mentre nei social si ha la possibilità di ragionare su quello che sarà, sulla cosa più giusta da dire, dal vivo non funziona cosi, come dimostrano i personaggi che nel corso del loro confronto fanno un sacco di errori.
2”Night” racconta il senso d’inadeguatezza tipico di chi è giovane e, in particolare, il contrasto tra la frenesia vitalistica delle notti insonni e il vuoto che essa produce. In questo senso, l’incontro tra i due protagonisti diventa terapeutico per entrambi, perché permette loro di guardarsi dentro e di condividere ciò che sono veramente.
Io credo che, in realtà, sia diverso da quello che dici. Più che raccontare il vuoto di un incontro occasionale, qui si descrive la bellezza potenziale. Credo che in generale la nostra cultura, attraverso i retaggi del cattolicesimo, sia portata a puntare il dito contro le storie di una notte, mentre questo film vuole ridare dignità alle avventure. A volte basta una notte incredibile per ricordarsene tutta la vita, se è stata un momento speciale. Il non avere un po' di coraggio e spirito di avventura ti preclude questo tipo di possibilità.
Uno dei punti di forza del film è la capacità della messinscena di far dialogare due non luoghi, lo spazio interno rappresentato dall’abitacolo dell’automobile dove di fatto si svolge la storia, e gli esterni della città notturna attraversati dalla macchina, in maniera tale che il particolare (l’interno) diventi universale (l’esterno).
Ti ringrazio, io ci ho provato. Credo che il cinema sia un’arte pittorica. Assieme allo scenografo Federico Baciotti abbiamo cercato scorci di Roma poco sfruttati ma che potessero in qualche modo essere una sorta di manifestazione astratta delle emozioni provate dai personaggi. Quindi il film comincia nella zona della movida di Ostiense, che ha un certo tipo di architettura colorata, piena di murales e di metallo, con vie larghe, luminose e chiare, per poi districarsi attraverso l’anello di congiunzione del cavalcavia della tangenziale fino alle zone del Pigneto e di Tor Pignattara, che sono un dedalo, un labirinto con tutt’altra architettura utilizzata per rispecchiare il progressivo contrapporsi delle personalità dei protagonisti.
Priva della sua monumentalità Roma appare una città astratta e fantastica, quasi magica, dove si percepisce che potrebbe accadere qualsiasi cosa. Come avete lavorato con Davide Manca, cosa gli hai chiesto.
Ci siamo dati alcune regole. Per esempio, la notte non doveva mai essere completamente nera per cui abbiamo scelto un certo tipo di luci per l’interno dell’abitacolo e abbiamo sfruttato molto l’illuminazione della città per sporcare e rendere dinamiche le luci sul volto dei protagonisti.
Ci sono colori dorati. La città appare smagliante, con una predominante di toni che finiscono per trasfigurarla.
La fotografia, nella sua profondità di campo, è ciò che permette allo spettatore di avere un’immagine molto distinta di tutto ciò che gli sta davanti. Al tempo stesso, c’è un aspetto molto più selettivo che riguarda la sensazione del ricordo e del sogno. Secondo me, nei nostri ricordi teniamo i dettagli principali e poi delle masse di colore che fanno da sfondo ai primi. Da questo punto di vista, siamo stati molto impressionisti, trasformando le luci delle città in macchie di colore che fossero capaci di creare le percezioni di cui ti parlavo prima. D’altronde, chiunque, dopo un po' di tempo, non riesce più a sopportare la quantità di informazione visiva che la città offre mentre l’attraversiamo - come i protagonisti - a bordo di una macchina. Succede allora che il nostro cervello si focalizza su un unico elemento che, nel caso della mia storia, sono i volti di Matilde e Matteo sui quali converge l’attenzione, con la città che ogni tanto torna a emergere da quel morbido scorrere di colori che loro si lasciano dietro.
Il lavoro che avete fatto è così eccellente che più volte nel corso della visione ho pensato a “Collateral" di Michael Mann.
Sono emozionato perché sei il secondo che a proposito del film cita “Collateral”, uno dei miei titoli preferiti.
Dal punto di vista tecnico le riprese, per le difficoltà che presentavano, sono state una sfida vinta, perché la macchina da presa - e penso per esempio alla scena in cui restituisci i volti degli attori poggiati sopra il tettuccio dell’automobile - riesce a essere ubiqua senza alterare le proporzioni spaziali. Quali sono state le maggiori difficoltà.
Lo era. Abbiamo scelto una macchina spaziosa e trasparente. Io sapevo che volevo fare quell’inquadratura e quindi avevo bisogno di un tetto trasparente, capace di rendere il senso di uno sguardo onnipresente verso i personaggi. Quella prospettiva che tu citi soltanto un fantasma la poteva avere.
Che cinema ti piace e a quali film o registi ti ispiri.
Sono abbastanza onnivoro. Cerco l’emozione, e se un film è in grado di darmela tendo a essere buono anche in presenza di palesi difetti. Un regista che riesce a emozionarti, secondo me ha fatto il suo lavoro. Per tornare alla tua domanda ti dico Malick, il quale, per me, è una personalità unica, capace di regie poetiche e rigeneranti. Poi devo molto a Mike Nichols, studiato per il suo modo di raccontare coppie di personaggi con dialoghi serrati e meravigliosi, e a Michael Mann, il cui stile di riprese notturne è stato, se non un influenza esplicita, sicuramente viva in me durante le riprese, senza dimenticare un titolo come “Locke”, alla pari del mio ambientato in macchina. Le mie influenze principali sono però il cinema del nord europa, per quanto riguarda l’uso della luce che è ciò che più mi affascina delle potenzialità della settima arte e al quale mi piace combinare il senso della narrazione e del ritmo narrativo della commedia indipendente americana e della gloriosa commedia all’italiana, che prima o poi bisognerà riscoprire. Un regista che non sbaglia un film è Virzì, di cui apprezzo anche la cura dell’aspetto visivo. Chi invece mi ha insegnato a conoscere il cinema del nord europa e un certo approccio alla recitazione è stato uno dei miei maestri, cioè Daniele Luchetti.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)