lunedì, luglio 01, 2019

LA PERFORMANCE DEL DESIDERIO: CONVERSAZIONE CON ADELE TULLI, REGISTA DI NORMAL



In concorso nella sezione Panorama della scorsa Berlinale, e presentato negli scorsi giorni al Festival “Orlando” di Bergamo dove ha ricevuto una menzione speciale dalla Giuria giovani, Normal riflette sul significato di normalità raccontando una giungla di segni destinati a delineare un'autentica performance del desiderio. Nel farlo, Adele Tulli rinuncia a commenti e spiegazioni, cortocircuitando il reale attraverso la forza della propria visione



Diversamente da altre volte, mi piace iniziare a parlare di Normal prendendo spunto dalla locandina e, in particolare, dall’immagine della giostra; una giostra che, complice anche l’ambientazione notturna e il gioco di luci, assomiglia a un’astronave spaziale. Una modalità di rappresentazione, questa, che in parte sembra voler sconfessare il significato del titolo.

Il titolo è come se nascondesse implicitamente un punto interrogativo, quindi il film è proprio pensato per interrogare in qualche modo il quotidiano. È un film che non racconta storie di persone e di personaggi ma prova a interrogare ciò che ci circonda nel senso più nascosto e che influenza le nostre vite. Quindi, era il tentativo di fare una riflessione sui meccanismi sociali e sulle norme che regolano i nostri gesti e comportamenti. Dunque, il titolo parte dall’idea di fare una riflessione su ciò che viene considerato la norma e provare a interrogarla.

Il film è organizzato per quadri successivi all’interno dei quali la tendenza è quella di svelare un poco alla volta, e solo in parte, il contesto e le persone da cui essi hanno origine. Eliminare riferimenti e spiegazioni sembra anche il modo di disfarsi delle sovrastrutture che sono proprie della rappresentazione per immagini.

Sì. Infatti, la volontà è quella di non spiegare troppo, e anche per questo ho deciso di eliminare quasi del tutto la parola, quindi le interviste o i commenti. Non volevo fare un film di spiegazioni ma di associazioni, quindi un film come esperienza immersiva, in cui guardando tutta una serie di situazioni ordinarie e comuni che ci circondano e nell’associazione di queste – e nel vedere come sono collegate anche attraverso le fasi della vita – si provasse a riflettere su quello che spesso rimane nascosto perché normalizzato, perché quotidiano e dunque invisibile agli occhi. L’idea dei quadri è proprio collegata al fatto che io non volevo fare un film che raccontasse esperienze individuali, di specifiche persone che articolassero il modo di vivere, il loro genere o la loro sessualità. Volevo provare a fare un film sull’esperienza collettiva, sui comportamenti, sulle interazioni, sui gesti quotidiani, attraverso cui assumiamo in genere dei ruoli, e quindi il mosaico aiuta questa immersione in un’esperienza collettiva in cui non ci sono singoli protagonisti, ma in cui, in qualche modo, lo diventiamo tutti nel guardarlo. Cerco di far scaturire una riflessione anche nello spettatore che può mettersi in discussione in prima persona.

Infatti, a essere protagonista non sono i singoli personaggi ma l’esistenza umana, ritratta nelle sue diverse età. Non a caso il film parte dall’origine della vita, attraverso le immagini delle donne incinte che fanno ginnastica in piscina, per poi proseguire fino al raggiungimento della fase adulta.

Si, quello è l’unico arco narrativo che abbiamo tenuto nella struttura del montaggio.

La decisione di aprire e chiudere con immagini che si rifanno alla primogenitura e, in particolare, al legame ancestrale tra madre e figlio rimanda a una condizione di uguaglianza che viene prima delle differenze sessuali, culturali, lavorative, famigliari.

Diciamo che quella chiusura suggerisce una ciclicità di alcuni meccanismi che si perpetuano, però, d’altro canto, c’è anche un discorso che nel film tento di fare, ossia quello di quanto alcune fragilità umane ci accomunino. Confrontarsi con una serie di standard, di modelli e riferimenti culturali condiziona le esistenze e la difficoltà di confrontarcisi, di farci i conti, a volte standone dentro, a volte provando a starne fuori. Questo confronto costante con quelli che sono gli status di riferimento crea un cortocircuito interno a ognuno di noi. Da qualche parte dobbiamo negoziare la nostra identità con quelle aspettative sociali. Questo mette in luce la grande fragilità che ci accomuna.

Infatti, nelle singole immagini c’è sempre la compresenza tra ciò che siamo in termini di passioni, desideri, sentimenti e quello che invece ci viene attribuito da fattori esterni ad essi. In definitiva, mi sembra che ogni sequenza sia costruita sul rapporto dialettico tra uguaglianza e diversità.

Diciamo che questo doppio livello che ho cercato di tenere nel film era importante perché in qualche modo mi permetteva di bilanciare due diverse posizioni: da una parte quella data dal calore, dalla vicinanza e dall’empatia verso una condizione che riguarda tutti e tutte; dall’altra, la lontananza e lo straniamento scaturiti dalla necessità di analizzare criticamente l’universo circostante. La vicinanza facilita l’identificazione e l’empatia con le situazioni, la distanza ci permette di osservarle e di avere una prospettiva critica. Cerco di lavorare su entrambi i livelli: quelli in cui riusciamo a vederci da fuori e a metterci in discussione, e gli altri in cui sentiamo da vicino, cosa anch’essa attinente alla condizione umana. In altre parole, non cerco né accuse né assoluzioni: faccio una riflessione su come le dinamiche sociali entrano dentro le nostre vite.

Nel film accade che i bambini imitino gli adulti, soprattutto nel fare le cose che fanno loro, mentre questi ultimi il più delle volte palesano paure e fragilità tipiche della fanciullezza. Questa mi sembra un’altra simmetria presente in Normal, quella capace di unire l’intero arco esistenziale della vita umana e, di conseguenza, di dare coerenza alla struttura narrativa del film.

Questo è molto interessante. Non avevo mai osservato il film da questo punto di vista. Effettivamente è vero. Da un lato esiste una componente di non innocenza dell’infanzia, visto che ovviamente è il luogo dove regole e modelli si pongono in maniera più forte – e lo vediamo nella scena della fabbrica. Poi, effettivamente, c’è sempre di più un graduale abitare le contraddizioni; forse un tentativo di liberarsi, andando avanti, dalle sovrastrutture.


Questo è possibile proprio per quel doppio livello di cui parlavamo prima. La forma delle immagini è tale che ciò che vediamo non è solo l’esistente della realtà ma anche il subconscio dei personaggi. Guardando i volti dei partecipanti al corso prematrimoniale o della coppia di sposi durante la liturgia matrimoniale non si fatica a scorgere l’infanzia che c’è in ognuno di loro. Soprattutto quando li si vedono spaesati di fronte al divenire della realtà.

Sono d’accordo. A me piace molto che la maggior parte dei volti non parlino ma abbiano uno sguardo molto interrogativo. Questo ritorna nelle coppie che assistono al corso prematrimoniale o alle ragazze che stanno facendo il concorso di bellezza o, ancora, con il ragazzo che fa il corso di seduzione. La confusione e lo spaesamento derivano dalla necessità di essere all’altezza delle aspettative, del non sapere come fare a comportarsi nel modo che gli viene richiesto.

In questo senso si potrebbe dire che tu racconti una giungla di segni destinati a delineare una performance del desiderio. Pensi che sia una definizione calzante del tuo lavoro?

Certo che si! L’aspetto performativo dell’identità è sicuramente il centro del mio lavoro, quello che mi interessa di più, tant’è che anche a livello formale gioco proprio su questo. Uso il linguaggio del documentario in una maniera molto cinematografica. Se di solito con esso si tende a sottolineare la verità e la realtà con un approccio più naturalistico possibile io faccio il contrario, cercando di sottolineare la finzione attraverso una messinscena (cinematografica) che mi permetta di tirare fuori il più possibile gli aspetti performativi del reale.

La tendenza del dispositivo è quella di trasfigurare la realtà per farne emergere la natura aliena e alienante. Così succede, per esempio,  con uno dei ragazzi impegnati a sfidarsi attraverso i videogiochi: immersa in un rosso cremisi la silhouette del giovane appare sfocata al punto di diventare simile a quella di un umanoide dei film di fantascienza.

Normal è pieno di queste incursioni. È la cifra di una lavorazione che mira a entrare in una prospettiva estraniante e alienante capace di innescare la riflessione. Di incursioni “aliene” il film è pieno, basti pensare alle sequenze ambientate nella sala dell’estetista, come emerge dalla prospettiva del sacellum predisposto per l’abbronzatura della ragazza o nell’immagine della “donna medusa”: sembrano tutte delle iconografie e, di fatto, tutte appaiono quasi irreali. Tornando alla locandina, anche la giostra – con le luci che sembrano raggi – suggerisce l’idea di una navicella spaziale da cui possa scendere una specie di forza a cui siamo appesi.

Normal è un’operazione coraggiosa da molti punti di vista. Lo è quando rinuncia alle interviste o al commento della voce fuori campo, come pure nell’approccio anti didascalico che gli permette di essere efficace con un minutaggio di poco superiore all’ora. Per non parlare della sospensione spazio-temporale operata sulla narrazione alla quale arrivi sostituendo il suono reale con altri di diversa natura. La musica diventa la chiave per accedere ai pensieri dei personaggi e per farci partecipi del loro movimento interiore.

L’uso della musica è molto importante, e mi riferisco anche al suono dei paesaggi sonori. Effettivamente, non c’è nessun tipo di unità spaziale, temporale, narrativa. C’è, invece, una ricostruzione totale dell’impianto narrativo classico. L’unica cosa che tiene insieme il tutto è il tentativo di ragionare per immagini, come pure il pensiero di riflettere e sovvertire certi meccanismi attraverso la messinscena di rituali e ruoli sociali. Nel farlo cerco di non usare la parola ma il dispositivo cinema in tutte le sue forme: dalla composizione dell’immagine, che cerca uno sguardo innaturale e, dunque, metrico in modo esasperato, ai movimenti all’unisono restituiti dalle coreografie dei corpi, ripresi con prospettive di sguardo non realistico – come appunto dall’alto, da dentro l’acqua -. Obiettivo, questo, che porto avanti col montaggio in cui, ad esempio, ci sono degli attimi di vuoto durante i quali lo schermo resta nero. Si tratta di un processo di decostruzione che utilizzo molto anche a livello di suono e di musica. Non so se sia possibile rendersene conto, ma per quanto riguarda il suono esistono tante piccole incursioni che lavorano a livello inconscio. Nella scena dell’insegnante di di ginnastica, per esempio, la voce di lei aumenta con il procede fuori campo del personaggio mentre dovrebbe succedere il contrario. Si tratta di espedienti volti ad esaltare l’innaturalità del contesto e i cortocircuiti in cui la realtà non ci appare più come tale. Nel caso che ti ho appena detto quella dimensione viene esaltata attraverso la presenza di una voce che sembra provenire dall’alto, come fosse quella di Dio. A livello più esplicito, tutto questo è sottolineato dall’assenza di suono diegetico e da musiche chiaramente estranianti, utilizzate sempre con l’intento di osservare il reale da una prospettiva inedita che, in qualche modo, esalta la finzione che c’è nella realtà. Non solo nel cinema, ma nella realtà.

Anche per questo Normal merita di essere visto in sala. Come i personaggi sono calati nelle rispettive realtà, cosi lo è lo spettatore all’interno della visione. Oltre a essere umanistico, Normal è, nei fatti, un film ipnotico per la capacità (delle immagini) di spingere la vista al di là del visibile, mettendo in discussione verità oramai appurate. Come accade nella sequenza iniziale, in cui in un attimo vediamo passare sullo sguardo della bambina stati d’animo tra loro contrastanti.

La scena di cui parli racchiude il senso del film, perché in quello sguardo ci sono tutte le contraddizioni che abitano il desiderio di normalità, quindi da un lato c’è il piacere dell’appartenenza, il sentire di compiacere l’altro, quindi la determinazione la grinta e anche il coraggio; dall’altro, ovviamente l’ansia, il terrore, l’insicurezza, l’angoscia, la complessità, la difficoltà di entrare dentro un ruolo. Nello sguardo della bambina, senza che lei dica una parola, ci sono una serie di emozioni umane che sono quelle che cercavo di raccontare.

Dicevamo di quanto i personaggi siano stati il tramite per innescare la riflessione di cui il film si fa promotore. La scelta è stata frutto di un regolare casting o ti sei imbattuta su di loro strada facendo, nel corso della realizzazione?

Ho girato molte più sequenze di quelle effettivamente montate; questo ha determinato approcci di diverso tipo. Tieni conto che Normal è stato realizzato nell’arco di due anni, per cui ha avuto modo di svilupparsi per fasi successive, ognuna delle quali caratterizzata da consapevolezze e aggiustamenti operati in corso d’opera, conseguenti a intuizioni scaturite durante le riprese. Dunque, ogni scena è una storia produttiva a sé, nel senso che talune volte gli attori li ho trovati per caso, altre li sono andata a cercare; in alcuni casi li ho conosciuti meglio, in altri meno. Ogni situazione fa storia a sé. Anche la scelta delle persone del mio film è stata un viaggio, fatto di tentativi differenti.

Il film dovrà potrà essere visto?

Ho avuto il privilegio di avere un distributore del calibro di Istituto Luce, grazie al quale il film è uscito dal 2 Maggio in città italiane come Torino, Milano, Genova e Roma e altre in cui sono andata a presentarlo. In alcune di esse stanno continuando a tenerlo, mentre nella capitale ne hanno esteso la permanenza alla terza settimana presso il Nuovo Cinema Aquila. A Milano è ancora a Il Cinemino e tra poco anche al Beltrade. Sono previste uscite a Cagliari, a Brescia, e poi spero di continuare di farlo circolare nei festival e nelle proiezioni estive. Sulla pagina Facebook del film ci sono comunque gli aggiornamenti delle varie uscite.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

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