domenica, marzo 07, 2021

Invisibili: Kisses

Kisses


di, Lance Daly

con: Kelly O’Neill, Shane Curry, Paul Roe, Cathy Malone, Neilì Conway, Stephanie Kelly

origine, Irlanda, Svezia 2008 

durata, 72'


You, my friend

I will defend

and if we change, well 

I love you anyway

-- Alice in chains --



Essendo il nostro cosiddetto sistema più un’accozzaglia di sintomi sfuggita alla psichiatria che un tentativo un minimo coerente di tenere in piedi, unita e animata da spirito collaborativo una comunità di esseri umani, è del tutto ovvio che i più giovani esponenti del medesimo siano allo stesso tempo comprimari sconcertati/attoniti e vittime del suo estenuante disfacimento e che sovente siano indotti a reagire a tanto compiaciuto abbandono per il tramite di atteggiamenti e comportamenti da quello stesso ordine bollati a ruota - per cronica incapacità di elaborare risposte che non siano paternalisticamente demagogiche o sic et simpliciter repressive - come devianti

Cosa dire, infatti, di fronte alle esistenze in apparenza già segnate di Kylie Lawless/O’Neill e Dylan Dunne/Curry, vicini di casa, undicenni dai modi spicci ma di fondo ritrosi, lingue lunghe (in specie Kylie) ma contegno tarato sulla difensiva, sguardi curiosi ma diffidenti perché già testimoni e interlocutori delle tristi bassezze che il deprimente teatrino dell’età adulta sembra non veder l’ora di cementargli addosso (il film di Daly si apre, non a caso, con l’immagine di un pesciolino esanime nel suo stesso acquario) come la più contagiosa e inevitabile delle maledizioni ? Come fare a contrastare la più che spiacevole sensazione per cui una vita di per sé afflitta dalla zavorra di prospettive limitate - reiterata nei sobborghi rurali di Dublino, tra fatiscenti villette a schiera e strade butterate di rifiuti (con buona pace delle eterne e pigre cartoline a base di verde Irlanda, per dire), sotto un cielo di norma plumbeo a incombere su spianate brulle bell’e pronte per le solite devastazioni edilizie, mentre sullo sfondo il mare ogni giorno si allontana un po’ di più - non si accartocci senza colpo ferire nella sua normalità (Dylan, asmatico, passa da una sessione di botte all’altra inflittagli da un padre/Roe imbecille - si noti il modo col quale pretende di far funzionare un tostapane - oltreché alcolizzato il quale, per non sbagliarsi, sottopone la madre/Conway allo stesso trattamento; Kylie, attorniata da fratelli tanto litigiosi quanto indifferenti e da una madre/Malone petulante e pettegola, fa di tutto per schivare la presenza di uno zio che in passato l’ha costretta a subire sordide attenzioni), finendo per trasformarsi, una volta per tutte, in qualcosa di schifoso e irredimibile ? Probabilmente e per lo più rassegnandosi a morire un tanto alla volta, uno strappo di calendario dopo l’altro o, magari, senza preavviso e subitaneamente, per l’effetto di un ultimo sussulto di stupida ferocia sfuggita di mano a coloro che non ne hanno mai abbastanza della propria miserabilità. Ma questo a undici anni non è ammissibile: almeno non senza avere estorto di pura ingenuità e disarmata strafottenza qualche scheggia di splendore a un mondo per forza di cose ancora sconosciuto, quindi tutto da scoprire, e non averla nel caso corroborata per mezzo della spinta allusiva e deliziosamente scostante di un universo sonoro - quello del bardo di Duluth, più volte evocato durante il film per via dell’omonimia col piccolo protagonista e riconoscibile grazie all’accompagnamento reso alle immagini da veri e propri classici, tra cui ritroviamo “Shelter from the storm”, “Subterranean homesick blues”, “Just like a woman” e “Tombstone blues” - capace di avvolgerne l’enigma e la mutevolezza in una membrana allo stesso tempo astratta e dolcemente carnale. Per tale ragione, dopo l’ennesima tragedia familiare sfiorata di un niente, in barba a un clima natalizio che nemmeno le ricorrenze incombenti sono state in grado di far attecchire per davvero, ai due ragazzini non resta che scappare, qualche soldo rubato in tasca e in testa l’idea molto vaga di provare a recuperare il fratello maggiore di Dylan - Barry - a sua volta uscito di scena due anni prima senza lasciare traccia, se non un vecchio recapito - Gardiner Street - da qualche parte nella capitale.

Il tratto dirimente di una progressione drammaturgica altrimenti molto semplice, basata com’è sulla aritmetica accumulazione di esperienze da parte di una coppia di giovanissimi sapiens sprovvista delle medesime, è da ricercarsi innanzitutto nell’aderenza mimetica degli interpreti ai propri ruoli, incarnati e recitati (Dylan, occhi scuri e sfuggenti, fisico asciutto quasi sempre insaccato in un abbigliamento due taglie buone più grandi di lui, dissimula un’innata timidezza - come visto, ben presto virata in vigile cautela - sotto uno sguardo in perenne bilico tra sgomento e precoce scetticismo; Kylie, colorito chiaro e coda di cavallo, occhiate vispe e dirette, arguta e briosa, si oppone alle conseguenze del trauma ancora bruciante nel ricordo mostrando da subito duttilità, intraprendenza e fiera autonomia di giudizio, come anche il suo cognome, del resto, lascia trasparire), con buona approssimazione, a mo’ di sagace ricalco di un microcosmo - di gesti, di espressioni, di modi dire ma pure di silenzi e minute asprezze - familiare perché quotidianamente frequentato. D’altro canto, è pure vero che la appena citata naturalezza - sfibrando in via ulteriore un termine fin troppo abusato - non sarebbe stata in grado di rianimare, anche solo per la durata di un’opera di finzione, il muscolo atrofizzato dell’emotività corrente, se non si fosse resa convinta complice di una intenzione votata a schivare la morta gora del mero realismo (in genere esplicito e brutale, quello di marca anglosassone) per abbracciare, torcendo alla base i suoi presupposti ma nel rispetto di una contiguità diretta con gli eventi narrati, quell’inquieto incanto favolistico di ascendenza truffautiana volto a indagare il privilegio di una sorta di armonia quasi perfetta perché conseguenza della sospensione febbrile indotta da una successione di stati d’animo inediti e fuggevoli, quindi irripetibili per definizione, indipendentemente dalla loro natura gioiosa/intima (Kylie ruba qualcosa da mangiare e quindi si disperde nelle vie festanti di Dublino; Dylan a sua volta ne elemosina altrettanta da un ambulante consumandola poi fianco a fianco con Kylie, in silenzio, sui gradini di un vicolo; girovagando senza meta per le strade sempre meno affollate insieme si stendono sul ghiaccio di una pista da pattinaggio deserta e cominciano a scherzare e a ridere) o drammatica (Kylie viene strappata ai suoi vagabondaggi sotto gli occhi di Dylan da due balordi a bordo di un auto innescando un vertiginoso inseguimento; al risveglio dopo la notte trascorsa in strada a riparo di un giaciglio fatto di cartoni da imballaggio, Kylie rinviene tra gli strati un cadavere: inorridita chiede a Dylan se si tratti di quello di Barry. Dylan, laconico e pensieroso, le risponde “No. Ma è come se lo fosse”), riguadagnando - d’incontro, si potrebbe dire - e non importa se solo per un fugace interludio, la suggestione relativa a uno dei tanti Cari Estinti della cultura moderna e contemporanea, a dire il senso originario dell’Avventura, la sua capacità incoercibile e magnifica di infondere coraggio e aspettativa laddove ogni congiuntura briga al fine di imporre il grigiore e la rassegnazione e il cui suggello ideale non può che consistere nella sfrontata devianza del più tenero dei baci.

TFK

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