Tilt
di, Kasra Farahani
con. Joseph Cross, Jessy Hodges, Elijah Collins, Billy Khoury, Christian Calloway, Kyle Koromaldi
USA 2017
durata, 100’
I’ve been thinking for days
about the means and the ways
— Filastrocca —
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Ciò non bastasse a radicare lo smarrimento e a seminare i grani di una angosciosa instabilità nell’intrinseco puntilismo di un evento esistenziale isolato, di per sé consegnato all’anonima irrilevanza della ordinarietà contemporanea, si deve aggiungere, da un lato, la figura di Janet/Hodges, giovane compagna, infermiera in dolce attesa, ragazza premurosa ma non esente da quell’estro tipicamente femminile con naturalezza incline a coniugare capacità di ascolto e scaltro pragmatismo in un ibrido tanto compassionevole quanto ambiguo; dall’altro, il ricorrente riaffacciarsi alla memoria del nome di un tal Chusuke Hasegawa, tizio che Joe non riesce a collocare con esattezza tra i ricordi ma che per qualche ragione non gli suona estraneo e le cui tracce prova a ricostruire in Rete, scoprendone infine il decesso in circostanze misteriose - e nei panni autentici, secondo varie agenzie di stampa, di un turista giapponese - sul suolo hawaiano tempo prima meta, per lui e Janet, di una breve vacanza. Sotto la facciata dell’equilibrio e della perseveranza, sempre meno convinto della in apparenza placida plausibilità di ciò che costituisce l’impasto dei giorni, Joe, anche per via della impasse creativa in cui versa il nuovo lavoro (ancora allo stadio di coacervo di immagini - spezzoni di spettacoli, film, notiziari, pubblicità sottratti all’oblio dalla memoria storica degli anni ’50 - in cui la allusiva intenzionalità retrospettiva porta a confondere più che a chiarificare, a volte irrita più che persuadere), che dovrebbe sia imporlo all’attenzione di un pubblico più vasto che riscattarlo dallo strisciante sentimento di paziente degnazione riservatogli da parenti e amici, prende quindi ad avventurarsi in lunghe passeggiate notturne durante le quali trova il modo di acquistare allucinogeni, spaventare un povero cristo impegnato in una sessione di bricolage fuori orario, insolentire una ragazza sul piazzale di un mini-market, farsi pestare da tre tiratardi, fissare con insistenza equivoca la sagoma di un senzatetto addormentato sul selciato.
La frustrazione subdola, pedestre, finto svagata, che si mescola come una riga di melma al corso già torbido delle nostre vite dal canto loro ridisegnate dalle correnti di un tardo modernismo tanto impetuoso nelle sue rappresentazioni, quanto, oramai, quasi astratto, metafisico nella attendibilità logica dei suoi presupposti, non di rado briga allo scopo di indirizzarne l’inerzia verso una abulia rassegnata o - vedi il presente caso - presso i territori desolati di una sorta di inquietudine feroce dagli accessi imprevedibili. Farahani, registrando il percorso in discesa dell’ennesimo uomo qualunque di fronte alla vacua accessibilità delle cose, alla loro forzata allegria o per contro alla loro enfatica drammatizzazione (qui è l’avvento dell’era Trump, subìto da Joe con ribrezzo e metabolizzato dai suoi conoscenti in un alternarsi di indifferenza annoiata e sarcastico distacco), alla stracca scipitezza con cui oggi, di base, si prestano alla menzogna e alle divagazioni aleatorie come se niente fosse, come se, tutto sommato, a nessuno importasse davvero più di nulla, insinua, - in modo lineare quand'anche arguto (il daily grind di Joe si snoda secondo i ritmi e le occorrenze di un meccanismo invisibile ma inderogabile a cui, ecco il paradosso nutriente dell’ossessione ricordato all’inizio, solo il progressivo sbriciolarsi delle consuetudini offre quantomeno la possibilità di un punto di vista laterale, benché anticipatore del disastro), al limite di una soavità intellettuale che non esclude la consapevolezza di una resipiscenza tardiva, con ogni probabilità immeritata e sempre più sorella gemella dell’impotenza - l’avvenuto distacco dell’elemento umano dalle proiezioni che egli stesso ha modellato su ciò che lo circonda al fine di circoscrivere profittevolmente i limiti del proprio agire. Del resto - e occorre ribadirlo soprattutto perché è Joe in persona che attorno a esso inanella una serie di sempre più sconsolati ragionamenti - il Capitalismo, nella sua essenza, è sul serio un’allucinazione - chissà: forse anche una patologia del linguaggio, oltreché un deragliamento della psiche - visto che il suo unico scopo, la sua ragion d’essere, tetragona e insindacabile, ossia il conseguimento a qualunque costo della infinite volte citata crescita (e del relativo profitto) a fronte di un contesto limitato quale quello in cui ci è dato vivere, sta lì a dimostrarlo. Modi e maniere per uscirne, quindi, non contemplando un sovvertimento radicale, sembrano in tal senso rientrare ancora in un armamentario desueto o inefficace, per non dire disperato e fuorviante, in specie se si riflette sul fatto che gran parte di quegli strumenti la abbiamo, senza nemmeno troppe afflizioni, barattata con (l’idea) del denaro, con gli oggetti e l’intrattenimento.
TFK
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