martedì, aprile 30, 2024

CHALLENGERS

Challengers

di Luca Guadagnino

con Zendaya, Mike Faist, Josh O’Connor

USA, 2024

genere: drammatico, sportivo

durata: 131’

Finalmente il tanto atteso titolo che avrebbe dovuto aprire l’edizione 2023 della Mostra del cinema di Venezia è nelle sale. Come una sfida continua, il film di Guadagnino, sulla scia del grande successo (e seguito) del tennis, soprattutto nostrano, mette in scena un’interminabile partita, di sport e di vita in un intreccio di relazioni e sentimenti, costantemente in equilibrio precario.

“Challengers” è la sfida non solo del regista italiano Luca Guadagnino che, negli anni, si è ritagliato un posto sempre più americano, giocando (e plasmando) i divi del momento, ma è anche la sfida dei tre protagonisti e del loro complesso rapporto.

Un continuo salto temporale permette al regista di mostrare le dinamiche tra la promessa del tennis Tashi Duncan (una Zendaya per la prima volta protagonista quasi assoluta) e due tennisti che se la contendono, Art Donaldson (Mike Faist) e Patrick Zweig (un sempre più lanciato Josh O’Connor). Prima lei è una campionessa destinata a grande successo, poi, a causa di un infortunio, diventa allenatrice del marito, Art, costretto a disputare un incontro contro l’ex amico (ed ex fidanzato di lei), Patrick.

Se lei può essere considerata ciò che più si avvicina al deus ex machina, in una sorta di ibrido tra allenatrice e arbitro, incarnando il punto di vista e soprattutto il ruolo del regista, gli altri due sono, solo all’apparenza, pedine costrette a muoversi in uno spazio già predisposto, sia esso una pista da ballo o un campo da tennis.

Ad aiutarci in questa comprensione ci pensa la prima emblematica immagine: quella di un campo da tennis, visto dall’alto, diviso a metà, in maniera perpendicolare, dalla rete, a marcare una divisione continua e costante tra le due fazioni del film. Due fazioni che si equivalgono e, talvolta, si sovrappongono in un gioco di intrecci dove a manovrare tutto, nel bene e nel male, c’è solo una persona che contribuisce a rendere nulla qualsiasi presa di posizione a favore di uno piuttosto che dell’altro. Perché non c’è un vincitore né un vinto, in nessun modo e in nessun mondo. C’è solo l’estasi dell’osservare, dell’ammirare, in una maniera il più distaccata possibile, almeno nelle apparenze. Perché nonostante Tashi provi in ogni modo a distaccarsi da ciò che la circonda, dalla partita e da tutto ciò che essa porta con sé, guardandola in maniera contrapposta rispetto a chiunque, quell’eros costante e tangibile in ogni sfaccettatura del menage à trois torna prepotentemente alla ribalta, che sia con un sorriso, con un churro o con gesto inequivocabile della racchetta a marcare un limite invalicabile.

In “Challengers” ogni personaggio è ben delineato e definito all’interno del proprio campo d’azione (di gioco). Tashi è la leader, la macchina da guerra, la sfasciafamiglie, colei che tiene le redini del gioco e che, per prima, ha il coraggio di dare uno sguardo frontale. Ci bastano pochi secondi per inquadrarla all’interno di un perimetro ben preciso, “rotto” soltanto dall’imprevisto, quell’unica variabile non contemplata, ma che la costringerà a vedere il mondo da un’altra prospettiva.

Art è il perdente (o il vincente?) destinato a essere considerato la ruota di scorta, il meno peggio, l’unica alternativa che può essere plasmata in base alla situazione, quello che non ha molta voce in capitolo (e non a caso che inizia a parlare molto più tardi rispetto agli altri), quello che deve perdere per poter tornare a vincere, ma che deve vincere per capire di non dover perdere.

Patrick è il contraltare, la controparte necessaria sia a Tashi che ad Art, colui che è disposto a perdere tutto pur di dimostrare di aver ragione, senza mai arrendersi o chinare il capo, ed è l’unico che riesce a vedere e mostrare, anche in modo provocatorio, oltre le maschere.

Il tennis è una relazione” ci dice Tashi ed è proprio quello su cui ci vuole far riflettere Guadagnino, (di)mostrando come una partita di tennis sia effettivamente la metafora perfetta della vita, di una storia (d’amore), di una relazione che, nonostante un arbitro provi a delineare e arginare per evitare che dirompa, è destinata ad avere la meglio, su tutto e tutti. Pur mitigandola, pur cercando di nasconderla evitando che escano allo scoperto segreti e sotterfugi, quella relazione è come la pallina da tennis: piena di energia e costantemente in movimento. Se scagliata con troppa energia può arrivare a superare i confini di un campo da gioco; se non indirizzata bene può colpire la rete, ma se dosata nel giusto modo può arrivare a colpire l’obiettivo nel miglior modo possibile.

Tashi gioca con il tennis e gioca con i due amici, provocando e provocandoli, come solo una campionessa in cerca di adrenalina riesce a fare; li usa e li plasma a suo piacimento per raggiungere il suo scopo, uno scopo premeditato fin dal primo galeotto incontro, quella prima partita, seppur giocata su una pista da ballo, ma necessaria per studiare gli avversari. Con un chiaro parallelismo all’emblematica scena di “Chiamami col tuo nome” nella quale Elio vede davvero per la prima volta Oliver, allo stesso modo Tashi vede Art e Patrick e comincia a tessere la sua tela.

Una tela che ha bisogno del contributo imprescindibile di una musica che avvolge (e travolge) creando un ulteriore livello di gioco e di sfida. E in questo sono molto efficaci le scelte fatte da Trent Reznor e Atticus Ross che modellano una “melodia” sulla pelle dei tre protagonisti e sui loro movimenti, spesso ricorrenti, ma portatori, ogni volta, di un significato diverso. Musiche che contribuiscono anche a dettare tempi, scandendo non solo il ritmo del gioco, ma anche della relazione, e tempo in generale, spostando il film a un’epoca molto più vicina alla contemporaneità nonostante i continui flashback.

Un’analisi quasi metacinematografica sulle relazioni umane, un confronto continuo che gioca con le inquadrature, spesso di profilo, come in un match da seguire, e che rimbalza, con movimenti a volte inaspettati, da una parte all’altra a dimostrazione che più che cercare un riferimento nei personaggi, è necessario capire dove (e come) cadrà la pallina. Pallina che, di fatto, si nasconde spesso all’occhio dello spettatore, facendolo concentrare su tutto il contesto che ruota attorno.

La relazione tra i tre è il filo conduttore della metafora che attraversa tutto il film, ma anche della partita stessa che i due contendenti devono giocare per aggiudicarsi il trofeo più ambito, la stessa Tashi. Una partita che diventa un ultimo estremo tentativo di acciuffare quel qualcosa che è sempre mancato per arrivare a un vero traguardo. Così uguali eppure così diversi, Art e Patrick si contendono tutto (forse) per l’ultima volta.

“Challengers” è un film, una partita o una relazione? O tutte e tre le cose insieme? I continui primi piani e l’attesa, a volte interminabile, tra uno sguardo e l’altro a sottolineare l’incessante scorrere del tempo della vita e di una partita che, pur giocandosi in due, ha tre sfidanti. O forse anche di più.


Veronica Ranocchi

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