sabato, giugno 29, 2024

'SEI NELL'ANIMA': CONVERSAZIONE CON LETIZIA TONI

Prodotto da Indiana Production e diretto da Cinzia TH Torrini, Sei nell’anima racconta la storia di Gianna Nannini, con Letizia Toni nei panni dell’icona del rock femminile italiano.

Dal 2 maggio disponibile su Netflix.

Come attrice Sei nell’anima era un progetto particolare per il fatto di essere un biopic su un personaggio, Gianna Nannini, ancora sulla cresta dell’onda. Sullo schermo il tuo rappresentava (anche) una sorta di doppio della cantante senese.

Infatti esisteva in me il timore del confronto con il modello originale e con la responsabilità di una rappresentazione che fosse credibile sia per lei sia per i suoi fan. In realtà mentre la studiavo ho avuto la possibilità di passare del tempo con lei e questo mi ha permesso di far venire meno la paura iniziale. Con Gianna ho stabilito un rapporto così familiare da far cadere la distanza che si ha quando ci si confronta con un mito. Da lì in poi mi sono sentita libera di trovare le diverse strade per interpretare le varie fasi della sua vita. L’aver constatato che si ritrovava in quello che facevo mi ha dato enorme fiducia. Se c’era qualcosa che non le tornava me lo diceva, ma sempre con quel modo gentile e costruttivo, utile ad arricchire l’interpretazione, ma senza diminuire il mio lavoro.

Questo ti ha permesso di eliminare il doppio rappresentato dalla sua immagine pubblica per concentrarti sul nocciolo esistenziale da cui nasce la sua musica.

Sì, alla fine ho avuto modo di confrontarmi con la persona e non con il personaggio. D’altronde per arrivare alla grande rockstar dovevo per forza passare da quello che c’è prima e dunque conoscere la bambina e l’adolescente che a diciassette anni scappa di casa con una chitarra in mano per andare a Milano portandosi dietro le paure e le incognite del caso.

Non a caso Sei nell’anima si sofferma soprattutto sul privato della cantante evitando di dare conto, se non come conseguenza, al lato pubblico del suo successo artistico.

Esatto, nel film si parla soprattutto della vicenda umana tratta dalla biografia Cazzi miei. Ci siamo soffermati su quella fase della vita in cui la fatica era quella di tirare fuori la sua vocazione. Parliamo di un percorso con un messaggio pazzesco per i giovani in un momento in cui questi faticano a trovare speranza nel futuro.

Tenendo conto che Gianna Nannini è stata giovane in un periodo come gli anni ’80 in cui le prospettive erano molto più rosee di quelle di oggi.

Sì, per i ragazzi di oggi è molto più difficile iniziare a fare qualcosa anche perché è già stato inventato tutto. Però le difficoltà di Gianna da giovane sono le stesse che possono avere i suoi coetanei di oggi. Il suo essere un personaggio famoso può concorrere a portarne alla luce il percorso di dolore e di difficoltà, ma soprattutto il suo superamento.

Penso che il principio del tuo lavoro sia stato quello di mescolare gli aspetti meno conosciuti del privato con la necessità di mantenere quelli che fanno parte della sua riconoscibilità agli occhi del pubblico. Si trattava di creare un equilibrio tra creare e ricreare.

Il mio percorso è stato anche quello di arrivare a riprodurre tutta una serie di comportamenti, atteggiamenti e gestualità che le appartenevano. Per arrivarci ho dato precedenza alla sfera psicologica rispetto alla somiglianza esteriore. Avendo a che fare con un carattere molto forte e con un personaggio ben delineato, se avessi fatto il contrario, iniziando dalla componente fisiognomica, avrei rischiato di esagerare dando vita a una macchietta. È stata una direzione che ho abbandonato da subito per dedicarmi agli aspetti interiori. È da lì che ho fatto emergere le espressioni e i tic che fanno parte della sua persona.

In questo rapporto tra arte e vita tu come ti sei posta? Voglio dire in che modo il tuo percorso personale e artistico è entrato a far parte del personaggio?

Per certi versi c’è stata una vera e propria sovrapposizione perché le dinamiche che ha vissuto lei mi sono molto familiari. Penso al fatto di non essere mai accettata dalla famiglia per il lavoro che si vuole intraprendere. Quando recitavo la condizione di chi sembra andare a perdere tempo nei concorsi di musica, ho ripensato a come venivo guardata mentre frequentavo le scuole di recitazione. Quindi per me si è trattato di recuperare sensazioni che ho vissuto per poi sovrapporle a Gianna dando vita a una specie di sdoppiamento.

Per rispondere alla tua domanda diciamo che a un certo punto arte e vita si fondono in una sola cosa. Gianna non esiste senza la sua musica così come Letizia senza la sua recitazione.

In effetti il percorso di emancipazione artistica della protagonista passa inevitabilmente da quello esistenziale in un movimento dall’interno all’esterno che è lo stesso da te fatto per entrare nel personaggio. Peraltro la condizione che avevi mentre giravi il film era la stessa di quella della Nannini. Entrambe vi trovavate, tu nella realtà, alle prese con il primo grande ruolo da protagonista, lei nella fiction, a vivere il punto di svolta, sia privato che artistico.

Ho usato ogni cosa. In ciò che di mio ho messo nell’interpretazione c’era persino lo stress per il caldo che avevamo mentre giravamo. Anche quello è entrato nello stato d’animo del personaggio. D’altronde è così che fanno gli attori, portano in scena tutto ciò che è a portata di mano.

Come Gianna nel film si trova a produrre il disco decisivo per l’inizio della sua carriera così tu avevi una chance molto importante per entrare nel cinema che conta. Penso che questo ti abbia aiutato a entrare nella dimensione del racconto.

Sì, come Gianna mi dicevo che non dovevo sbagliare.

La tua è sicuramente una performance all’americana in cui suoni, balli e canti con una postura da cantante rock. D’altro canto hai avuto a che fare con un percorso umano che attraversa l’intera gamma affettiva e sentimentale. In Sei nell’anima la tua è stata una performance tanto fisica quanto interiore.

È stato importantissimo aver avuto il tempo necessario per preparala. Questo mi ha permesso di entrare in ogni minimo dettaglio. Ho preso lezione e in generale mi sono fatta permeare dalle cose come se le avessi vissute in prima persona. Se non avessi avuto nove mesi a disposizione sarebbe stato impossibile farlo.

Anche perché la maggior parte dei tuoi colleghi si lamenta che, a differenza delle produzioni americane, quelle italiane non prevedono granché in termini di preparazione.

Sì, perché si consumano storie come al fast food. Per un attore non si tratta solo di entrare in contatto con un numero altissimo di informazioni e sensazioni, quanto di avere il tempo per metabolizzarle, di farle entrare dentro la pelle. La maggior parte delle volte non hai il tempo per approfondire così tanto come capita ai colleghi americani.

Nella tua performance vocale per esempio non c’era solo la ricerca del giusto accento, ma anche quello di saper riprodurre le doti canori della cantante.

Diciamo che lì c’è stato un avvicinamento della mia voce alla sua. Per quanto riguarda l’accento della parlata mi sono agganciata molto alle nostre radici toscane perché l’intercalare della provincia di Pistoia non è uguale, ma neanche così lontana da quella senese. Ho cercato di replicare il suo modo di spostare la voce, come respira e soprattutto di avvicinarmi al suo tipo di spinta vocale. Lei ha una respirazione molto profonda sul tipo delle cantanti soul e liriche. Ha una potenza propulsiva fortissima. Se la senti dal vivo sembra cantare con il microfono anche quando non lo usa. Vedere accadere tutto questo davanti a me mi ha aiutato davvero tanto.

Nel film le canzoni sembrano scelte per commentare ulteriormente le immagini per cui volevo chiederti se nell’interpretazione del personaggio le hai usate come ulteriore approfondimento della scena che stavi interpretando?

I suoi testi raccontano molto della sua vita però a volte, come dice lei, sono dei paralumi, nel senso che la loro scrittura è il frutto di un’ispirazione momentanea, non per forza collegata a un preciso momento della sua vita. Spesso mi diceva di aver immaginato storie di persone che vedeva davanti a sé e che neanche conosceva. Nel film ci sono delle canzoni che sembra commentino ciò che succede nella storia anche se poi alcuni elementi di questa sono stati romanzati per esigenze cinematografiche.

In un cinema in cui le scene di nudo sono sempre più rare Sei nell’anima esplora anche questo aspetto senza tabù. Una caratteristica, questa, che concorre ad arricchire la tua performance.

Ho sposato il modo in cui era stata scritta la sceneggiatura. Personalmente non ho alcun problema a cimentarmi in scene di intimità. Mi ci avvicino come per le altre scene, cercando di trovarne il senso con la vita del personaggio. 

Tra le tante versioni della Nannini una è quella sul palco dei suoi concerti. Nelle immagini ti vediamo interpretare il personaggio con ogni muscolo del corpo tra pose e ammiccamenti che sono diventati parte integrante delle sue esibizioni. Anche in quel caso immagino ti sia lasciata andare a una totale immersione nel personaggio.

Avendo avuto modo di prepararmi quelle scene sono state meno difficili di quanto si possa pensare, anzi per quanto mi riguarda sono state una figata. Erano la parte più divertente del film e me le sono godute da morire.

Volevo chiederti se nella tua interpretazione sapevi quali canzoni avrebbe utilizzato la regista come colonna sonora?

No, in realtà non lo sapevo, però diciamo che nella musica di Gianna Nannini c’è una chiave che se intercettata è poi facile da applicare all’interno della tua interpretazione. In alcuni punti sapevo quale era la musica, in generale però non è che ci pensassi o che me la mettessero per entrare meglio nella parte. Ero in scena senza musica e il più delle volte non ci pensavo anche perché non è che devi far capire l’esistenza della colonna sonora.

Avevi a che fare con un personaggio come Gianna Nannini che noi conosciamo come persona schietta e scanzonata. Nel film però dovevi interpretarne soprattutto le fragilità.

La forza che lei sprigionava sul palco era direttamente proporzionale alla sua fragilità. Il palco era il posto del suo riscatto, quello in cui poteva esplodere tutto l’amore per la sua vocazione e la voglia di farsi amare che poi era uno dei suoi obiettivi.

Una chiave della riuscita della tua interpretazione è stata l’essere riuscita a far sentire entrambi i lati della sua personalità.

Sì, diciamo che ho cercato di dosare i diversi stati, tenendo conto che sono le fragilità quelle che ti spingono a fare tutto il resto. Se uno sta bene e non ha problemi rischia di non avere motivazioni o quantomeno ha meno necessità di cercare fuori di sé. La fragilità, l’inadeguatezza, la sensazione di non essere abbastanza amati ti spinge a cercare gli altri.

Interpretare Gianna Nannini significa anche proporre un modello femminile ante litteram diventato oggi quanto mai attuale. La sua ricerca di indipendenza passa anche attraverso l’occupazione di uno spazio che allora, ma anche oggi, è per lo più monopolizzato dalla compagine maschile.

A volte sembra che il tempo non sia nemmeno passato. Ci si continua a scandalizzare per nulla certificando la lentezza di questa presunta evoluzione. La Nannini segue molto l’istinto e questo la rende autentica. Il suo tenersi legata all’energia dell’infanzia e allo stupore di quell’età è qualcosa che ancora oggi l’accompagna e le dà un’enorme freschezza. Il suo fare musica non risulta mai annoiato e dietro questo percorso c’è sempre una cultura alla quale si ispira per provare a creare un genere sempre nuovo. Gianna non è mai ferma.

Parliamo del cinema che preferisci.

Mi ispiro molto al cinema americano contemporaneo. Tra i miei attori preferiti c’è Leonardo di Caprio ma anche Joaquin Phoenix e Natalie Portman. In generale mi piace la loro generazione perché è in grado di portare sullo schermo un senso di verità. È vero che andiamo al cinema per prenderci una pausa dalla realtà e per sognare, ma il compito del cinema è quello di raccontare una verità “bella”, senza artificio e cercando di far vivere le emozioni per quello che sono.


Carlo Cerofolini

(già pubblicata su Taxidrivers.it)

giovedì, giugno 27, 2024

'THE ANIMAL KINGDOM': CONVERSAZIONE CON THOMAS CAILLEY

Presentato in anteprima mondiale al 76° Festival di Cannes, scelto per la sezione Crazies del Torino Film Festival 2023 e vincitore di 5 premi César, tra cui Miglior Colonna Sonora per Andrea Laszlo De Simone e Migliori effetti speciali, THE ANIMAL KINGDOM di Thomas Cailley arriverà nei cinema italiani dal 13 giugno distribuito da I Wonder Pictures in collaborazione con Unipol Biografilm Collection. Del film abbiamo conversato con Thomas Cailley.

Le tue storie si svolgono sempre all’interno di un’esistenza minacciata da sconvolgimenti apocalittici. Così succedeva in The Fighter – Addestramento di vita, così accade – anche se più in termini esistenziali che materiali – in The Animal Kingdom.

Diciamo che ho sempre voluto rimanere ancorato alla nostra realtà sociale e territoriale in maniera realistica e contemporanea ma in questo caso è andata in maniera un poco diversa. È vero che in The Figthers c’era stata questa svolta apocalittica in cui si parlava della fine del mondo. Qui invece la storia si focalizza sulla mutazione di esseri umani che si ibridano con gli animali. Una svolta che è la conseguenza del mio interesse peri i legami che ci uniscono come famiglia, società e ambiente.

Considerando l’insieme dei tuoi film come un’unica narrazione mi sembra che The Animal Kingdoom rappresenti un passo in avanti nel tuo percorso poetico e narrativo. In The Fighters c’era l’origine della catastrofe mentre qui si racconta come gli esseri umani sono capaci di adattarsi alle conseguenze di questo sconvolgimento.

Mi piace molto questa interpretazione perché da subito mentre scrivevo The Animal Kingdom ho avuto l’impressione di aver iniziato laddove era finito The Fighters.

Il tuo cinema lavora sui codici mainstream in maniera molto personale. La prima scena ne è un esempio. Il contesto è classico, con la minaccia che si manifesta nel bel mezzo di un ingorgo metropolitano. A fare la differenza rispetto ai film americani è il ribaltamento di prospettiva, con il pericolo che si rivela non essere tale per i protagonisti.

In realtà avevo proprio voglia di fare questo film con l’inizio che hai appena descritto creando però fin da subito una deviazione. Volevo entrare in una storia classica navigando in altre acque, più profonde, più misteriose, evitando di iniziare nel solito modo. Miravo a entrare direttamente in argomento per poi, poi mano a mano, arrivare a una storia più complessa, anche più intimista. La scrittura e anche lo stile del film cambiano man mano che la storia va avanti. Come accade agli esseri umani della mia storia anche il film è destinato a trasformarsi.

Anche il rapporto tra i personaggi di Romain Duris e Adele Exarchopulos è in controtendenza. Nei film americani il loro rapporto avrebbe avuto degli sviluppi sentimentali, in The Animal Kingdom no. Anche qui il tuo film va alla ricerca di qualcosa di più profondo per quanto riguarda i rapporti umani.

Sarebbe stato davvero un gran peccato se il film avesse permesso questo tipo di relazione sentimentale perché avremo perso quello che per me era importante e cioè la ricerca ossessiva della moglie da parte del personaggio di Romain nonostante quest’ultima abbia già subito la mutazione. E poi c’è Adele che entra nella storia con questa sua grande voglia di aiutare. Il romance poteva esserci, ma non c’è stato altrimenti perché non mi interessavano gli schemi classici. Volevo privilegiare la ricerca esistenziale e non una storia d’amore.

A differenza del tuo primo film, caratterizzato anche da toni surreali e da una fotografia iperreale, The Animal Kingdom ha una matrice molto più realistica anche nella natura delle immagini.

Diciamo che la ricerca è quello di un equilibrio. In The Fighters c’era più commedia e un assurdo che arriva quasi a toni burleschi, mentre in The Animal Kingdom l’ipotesi è quella di una fiction in cui io chiedo agli spettatori di credere a qualcosa di assolutamente improbabile e quindi a una sorta di deep realismo dove il fantastico convive con un approccio molto concreto.

Il realismo è rigoroso. Se il regno animale è quello della notte, soprattutto nella seconda parte, il film è immerso in un’oscurità in cui è difficile percepire le figure dei protagonisti.

Diciamo che nel film vediamo la visione che ha Emile, il figlio adolescente del personaggio interpretato da Romain. Le immagini testimoniano il suo sprofondare in un mondo ignoto e misterioso dove avanza un po’ alla cieca. Nel film lo si avverte con l’avanzare della storia quando le brume e la nebbia diventano sempre più presenti. Più le creature sono presenti e più è difficile percepirle e vederle. È come se gli occhi dovessero abituarsi a cercarle in mezzo a buio e oscurità.

Dal punto di vista visivo mantieni intatto il mistero nascondendo allo spettatore il più possibile della mutazione. Ne vediamo gli effetti, non il suo farsi.

Effettivamente le creature non sono mai in primo piano nel senso della mutazione. Se questo esiste è qualcosa di più intimo e sensoriale e più si va avanti nel film e più la presenza delle creature genera meraviglia. Quindi lo sforzo non era quello di far vedere le creature ma di cambiare lo sguardo dello spettatore su di esse, arrivando fino all’empatia.


Carlo Cerofolini

(già pubblicata su Taxidrivers.it)

martedì, giugno 25, 2024

ANOTHER END

Another End

di Piero Messina

con Gael García Bernal, Renate Reinsve, Bérénice Bejo

Italia, 2024

genere: drammatico

durata: 128’

Sarà perché nel cinema esiste l’autoreverse per cui il tempo come successione lineare è solo una delle opzioni date al regista per collegare la successione delle immagini e ancora perché mettendo in scena un presente già passato, la Settima arte è deputata per elezione a raccontare storie di fantasmi (anche quando nella finzione non lo sono), fatto sta che “Another End” di Piero Messina ha le carte in regola per essere considerato un film che il cinema se lo porta dentro per sua stessa natura. Raccontando infatti di un futuro distopico in cui esiste la possibilità di riportare temporaneamente in vita i defunti innestandone i ricordi nel corpo dei “locatori”, Messina non solo fa del backforward (trasfigurato nell’azione di far rivivere i cari estinti e dunque di recuperare il tempo perduto) la premessa teorica della sua narrazione, ma assegna alla reminiscenza e alle relative emozioni il compito di essere simulacro della realtà, attribuendo alla memoria, e quindi a qualcosa che esiste non sul piano fisico ma mentale, la possibilità di percepire uno spettro come qualcosa di vivo e di reale.

Un preludio filosofico di cui però “Another End” non si accontenta, se è vero che in maniera mimetica, ma non per questo meno evidente, il film fa il verso al modo in cui il cinema si mette in scena. Basterebbe prendere come esempio la sequenza in cui Zoe torna in vita nel corpo di Ava, in cui la simulazione operata per creare il ponte tra la vita e la morte, facendo si che il risveglio dei defunti appaia come una continuazione naturale della loro vita e non la conseguenza delle possibilità scientifiche, è organizzata alla stregua di un vero e proprio backstage cinematografico, con la mdp che a un certo punto si apre sull’interno di un hangar, rivelando l’esistenza di una sorta di set cinematografico in cui i tecnici con i loro argani si impegnano a trasmettere alla scocca di una finta ambulanza l’andamento sussultorio di una corsa a sirene spiegate per le vie della città. Oppure considerare che i locatori nel fare del proprio corpo il mezzo per dare vita all’esistenza di terze persone altro non fanno che rimandare al mestiere dell’attore come interprete di vite altrui, ma anche allo sguardo del pubblico che, nel guardare sullo schermo Gabriel Garcia Bernal e Renate Reinsve, crede - almeno durante la visione - che siano Sal e Zoe, così come Sal riconosce nella locatrice colei che è stata la sua compagna.

Se a livello tematico la poetica di “Another End” porta a compimento un altro percorso di amore e morte, di lutto e di elaborazione (già esplorato ne “L’attesa”), declinando la struttura del melò secondo i canoni più classici del genere, dal punto di vista visivo il film immerge lo spettatore in un mondo altro, in cui il futuro (prossimo) ipotizzato dallo scenario avveniristico diventa uno spazio liminale, concreto e allo stesso tempo immaginato, per il fatto di contenere nel medesimo contesto termini opposti come possono esserlo inferno e paradiso, inizio e fine, detto e non detto e soprattutto l’esistenza e il suo contrario, e dove il corpo è insieme limite  e superamento delle cose, chiamato com’è a far da elemento unificatore delle varie dicotomie, regalando coerenza narrativa all’immaginario registico.

In questo senso “Another End” diventa un cinema di corpi scandagliati nello scarto tra contenitore e contenuto, tra carne e anima, su cui il film si basa per immaginare di far tornare in vita i defunti inserendone i ricordi nel corpo ospite. Un concetto evidente fin dalla prima sequenza, in cui l’immobilità del corpo della donna, ripreso di spalle e schiacciato alla parete dalla resa prospettica, lo fanno sembrare svuotato di ogni vitalità e ridotto a semplice involucro. Un pensiero presente anche nella decisione di evidenziare la maggiore grandezza del corpo di Ava rispetto a quello di Sal, avvalorando la persistenza della forma in un contesto umano più votato al “sentire” che al “vedere” (“voglio riuscire a vederla” dice Sal, incapace di riconoscere la propria amata nella donna che le ha prestato il corpo).

Come pure nella dialettica tra spazi esterni e interni, con la città presente fintanto che la solitudine non viene sostituita dalla pienezza dell’amore, destinata a far scomparire lo spazio presente nei campi lunghi della città a favore di un cinema che si fa tutt’uno con i corpi nella volontà di restituirli dall’interno, corrispondendo - nella seconda parte - all’avvenuta presa di coscienza di Sal, capace di riconoscere il “contenuto” nella “forma”. Con la sequenza in cui Sal e Ava entrano nella sala dentro la stanza dei ricordi a far da spartiacque del film, spostando la storia su un livello di percezione che sembra in scena l’inconscio dei personaggi e con esso i loro sentimenti.

“Another End” diventa così la cartina di tornasole di un talento, quello di Piero Messina, in grado di accompagnare la bellezza dell’immagine con una visione del cinema a trecentosessanta gradi, quella che gli permette (non avendo a disposizione i capitoli di una saga per farlo) di compensare l’alto numero di informazioni necessarie a creare il supposto narrativo del film e del suo mondo, e dunque il rischio di avere a che fare con un film molto parlato, lasciando alle suggestioni più che alla messinscena il compito di raccontarli allo spettatore. A completare l’eccellenza del quadro concorre la direzione degli attori, ancora una volta orientata a un cast internazionale e a un parterre di interpreti a cui Messina offre la possibilità di una performance capace di rivaleggiare con le migliori delle rispettive carriere. Come succede nel caso di Renate Reinsve, brava nel dare anima e corpo (da modella) a un personaggio che sembra omaggiare la Kim Novak de “La donna che visse due volte” e che soprattutto nella scena del night club ha echi della Nastassia Kinski de “Un sogno lungo un giorno”. Presentato in anteprima e in concorso all’ultima edizione del Festival di Berlino, “Another End” è uno dei film più belli visti in questa prima parte di stagione.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

lunedì, giugno 24, 2024

INSIDE OUT 2

Inside out 2

di Kelsey Mann

USA, 2024

genere: animazione

durata: 96’

C’è sempre un po’ di timore quando si parla di sequel. Se poi il sequel in questione va a toccare uno dei film di maggiore successo la paura si fa ancora più concreta. Non è, però, il caso di “Inside out 2” che, a distanza di 9 anni, torna sul grande schermo per scavare ancora di più nella mente (dello spettatore e della “piccola” Riley) tirando fuori dal cilindro nuove emozioni pronte a fornire ulteriori sfaccettature alla protagonista e a tutti coloro che la circondano. E, infatti, “Inside out 2” complica ancora di più le dinamiche della nostra mente, aggiungendo complessità e difficoltà anche e soprattutto nelle azioni e nelle situazioni apparentemente più semplici.

Ritroviamo Riley, in piena adolescenza, che, all’età di 13 anni, viene scelta, insieme alle sue due migliori amiche, per un campus speciale di tre giorni in quello che potrebbe diventare il suo futuro college. Qui deve dare prova di sé e dimostrare alla coach che l’ha selezionata e alle eventuali future compagne di squadra di essere all’altezza delle aspettative.

In parallelo, ad aiutarla, e, talvolta, a metterle i bastoni tra le ruote, ci sono Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto. Le cinque emozioni primarie sono convinte di aver trovato un equilibrio perfetto e la chiave giusta per “governare” Riley. Non hanno, però, fatto i conti con le nuove emozioni che si sviluppano durante la pubertà: Ansia, Invidia, Imbarazzo, Ennui (“quella che voi chiamate Noia”) e, con qualche sporadica apparizione, anche Nostalgia.

La convivenza tra le emozioni primarie e secondarie diventa il fulcro di questo secondo capitolo che, pur viaggiando sugli stessi binari del primo e riprendendone, almeno in parte, la struttura, complica il tutto creando legami (di amicizia e distacco) tra i vari personaggi. Sono le emozioni, così come nel primo film, le protagoniste a tutti gli effetti. Emozioni, come sempre, ben caratterizzate con un’attenzione maniacale ai dettagli, dai colori, alle espressioni, passando per le parole usate e per il modo di rapportarsi.

La mente di Riley si apre sempre più e si fa più complessa con tante zone nascoste, sconosciute, ancora inesplorate, ma che verranno varcate e, in qualche modo, contaminate dalle emozioni che cercheranno di riportare la giovanissima sulla retta via.

Come tutti i film Pixar, e come soprattutto “Inside Out” ha insegnato, non c’è una formula ben precisa o sempre uguale che possa fornire la soluzione corretta. Le uniche cose certe sono collaborare, unire le forze e provare a mettersi l’uno nei panni dell’altro in modo da arrivare a una conclusione che possa mettere d’accordo tutti e fare il meglio per il diretto/la diretta interessato/a.

Una formula ormai consolidata nell’universo Pixar e che, anche la Disney, ha preso in prestito negli ultimi anni, un po’ cavalcando l’onda del politicamente corretto, cercando di togliersi di dosso la maschera della classicità che prevedeva il salvataggio della fanciulla da parte dell’eroe. E se anche “Frozen”, tanto per dirne uno, punta sulla forza delle sorelle, “Inside out 2” punta sulla forza e sull’eterogeneità del gruppo, addirittura pronto ad accogliere eventuali nuove e ulteriori novità.

A far storcere il naso, però, c’è il “problema” che purtroppo le emozioni secondarie sembrano essere solo e soltanto negative. La riflessione che emerge, quindi, è quella di una pubertà come evoluzione negativa dell’infanzia. Perché di fatto i nuovi protagonisti sembrano essere gli antagonisti del solido gruppo già formato. È vero che il campo adolescenziale è talmente vasto che una direzione andava presa, a discapito di altre importanti allo stesso modo, ma indirizzare il tutto solo e soltanto su questo versante significa convincere i più piccoli, ma non del tutto i più grandi.

Tra Easter Eggs, citazioni e richiami (dai videogiochi ai cartoni animati, passando anche per i cult del cinema), il secondo capitolo del film Pixar, stavolta diretto da Kelsey Mann, va ancora più a fondo nella mente della ragazzina protagonista, ma non scava nei meandri di quello che, come detto, è forse il periodo più complesso e denso di sfaccettature in generale: l’adolescenza. Ed è forse proprio questa complessità a tarpare le ali al film. Un film che potrebbe librarsi tranquillamente in aria, è, in parte, troppo ancorato a terra e, forse per la materia trattata o per l’incredibile cura nei dettagli o per entrambe le cose, dimentica di sviluppare alcuni aspetti (o magari ha intenzione di farlo in un terzo capitolo?). Se con l’avanzare dell’età le emozioni aumentano e la mente si fa sempre più complessa e piena di sfaccettature, perché gli unici adulti dei quali vediamo le emozioni (i genitori di Riley) hanno solo le emozioni primarie? Forse perché si adattano alla situazione del momento e, dovendo parlare con un’adolescente, nascondono e, quasi, reprimono quelle emozioni che complicherebbero ancora di più le carte in tavola e il rapporto che vorrebbero creare con la figlia? Magari questo potrà essere uno degli aspetti sui quali incentrare un terzo capitolo per il quale si aprono davvero tanti scenari.

Intanto non resta che godersi questo secondo capitolo, nuovamente campione di incassi, che con l’imbarazzo di essere dimenticato dopo 9 anni, l’invidia, in quanto sequel, di replicare il successo del primo, è tutt’altro che annoiato o noioso, ma in costante e perenne ansia da prestazione, così come la nuova “co-protagonista” arancione che ha conquistato chiunque fin dal primo istante, oltre a essere colei che dà origine a una delle sequenze più spaventose, ma allo stesso tempo magnifiche, di “Inside Out 2”, spiega a piccoli e grandi cosa vuol dire “provare emozioni”.


Veronica Ranocchi