Marko Polo
di
Elisa Fuksas
con
Elisa Fuksas, Lavinia Fuksas, Iaia Forte
Italia,
2024
genere:
docufiction
durata:
78’
A
metà strada tra finzione e realtà, Elisa Fuksas dà vita a Marko
Polo, film che racconta (o almeno prova) il viaggio che lei, insieme
alla sorella, alla sceneggiatrice e a una figura pseudo misteriosa, compie per
arrivare a Medjugorje.
È
la stessa regista a introdurre la storia spiegando come il film che stava
preparando sia stato interrotto e come lei si sia trovata, in qualche modo,
costretta a girare questo per raccontare quella che lei a volte definisce conversione,
ma che è semplicemente la sua decisione di diventare cattolica.
Credere
in qualcosa è cercare di stare.
Un
assunto importante alla base della storia che prende il nome dalla nave che
dovrebbe trasportare i protagonisti verso la loro destinazione, fisica, ma
anche metaforica.
Con
uno stile unico e una serie di sperimentazioni a livello registico la Fuksas ci
immerge completamente in questo viaggio facendoci diventare il quinto
personaggio che viaggia insieme a loro, tra fragilità e punti di forza. Al
procedere della loro traversata si alternano delle interviste fatte ad
alcuni personaggi a proposito della religione, il grande tema al centro del
lavoro di Elisa Fuksas. Le risposte sono le più disparate e fanno
tornare al discorso del documentario, a differenza di quanto invece fanno le
(dis)avventure dei protagonisti, tra una sorella talvolta ingombrante, una
sceneggiatrice che decide di non pronunciare più alcuna parola e un personaggio
che, in parte, dovrebbe richiamare la coscienza, ma che, in realtà, sembra
quasi essere un omaggio/citazione, a metà strada tra il Grillo Parlante di
Pinocchio e l’Armadillo di Zerocalcare.
Se
prendiamo per vero che Successo e fallimento possono essere la stessa cosa,
come ci suggerisce la stessa regista e protagonista, comprendiamo bene l’intento
di un documentario tanto reale quanto ironico. Ogni punto di vista è unico in una
continua sperimentazione e mescolanza di generi, definizioni e certezze.
Alla
base di Marko Polo è indubbio che ci sia il discorso relativo non
tanto alla fede quanto alla credenza e al credere in generale. Credere in sé
stessi, credere negli altri, credere nei propri mezzi e credere in qualcosa di
altro e di indefinito.
Credere
è come avere due sguardi.
E
la Fuksas ci mette abilmente di fronte a entrambi. In un esperimento nel
quale si respira metacinema, anche noi spettatori ci domandiamo costantemente
chi siamo e cosa stiamo vedendo. Il dubbio che quello che ci viene mostrato sullo
schermo sia reale o frutto della sua o della nostra immaginazione aleggia sul
pubblico per tutta la durata, seppur breve, del film. A suggellare, poi, tutto
quanto il disvelamento della maschera, la risposta alle mille domande che
sorgono spontanee fin dall’inizio.
Seppur
nella sua sperimentazione e nella sua (voluta) imperfezione Marko Polo
riesce a trovare un modo per tenere insieme i pezzi e regala più di una
riflessione allo spettatore, spaesato, disilluso e spaventato, costretto a
lasciare la sala con più domande che risposte.
Veronica Ranocchi