Moon
regia di Duncan Jones
Scritto e diretto dal regista pubblicitario Duncan Jones, qui al suo esordio per il grande schermo, Moon riprende i temi del filone fantascientifico, omaggiando classici del genere.
Girato con un budget ridotto all’osso, il film racconta la storia dell’astronauta Sam Bell (Sam Rockwell) impegnato, da tre anni, nella base lunare Selene, della società americana Lunar, per seguire e monitorare l’estrazione di helium 3, indispensabile per risolvere la crisi energetica terrestre.
Bell è accompagnato, nella sua attività e permanenza alla base, dal robot Gertie (la cui voce è interpretata da Kevin Spacey), dalle fattezze e comportamenti di kubrickiana memoria e che oltre a interloquire in stile umanoide comunica con emoticons.
A due settimane dalla conclusione del suo mandato, Bell inizia ad accusare seri problemi di salute che rapidamente lo portano ad aggravarsi e ad avere delle allucinazioni. La perdita di concentrazione dovuta a queste ultime, improvvise e scioccanti, causano a Bell un incidente durante una missione sul suolo lunare.
Cosa sta succedendo?
Perché improvvisamente c’è un altro Sam Bell nella base, irascibile ed inatteso?
Jones riece a tenere la tensione lungo tutto il film amplificando queste domane come cerchi nell’acqua fino al finale. La prova è ben riuscita anche grazie alla splendida performance di Sam Rockwell, qui impegnato quasi in un monologo che lo porta ad interpretare vari livelli emotivi e di coscienza.
Apprezzabile anche la colonna sonora, semplice ed asciugata nonché affabilmente ossessiva, che ben si adatta al clima di estraniamento e di progressivo risveglio di coscienza del protagonista.
Le sequenze girate in esterno risultano di pregante impatto visivo, tanto da rimandare alla mitica serie tv Spzazio 1999.
Voto 8
venerdì, febbraio 26, 2010
MOON
giovedì, febbraio 25, 2010
NORD
Norvegia.
Il viaggio di Jomar, ex campione di sci che depressione e crisi di panico hanno relegato in una stazione sciistisca come guardiano, inizia quando qualcuno gli rivela che una sua ex ha avuto un figlio da lui.
Con motoslitta, alcool e pillole, parte, lottando e sfidando le proprie paure.
Ultima esitazione: prima di una galleria (prima di immergersi in se stesso?), ma poi, via, lungo paesaggi completamente bianchi di neve, dove la presenza umana è rara.
La solitudine di un viaggio, che altro non è che un viaggio interiore, alla ri-scoperta di sè; per ritrovare il proprio io, che paure, ansie, depressione hanno annebbiato e nascosto.
E ora via, verso la vita (il figlio, come metafora della vita), attraverso dolori quasi insopportabili, case che bruciano, una bambina, un giovane e un vecchio che rappresentano l'unica umanità che incontra sul suo percorso (le tre età della vita?).
Solitudine, momenti che sfiorano il grottesco, tragicomici.
Tempeste di neve, cielo grigio, che alla fine del viaggio diventa assolato.
Ed è la vita!
Citando l'Ulisse di Joyce: "Forza, ora. E la via sia".
Visione del film consigliata, insieme a quella di "osare, affinché la via sia"
Il viaggio di Jomar, ex campione di sci che depressione e crisi di panico hanno relegato in una stazione sciistisca come guardiano, inizia quando qualcuno gli rivela che una sua ex ha avuto un figlio da lui.
Con motoslitta, alcool e pillole, parte, lottando e sfidando le proprie paure.
Ultima esitazione: prima di una galleria (prima di immergersi in se stesso?), ma poi, via, lungo paesaggi completamente bianchi di neve, dove la presenza umana è rara.
La solitudine di un viaggio, che altro non è che un viaggio interiore, alla ri-scoperta di sè; per ritrovare il proprio io, che paure, ansie, depressione hanno annebbiato e nascosto.
E ora via, verso la vita (il figlio, come metafora della vita), attraverso dolori quasi insopportabili, case che bruciano, una bambina, un giovane e un vecchio che rappresentano l'unica umanità che incontra sul suo percorso (le tre età della vita?).
Solitudine, momenti che sfiorano il grottesco, tragicomici.
Tempeste di neve, cielo grigio, che alla fine del viaggio diventa assolato.
Ed è la vita!
Citando l'Ulisse di Joyce: "Forza, ora. E la via sia".
Visione del film consigliata, insieme a quella di "osare, affinché la via sia"
Film in sala dal 26 febbraio 2010
Codice: Genesi
( The Book of Eli )
GENERE: Azione, Thriller
ANNO PROD: 2010 DATA DI USCITA: 26/02/2010
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Albert Hughes, Allen Hughes
Genitori & figli: Agitare bene prima dell'uso
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2010
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Giovanni Veronesi
Invictus
( Invictus )
GENERE: Biografico, Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Clint Eastwood
Nord
( Nord )
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Norvegia
REGIA: Rune Denstad Langlo
Senza apparente motivo
( Incendiary )
GENERE: Drammatico, Thriller
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Gran Bretagna
REGIA: Sharon Maguire
( The Book of Eli )
GENERE: Azione, Thriller
ANNO PROD: 2010 DATA DI USCITA: 26/02/2010
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Albert Hughes, Allen Hughes
Genitori & figli: Agitare bene prima dell'uso
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2010
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Giovanni Veronesi
Invictus
( Invictus )
GENERE: Biografico, Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Clint Eastwood
Nord
( Nord )
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Norvegia
REGIA: Rune Denstad Langlo
Senza apparente motivo
( Incendiary )
GENERE: Drammatico, Thriller
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Gran Bretagna
REGIA: Sharon Maguire
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film in uscita 2010
lunedì, febbraio 22, 2010
L'uomo nero
L'uomo nero
regia di Sergio Rubini
Con L'uomo nero Sergio Rubini torna ai temi a lui piu' cari quali la Puglia e la famiglia, in un percorso di ricordo e di catarsi che impreziosice un inequivocabile omaggio al suo paese di origine.
ambientato nella profonda provincia di Bari, Rubini dirige, ed interprta, la storia di Ernesto Rossetti, capostazione di uno sperduto paesino con velleità artistiche, che sogna di diventare un ammirato pittore. Ispirato da Cezanne, ma tuttavia umiliato da un critico d'arte locale che non perde occasione per stroncarlo sul quotidiano del Paese, Ernesto rincorre i sogni di gloria sbattendosi tra una incessante insoddisfazione ed uno sconfortante senso di fallimento.
La vita artistica di Ernesto si intreccia indissolubilmente con la sua vita famgiliare. La moglie, interpretata da Valeria Golino, è una insegnante che sostiene, con affanno e preoccupazione, i continu tentativi del marito di raggiungere la fama artistica.
Le vicende di famiglia sono narrate attraverso lo sguardo del piccolo figlio Gabriele, che si muove con curiosità e timore tra i giganti della sua famiglia: il padre frustrato ed affascinante, lo zio Pinuccio (Scamarcio) adorabile e donnaiolo, la madre presente e preoccupata.
La pellicola riporta indietro nel tempo e dà modo a Rubini di mettere in scena la figura del padre, in un percorso di comprensione, ricordo e catarsi profonde.
Ma il film è anche un abbraccio all'infanzia, alle sue meraviglie ed ai suoi primi traumi. Ed un luminoso omagio alla Puglia estiva inondata di luce.
Lo stesso Rubini, in conferenza stampa, ha dichiarato. "Lo spunto per girare L'uomo nero nasce da un ricordo dell'infanzia: la memoria di un macchinista che lanciava caramelle ai bambini lungo i binari. Sono perciò partito da quell'immagine e dalla voglia di tornare a lavorare con Domenico Starnone con cui condivido un padre ferroviere e pittore. Ci siamo seduti a tavolino e abbiamo messo insieme pezzi della nostra storia personale. All'inizio temevamo che potesse venirne fuori un racconto sfilacciato e confuso, più tardi, al contrario, che ci fosse invece troppa trama e che quest'ultima avrebbe finito per soffocare il clima e il sapore del film, che era la cosa che ci stava più a cuore. A volte penso di non poter fare a meno di tornare a me stesso e se uno non torna a se stesso che cosa racconta?"
Ottima prova del regista pugliese, che si conferma sempre più autore di storie popolari e capace di raccontare il nostro Pese con il giusto miscuglio di serietà ed ironia, senza mai perdere il contatto con la realtà.
Golino e Scamarcio supportano, con buona riuscita, l'interessante opera.
Di Fabrizio Gifuni possio parlare praticamente solo di cameo, come per le tante comparsate o i ruoli minori asseganti ad attori comunque amati e noti al grande pubblico (si vedano ad esempio Maurizio Micheli ed Anna Falchi).
Voto 8
regia di Sergio Rubini
Con L'uomo nero Sergio Rubini torna ai temi a lui piu' cari quali la Puglia e la famiglia, in un percorso di ricordo e di catarsi che impreziosice un inequivocabile omaggio al suo paese di origine.
ambientato nella profonda provincia di Bari, Rubini dirige, ed interprta, la storia di Ernesto Rossetti, capostazione di uno sperduto paesino con velleità artistiche, che sogna di diventare un ammirato pittore. Ispirato da Cezanne, ma tuttavia umiliato da un critico d'arte locale che non perde occasione per stroncarlo sul quotidiano del Paese, Ernesto rincorre i sogni di gloria sbattendosi tra una incessante insoddisfazione ed uno sconfortante senso di fallimento.
La vita artistica di Ernesto si intreccia indissolubilmente con la sua vita famgiliare. La moglie, interpretata da Valeria Golino, è una insegnante che sostiene, con affanno e preoccupazione, i continu tentativi del marito di raggiungere la fama artistica.
Le vicende di famiglia sono narrate attraverso lo sguardo del piccolo figlio Gabriele, che si muove con curiosità e timore tra i giganti della sua famiglia: il padre frustrato ed affascinante, lo zio Pinuccio (Scamarcio) adorabile e donnaiolo, la madre presente e preoccupata.
La pellicola riporta indietro nel tempo e dà modo a Rubini di mettere in scena la figura del padre, in un percorso di comprensione, ricordo e catarsi profonde.
Ma il film è anche un abbraccio all'infanzia, alle sue meraviglie ed ai suoi primi traumi. Ed un luminoso omagio alla Puglia estiva inondata di luce.
Lo stesso Rubini, in conferenza stampa, ha dichiarato. "Lo spunto per girare L'uomo nero nasce da un ricordo dell'infanzia: la memoria di un macchinista che lanciava caramelle ai bambini lungo i binari. Sono perciò partito da quell'immagine e dalla voglia di tornare a lavorare con Domenico Starnone con cui condivido un padre ferroviere e pittore. Ci siamo seduti a tavolino e abbiamo messo insieme pezzi della nostra storia personale. All'inizio temevamo che potesse venirne fuori un racconto sfilacciato e confuso, più tardi, al contrario, che ci fosse invece troppa trama e che quest'ultima avrebbe finito per soffocare il clima e il sapore del film, che era la cosa che ci stava più a cuore. A volte penso di non poter fare a meno di tornare a me stesso e se uno non torna a se stesso che cosa racconta?"
Ottima prova del regista pugliese, che si conferma sempre più autore di storie popolari e capace di raccontare il nostro Pese con il giusto miscuglio di serietà ed ironia, senza mai perdere il contatto con la realtà.
Golino e Scamarcio supportano, con buona riuscita, l'interessante opera.
Di Fabrizio Gifuni possio parlare praticamente solo di cameo, come per le tante comparsate o i ruoli minori asseganti ad attori comunque amati e noti al grande pubblico (si vedano ad esempio Maurizio Micheli ed Anna Falchi).
Voto 8
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italia,
recensioni
Le Refuge
Le Refuge
(regia di François Ozon)
Dopo aver scoperto che il compagno tossicodipendente è morto e lei è rimasta incinta, Mousse decide di portare avanti la gravidanza rifugiandosi nella villa di campagna di un ex spasimante. Il suo isolamento è interrotto dal fratellastro del morituro che al contrario degli altri familiari le offre il suo sostegno ed un po' di compagnia in attesa dell'evento. La convivenza forzata ed insieme voluta, darà il via ad un confronto di amore ed odio che confluirà nella scoperta di sé e dell'altro, con un finale sorprendente ma in linea con la poetica iconoclasta del suo autore.
Continua a leggere la recensione di LE REFUGE di nickoftiome su ONDACINEMA.IT
(regia di François Ozon)
Dopo aver scoperto che il compagno tossicodipendente è morto e lei è rimasta incinta, Mousse decide di portare avanti la gravidanza rifugiandosi nella villa di campagna di un ex spasimante. Il suo isolamento è interrotto dal fratellastro del morituro che al contrario degli altri familiari le offre il suo sostegno ed un po' di compagnia in attesa dell'evento. La convivenza forzata ed insieme voluta, darà il via ad un confronto di amore ed odio che confluirà nella scoperta di sé e dell'altro, con un finale sorprendente ma in linea con la poetica iconoclasta del suo autore.
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anteprime,
recensioni
venerdì, febbraio 19, 2010
Gli occhi di Penelope (1) - A SINGLE MAN
A SINGLE MAN
regia di Tom Ford
recensione di Penelope
"A single man" è il primo – di una lunga serie, spero – film di Tom Ford, fascinosissimo ex stilista del gruppo Gucci.
Lo avevo osservato ed ascoltato qualche giorno prima mentre veniva intervistato da Fabio Fazio, su Raitre. Non posso negare di essere rimasta ammaliata dal personaggio, da quel modo singolare di atteggiarsi sulla poltrona Frau dello studio, che trovava troppo bassa per i suoi gusti. Impeccabile nel suo abito nero, non riusciva a rilassarsi completamente su quella poltrona, tant’è che non ne ha mai sfiorato lo schienale. L’eleganza innata nella postura diritta e nei gesti morbidi tradiva già una spiccata sensibilità d’artista, che non si ferma all’estetica perfetta di cui è evidentemente l’incarnazione, ma che spazia interpretando e rendendo proprio un mondo che fino a ieri non gli apparteneva, quello dei cineasti. E così, quel vezzo terribilmente bello ed accattivante di aggrottare le sopracciglia in un’espressione profonda mi ha rapita e convinta ad andare al cinema a vedere il suo film.
Le premesse non mi hanno tradita. Il film è un piccolo capolavoro estetico, dall’impatto visivo fortissimo. Tratto dal romanzo omonimo dell’inglese Isherwood, il film racconta di un amore omosessuale che è terminato tragicamente, e del dolore lancinante che la conseguente solitudine provoca nel protagonista.
Il nostro “enfant prodige” sembra non lasciare nulla al caso. I colori dall’aurea bronzea proiettano lo spettatore con estrema immediatezza in quei malinconici anni ‘60 co-protagonisti del film, così delicatamente ricostruiti attraverso le ambientazioni ed i costumi. L’atmosfera restituita all’occhio è perfetta e mai ingabbiata in cliché o stereotipi. Ford riesce con gran naturalezza a costruire un mondo visivo che coinvolge senza mai travolgere, riuscendo a mantenere quella necessaria distanza emozionale tra il pubblico e la pellicola. Per raggiungere questo difficile ma riuscitissimo equilibrio estetico, Ford si affida a raffinate tecniche di ripresa cinematografica, riuscendo così a non sbagliare una sola inquadratura. Un esempio particolarmente efficace, a mio avviso, sono gli effetti di riquadratura presenti in alcune scene, dove talvolta convivono nella stessa dimensione spaziale i prepotenti occhiali del protagonista, lo specchietto retrovisore e il parabrezza della macchina, come se fossero testimoni di una scena nella scena, quasi a voler contenere e riflettere le potenzialità emotive dei personaggi. Molto interessante è anche l’ordine caratteristico dei molti elementi “in serie” protagonisti di alcune scene: i tanti fucili tutti nella stessa posizione parallela, le bottiglie in fila sugli scaffali dei bar, le macchine parcheggiate con perfetta geometria, suggeriscono l’idea di un ordine superiore ed esterno al personaggio a cui quest’ultimo vuol tendere caparbiamente.
Il film non è privo di ammiccamenti al linguaggio della comunicazione pubblicitaria, ed incastona alcuni passaggi in veri e propri cammei: l’uso del bianco e nero che il regista utilizza per ricordare alcuni momenti di vita del protagonista trascorsi con il compianto partner fa l’occhiolino a famosi spot pubblicitari dove corpi scolpiti ed adagiati su rocce quasi perpendicolari donano ai sensi dello spettatore una gradevole sensazione olfattiva. Che dire dello sfondo tutto hitchcockiano che, libero e blu, sorveglia il protagonista nel silenzio notturno di Los Angeles? E non si tratta dell’unica citazione cinematografica. Ford riesce a stimolare i ricordi dello spettatore e suggerisce una biondissima, fumante e muta Brigitte Bardot, un esplicito ed intraprendente James Dean, e ci serve su un vassoio d’argento lo spettro di Audrey Hepburn, che serpeggia dal romanzo di Truman Capote “Colazione da Tiffany” alle capigliature cotonate delle segretarie, agli abiti optical di una Julianne Moore già moralmente proiettata verso la realtà sessantottina.
Ma i pregi del film non si limitano solo agli aspetti stilistici ed estetici. Il film racconta una bella storia, la storia di una solitudine vissuta profondamente, di una lacerata intimità gridata a se stesso e non condivisa. Lo spettatore partecipa nonostante tutto al dolore del protagonista, ma lo fa con la discrezione del dovuto rispetto, e con un atteggiamento non urlato. L’equilibrio, dunque, non è solo caratteristica dell’impianto stilistico, ma costituisce il trait d'union tra questo e i sentimenti raccolti dal film. I personaggi sono delineati con estrema precisione ed accuratezza, e trasmettono allo spettatore le proprie difficoltà, i propri malesseri, senza mai essere invadenti. Ogni parola, ogni azione è dettata da una eleganza dell’animo e da una sensibilità delicatamente riportata in scena dagli attori. Le percezioni emotive risultano amplificate da un uso intelligente dell’accompagnamento musicale, talvolta sostituito dal nudo parlare degli elementi della natura, a sottolineare i momenti decisivi e tragici della storia. Il professore universitario George nasconde al mondo il suo dolore, e lo fa rendendosi quasi trasparente al cospetto di una società, quella dei sixties americani, che si esprime attraverso la quotidianità vissuta dai vicini di casa, attraverso i primi timori studenteschi nei riguardi della guerra fredda e delle altre trasformazioni storico-politiche in atto, attraverso la presa di coscienza della futura classe borghese americana dei pericoli dell’emarginazione delle minoranze, pericoli sollecitati dallo stesso professore George alla sua classe. E mentre contribuisce nel suo piccolo alla crescita culturale della nazione non senza successo (in particolare uno dei suoi alunni coglie nelle sue parole il profondo bisogno di riscontro), George soffre terribilmente di quella mancanza che gli deturpa l’anima. In questo ruolo imponente, Colin Firth convince senza alcun dubbio, e regala agli spettatori la percezione della sua intima disperazione.
regia di Tom Ford
recensione di Penelope
"A single man" è il primo – di una lunga serie, spero – film di Tom Ford, fascinosissimo ex stilista del gruppo Gucci.
Lo avevo osservato ed ascoltato qualche giorno prima mentre veniva intervistato da Fabio Fazio, su Raitre. Non posso negare di essere rimasta ammaliata dal personaggio, da quel modo singolare di atteggiarsi sulla poltrona Frau dello studio, che trovava troppo bassa per i suoi gusti. Impeccabile nel suo abito nero, non riusciva a rilassarsi completamente su quella poltrona, tant’è che non ne ha mai sfiorato lo schienale. L’eleganza innata nella postura diritta e nei gesti morbidi tradiva già una spiccata sensibilità d’artista, che non si ferma all’estetica perfetta di cui è evidentemente l’incarnazione, ma che spazia interpretando e rendendo proprio un mondo che fino a ieri non gli apparteneva, quello dei cineasti. E così, quel vezzo terribilmente bello ed accattivante di aggrottare le sopracciglia in un’espressione profonda mi ha rapita e convinta ad andare al cinema a vedere il suo film.
Le premesse non mi hanno tradita. Il film è un piccolo capolavoro estetico, dall’impatto visivo fortissimo. Tratto dal romanzo omonimo dell’inglese Isherwood, il film racconta di un amore omosessuale che è terminato tragicamente, e del dolore lancinante che la conseguente solitudine provoca nel protagonista.
Il nostro “enfant prodige” sembra non lasciare nulla al caso. I colori dall’aurea bronzea proiettano lo spettatore con estrema immediatezza in quei malinconici anni ‘60 co-protagonisti del film, così delicatamente ricostruiti attraverso le ambientazioni ed i costumi. L’atmosfera restituita all’occhio è perfetta e mai ingabbiata in cliché o stereotipi. Ford riesce con gran naturalezza a costruire un mondo visivo che coinvolge senza mai travolgere, riuscendo a mantenere quella necessaria distanza emozionale tra il pubblico e la pellicola. Per raggiungere questo difficile ma riuscitissimo equilibrio estetico, Ford si affida a raffinate tecniche di ripresa cinematografica, riuscendo così a non sbagliare una sola inquadratura. Un esempio particolarmente efficace, a mio avviso, sono gli effetti di riquadratura presenti in alcune scene, dove talvolta convivono nella stessa dimensione spaziale i prepotenti occhiali del protagonista, lo specchietto retrovisore e il parabrezza della macchina, come se fossero testimoni di una scena nella scena, quasi a voler contenere e riflettere le potenzialità emotive dei personaggi. Molto interessante è anche l’ordine caratteristico dei molti elementi “in serie” protagonisti di alcune scene: i tanti fucili tutti nella stessa posizione parallela, le bottiglie in fila sugli scaffali dei bar, le macchine parcheggiate con perfetta geometria, suggeriscono l’idea di un ordine superiore ed esterno al personaggio a cui quest’ultimo vuol tendere caparbiamente.
Il film non è privo di ammiccamenti al linguaggio della comunicazione pubblicitaria, ed incastona alcuni passaggi in veri e propri cammei: l’uso del bianco e nero che il regista utilizza per ricordare alcuni momenti di vita del protagonista trascorsi con il compianto partner fa l’occhiolino a famosi spot pubblicitari dove corpi scolpiti ed adagiati su rocce quasi perpendicolari donano ai sensi dello spettatore una gradevole sensazione olfattiva. Che dire dello sfondo tutto hitchcockiano che, libero e blu, sorveglia il protagonista nel silenzio notturno di Los Angeles? E non si tratta dell’unica citazione cinematografica. Ford riesce a stimolare i ricordi dello spettatore e suggerisce una biondissima, fumante e muta Brigitte Bardot, un esplicito ed intraprendente James Dean, e ci serve su un vassoio d’argento lo spettro di Audrey Hepburn, che serpeggia dal romanzo di Truman Capote “Colazione da Tiffany” alle capigliature cotonate delle segretarie, agli abiti optical di una Julianne Moore già moralmente proiettata verso la realtà sessantottina.
Ma i pregi del film non si limitano solo agli aspetti stilistici ed estetici. Il film racconta una bella storia, la storia di una solitudine vissuta profondamente, di una lacerata intimità gridata a se stesso e non condivisa. Lo spettatore partecipa nonostante tutto al dolore del protagonista, ma lo fa con la discrezione del dovuto rispetto, e con un atteggiamento non urlato. L’equilibrio, dunque, non è solo caratteristica dell’impianto stilistico, ma costituisce il trait d'union tra questo e i sentimenti raccolti dal film. I personaggi sono delineati con estrema precisione ed accuratezza, e trasmettono allo spettatore le proprie difficoltà, i propri malesseri, senza mai essere invadenti. Ogni parola, ogni azione è dettata da una eleganza dell’animo e da una sensibilità delicatamente riportata in scena dagli attori. Le percezioni emotive risultano amplificate da un uso intelligente dell’accompagnamento musicale, talvolta sostituito dal nudo parlare degli elementi della natura, a sottolineare i momenti decisivi e tragici della storia. Il professore universitario George nasconde al mondo il suo dolore, e lo fa rendendosi quasi trasparente al cospetto di una società, quella dei sixties americani, che si esprime attraverso la quotidianità vissuta dai vicini di casa, attraverso i primi timori studenteschi nei riguardi della guerra fredda e delle altre trasformazioni storico-politiche in atto, attraverso la presa di coscienza della futura classe borghese americana dei pericoli dell’emarginazione delle minoranze, pericoli sollecitati dallo stesso professore George alla sua classe. E mentre contribuisce nel suo piccolo alla crescita culturale della nazione non senza successo (in particolare uno dei suoi alunni coglie nelle sue parole il profondo bisogno di riscontro), George soffre terribilmente di quella mancanza che gli deturpa l’anima. In questo ruolo imponente, Colin Firth convince senza alcun dubbio, e regala agli spettatori la percezione della sua intima disperazione.
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recensione
giovedì, febbraio 18, 2010
Film in sala dal 19 febbraio 2010
Afterschool
( Afterschool )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Antonio Campos
Che fine hanno fatto i Morgan?
( Did You Hear About the Morgans? )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Marc Lawrence (II)
Il figlio più piccolo
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO PROD: 2010 DATA DI USCITA: 19/02/2010
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Pupi Avati
Il Missionario
( Le missionnaire )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Francia
REGIA: Roger Delattre
Il richiamo della foresta 3D
( Call of the Wild 3D )
GENERE: Drammatico, Avventura, Family
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Richard Gabai
La bocca del lupo
GENERE: Drammatico, Docufiction
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Pietro Marcello
L'Uomo Fiammifero
GENERE: Fantasy, Avventura
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Marco Chiarini
Promettilo!
( Zavet )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ Francia, Serbia
REGIA: Emir Kusturica
Wolfman
( The WolfMan )
GENERE: Horror
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Joe Johnston
( Afterschool )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Antonio Campos
Che fine hanno fatto i Morgan?
( Did You Hear About the Morgans? )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Marc Lawrence (II)
Il figlio più piccolo
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO PROD: 2010 DATA DI USCITA: 19/02/2010
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Pupi Avati
Il Missionario
( Le missionnaire )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Francia
REGIA: Roger Delattre
Il richiamo della foresta 3D
( Call of the Wild 3D )
GENERE: Drammatico, Avventura, Family
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Richard Gabai
La bocca del lupo
GENERE: Drammatico, Docufiction
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Pietro Marcello
L'Uomo Fiammifero
GENERE: Fantasy, Avventura
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Marco Chiarini
Promettilo!
( Zavet )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ Francia, Serbia
REGIA: Emir Kusturica
Wolfman
( The WolfMan )
GENERE: Horror
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Joe Johnston
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film in uscita 2010
mercoledì, febbraio 17, 2010
INVICTUS
INVICTUS
(regia di Clint Eastwood)
E’ difficile parlare dei maestri perché di loro si è detto già tutto, e quando lo si fa’ si rischia di parlare dell’ovvio, oppure di ledere l’aura di intoccabilità che li circonda quando il film non soddisfa le aspettative.
E’ questo il caso di Invictus, ultimo film di Clint Eastwood, un artista già in odore di santità, e che attraverso un episodio della vita del celebre Mandela si cimenta nuovamente con gli eventi della Storia, immergendoli all’interno di una poetica del quotidiano che fa i conti con la vita e misura la grandezza degli uomini dalla dignità dei loro gesti più che dal clamore dei resoconti cronachistici.
Anche nella scelta di raccontare attraverso un episodio minore la lungimiranza, per altri versi eclatante, del vecchio leader alle prese con i problemi di un paese ancora lacerato dalle tensioni razziali, ed in profonda crisi economica, (l’unificazione della Nazione passò anche attraverso al successo mondiale della nazionale di rugby sottratta all’esclusività dei soli Afrikaners e restituita alla popolazione nella sua totalità) Eastwood conferma la sua predilezione per una marginalità che racchiude l’essenza delle cose.
Ma anche qui, come già in passato gli era capitato, il regista è costretto a fare i conti con il passo della Storia, che concede molto in termini di fascinazione, ma esige anche un dimensione ufficiale che in qualche modo sembra togliere il respiro a quella privata e particolare del regista americano.
Così dopo un inizio folgorante, in cui il passaggio della scorta presidenziale, con le diverse reazioni dei ragazzi impegnati sui rispettivi campi di gioco è da solo significativo del momento storico, ed alcuni accenni al privato di Mandela alle prese con una paternità piena di rimorsi (un altro must del regista), il film inizia lentamente ma in maniera inesorabile a deragliare verso una narrazione che deve dare conto dei fatti e cede il passo al resoconto.
Insomma una sorta di prigione in cui rimane coinvolta la spontaneità di Morgan Freeman, imbrigliata da una performance interessata esclusivamente a replicare l’iconografia ufficiale del personaggio, ed il professionismo di Matt Damon, alle prese con un ruolo che non gli offre molte chance anche in termini di minutaggio.
Certo non mancano qua e là reminescenze di grande cinema, soprattutto negli spazi dedicati al rapporto tra Mandela ed il capitano della squadra (saranno proprio i suggerimenti del primo a ridare ossigeno ad un team senza identità e sull’orlo di essere disciolto), ma per il resto si cade nell’anneddotica sociale, con il bambino di colore che segue la partita insieme ai poliziotti che poco prima lo scacciavano, e sportiva, con inquadrature dello stadio stracolmo a simboleggiare la ritrovata unità ed una partita finale dilatata all’infinito dall’uso di un rallentì a rischio di maniera.
Insomma, per chi scrive si tratta di un film che non toglie niente alla fama del suo autore ma che neanche aggiunge nulla rispetto ad una carriera che non finisce di stupire, se è vera la notizia di un prossimo thriller soprannaturale (Hereafter) con Matt Demon protagonista.
(regia di Clint Eastwood)
E’ difficile parlare dei maestri perché di loro si è detto già tutto, e quando lo si fa’ si rischia di parlare dell’ovvio, oppure di ledere l’aura di intoccabilità che li circonda quando il film non soddisfa le aspettative.
E’ questo il caso di Invictus, ultimo film di Clint Eastwood, un artista già in odore di santità, e che attraverso un episodio della vita del celebre Mandela si cimenta nuovamente con gli eventi della Storia, immergendoli all’interno di una poetica del quotidiano che fa i conti con la vita e misura la grandezza degli uomini dalla dignità dei loro gesti più che dal clamore dei resoconti cronachistici.
Anche nella scelta di raccontare attraverso un episodio minore la lungimiranza, per altri versi eclatante, del vecchio leader alle prese con i problemi di un paese ancora lacerato dalle tensioni razziali, ed in profonda crisi economica, (l’unificazione della Nazione passò anche attraverso al successo mondiale della nazionale di rugby sottratta all’esclusività dei soli Afrikaners e restituita alla popolazione nella sua totalità) Eastwood conferma la sua predilezione per una marginalità che racchiude l’essenza delle cose.
Ma anche qui, come già in passato gli era capitato, il regista è costretto a fare i conti con il passo della Storia, che concede molto in termini di fascinazione, ma esige anche un dimensione ufficiale che in qualche modo sembra togliere il respiro a quella privata e particolare del regista americano.
Così dopo un inizio folgorante, in cui il passaggio della scorta presidenziale, con le diverse reazioni dei ragazzi impegnati sui rispettivi campi di gioco è da solo significativo del momento storico, ed alcuni accenni al privato di Mandela alle prese con una paternità piena di rimorsi (un altro must del regista), il film inizia lentamente ma in maniera inesorabile a deragliare verso una narrazione che deve dare conto dei fatti e cede il passo al resoconto.
Insomma una sorta di prigione in cui rimane coinvolta la spontaneità di Morgan Freeman, imbrigliata da una performance interessata esclusivamente a replicare l’iconografia ufficiale del personaggio, ed il professionismo di Matt Damon, alle prese con un ruolo che non gli offre molte chance anche in termini di minutaggio.
Certo non mancano qua e là reminescenze di grande cinema, soprattutto negli spazi dedicati al rapporto tra Mandela ed il capitano della squadra (saranno proprio i suggerimenti del primo a ridare ossigeno ad un team senza identità e sull’orlo di essere disciolto), ma per il resto si cade nell’anneddotica sociale, con il bambino di colore che segue la partita insieme ai poliziotti che poco prima lo scacciavano, e sportiva, con inquadrature dello stadio stracolmo a simboleggiare la ritrovata unità ed una partita finale dilatata all’infinito dall’uso di un rallentì a rischio di maniera.
Insomma, per chi scrive si tratta di un film che non toglie niente alla fama del suo autore ma che neanche aggiunge nulla rispetto ad una carriera che non finisce di stupire, se è vera la notizia di un prossimo thriller soprannaturale (Hereafter) con Matt Demon protagonista.
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anteprime,
recensioni
giovedì, febbraio 11, 2010
PARANORMAL ACTIVITY
PARANORMAL ACTIVITY (Usa 2007)
Versione 1
L'incredibile storia di questo film ha inizio nel
2007.
Oren Peli gira il suo film in appena una
settimana, con una troupe di sole 3 persone e con un budget
misero di appena 15.000 dollari.
Il regista invia il suo film a numerosi festival, ma
solo lo Screamfest di Los Angeles inserisce PARANORMAL
ACTIVITY nel programma.
Il film viene notato da Steven Spielberg che lo
acquista per poter girare un sequel con la sua Dreamworks,
poi cambia idea, si accorda con la Paramount e organizzano
delle proiezioni nelle cittadine studentesche statunitensi
che ovviamente vanno tutte esaurite.
Il resto è storia recente.
PARANORMAL ACTIVITY costato solo 15.000 dollari
(Avatar è costato 450 milioni di dollari) ha
incassato solo negli Usa oltre 100 milioni di dollari e se,
come sembra, il successo sarà confermato anche in
Europa, si accinge ad attaccare il record dei record,
detenuto da GOLA PROFONDA (1972 - ma in Italia uscito
nel 1977) costato 25.000 dollari e che ha incassato in
tutto il mondo, home video compreso, oltre 600 milioni
di dollari.
PARANORMAL ACTIVITY ha una struttura elementare: una
giovane coppia continua a sentire strani rumori
all'interno della casa, la donna addirittura confida al
fidanzato di avvertire delle presenze durante le ore
notturne.
Per scoprire cosa succede durante la notte, i due
decidono di piazzare una telecamera nella stanza da letto
per filmare quello che avviene mentre dormono.
Oren Peli confeziona un horror
dell'inconscio di ambientazione casalinga, puntando
tutto sulle paure quotidiane, senza bisogno di scomodare
serial killer, mostri, zombie e sopratutto senza sprecare
ettolitri di vernice rossa.
L'esordiente regista fa fruttare al massimo
la piccola idea di partenza e ci costruisce su un intero
film, inoltre è bravo ad utilizzare al meglio i pochi
elementi (e risorse) a disposizione, vale a dire tonfi,
grugniti, scricchiolii.
Versione 2
Basta con questa storia del filmato ritrovato!
Lo abbiamo già visto in REC(2007), in CLOVERFIELD
(2008) e in quello che è considerato il padre del
genere, vale a dire THE BLAIR WITCH PROJECT (1998) come ci
è stato più volte spiegato dalla gran parte della stampa
in questi giorni.
Se invece avete un minimo di fiducia nel sottoscritto,
e sopratutto se avete uno stomaco abbastanza forte, vi
consiglierei di andare a cercare
l'ipercensurato CANNIBAL HOLOCAUST (1979) e vi
accorgerete che la storia del filmato ritrovato
era già stata portata sul grande schermo
dall'italianissimo Ruggero Deodato.
Anche se ultimamente l'horror sta segnando il
passo evidenziando chiari segni di stanchezza,
Paranormal Activity non può essere preso sul serio.
Due persone a corto di neuroni una volta preso atto
che la casa è infestata da presenze demoniache affrontano
il problema in scioltezza.
Mentre preparano la cena discutono amabilmente se sia
il caso di contattare un esorcista piuttosto che un
sensitivo, come se parlassero dell'idraulico o
dell'imbianchino e poi se ne vanno tranquillamente a
dormire.
La pochezza di tutto l'impianto è palese, anche
perchè ricalca storie già viste.
Si passa il tempo a sbadigliare in attesa
delle riprese notturne sperando in qualche sussulto che
non arriverà mai.
Miracoli del
marketing.
Versione 1
L'incredibile storia di questo film ha inizio nel
2007.
Oren Peli gira il suo film in appena una
settimana, con una troupe di sole 3 persone e con un budget
misero di appena 15.000 dollari.
Il regista invia il suo film a numerosi festival, ma
solo lo Screamfest di Los Angeles inserisce PARANORMAL
ACTIVITY nel programma.
Il film viene notato da Steven Spielberg che lo
acquista per poter girare un sequel con la sua Dreamworks,
poi cambia idea, si accorda con la Paramount e organizzano
delle proiezioni nelle cittadine studentesche statunitensi
che ovviamente vanno tutte esaurite.
Il resto è storia recente.
PARANORMAL ACTIVITY costato solo 15.000 dollari
(Avatar è costato 450 milioni di dollari) ha
incassato solo negli Usa oltre 100 milioni di dollari e se,
come sembra, il successo sarà confermato anche in
Europa, si accinge ad attaccare il record dei record,
detenuto da GOLA PROFONDA (1972 - ma in Italia uscito
nel 1977) costato 25.000 dollari e che ha incassato in
tutto il mondo, home video compreso, oltre 600 milioni
di dollari.
PARANORMAL ACTIVITY ha una struttura elementare: una
giovane coppia continua a sentire strani rumori
all'interno della casa, la donna addirittura confida al
fidanzato di avvertire delle presenze durante le ore
notturne.
Per scoprire cosa succede durante la notte, i due
decidono di piazzare una telecamera nella stanza da letto
per filmare quello che avviene mentre dormono.
Oren Peli confeziona un horror
dell'inconscio di ambientazione casalinga, puntando
tutto sulle paure quotidiane, senza bisogno di scomodare
serial killer, mostri, zombie e sopratutto senza sprecare
ettolitri di vernice rossa.
L'esordiente regista fa fruttare al massimo
la piccola idea di partenza e ci costruisce su un intero
film, inoltre è bravo ad utilizzare al meglio i pochi
elementi (e risorse) a disposizione, vale a dire tonfi,
grugniti, scricchiolii.
Versione 2
Basta con questa storia del filmato ritrovato!
Lo abbiamo già visto in REC(2007), in CLOVERFIELD
(2008) e in quello che è considerato il padre del
genere, vale a dire THE BLAIR WITCH PROJECT (1998) come ci
è stato più volte spiegato dalla gran parte della stampa
in questi giorni.
Se invece avete un minimo di fiducia nel sottoscritto,
e sopratutto se avete uno stomaco abbastanza forte, vi
consiglierei di andare a cercare
l'ipercensurato CANNIBAL HOLOCAUST (1979) e vi
accorgerete che la storia del filmato ritrovato
era già stata portata sul grande schermo
dall'italianissimo Ruggero Deodato.
Anche se ultimamente l'horror sta segnando il
passo evidenziando chiari segni di stanchezza,
Paranormal Activity non può essere preso sul serio.
Due persone a corto di neuroni una volta preso atto
che la casa è infestata da presenze demoniache affrontano
il problema in scioltezza.
Mentre preparano la cena discutono amabilmente se sia
il caso di contattare un esorcista piuttosto che un
sensitivo, come se parlassero dell'idraulico o
dell'imbianchino e poi se ne vanno tranquillamente a
dormire.
La pochezza di tutto l'impianto è palese, anche
perchè ricalca storie già viste.
Si passa il tempo a sbadigliare in attesa
delle riprese notturne sperando in qualche sussulto che
non arriverà mai.
Miracoli del
marketing.
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recensioni
Film in sala dal 12 febbraio 2010
Lourdes
( Lourdes )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Austria, Francia
REGIA: Jessica Hausner
Amabili resti
( The Lovely Bones )
GENERE: Drammatico, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Gran Bretagna, Nuova Zelanda, USA
REGIA: Peter Jackson
Maga Martina e il libro magico del draghetto
( Hexe Lilli, der Drache und das magische Buch )
GENERE: Fantastico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Australia, Germania, Italia
REGIA: Stefan Ruzowitzky
Scusa ma ti voglio sposare
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Federico Moccia
( Lourdes )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Austria, Francia
REGIA: Jessica Hausner
Amabili resti
( The Lovely Bones )
GENERE: Drammatico, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Gran Bretagna, Nuova Zelanda, USA
REGIA: Peter Jackson
Maga Martina e il libro magico del draghetto
( Hexe Lilli, der Drache und das magische Buch )
GENERE: Fantastico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Australia, Germania, Italia
REGIA: Stefan Ruzowitzky
Scusa ma ti voglio sposare
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Federico Moccia
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film in uscita 2010
giovedì, febbraio 04, 2010
Film in sala dal 5 febbraio 2010
Adam
( Adam )
GENERE: Commedia, Drammatico, Sentimentale
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Max Mayer
An Education
( An Education )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Gran Bretagna
REGIA: Lone Scherfig
Bright Star
( Bright Star )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Australia, Francia, Gran Bretagna, USA
REGIA: Jane Campion
Il concerto
( Le concert )
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Francia
REGIA: Radu Mihaileanu
Paranormal Activity
( Paranormal Activity )
GENERE: Horror, Thriller
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Oren Peli
( Adam )
GENERE: Commedia, Drammatico, Sentimentale
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Max Mayer
An Education
( An Education )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Gran Bretagna
REGIA: Lone Scherfig
Bright Star
( Bright Star )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Australia, Francia, Gran Bretagna, USA
REGIA: Jane Campion
Il concerto
( Le concert )
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Francia
REGIA: Radu Mihaileanu
Paranormal Activity
( Paranormal Activity )
GENERE: Horror, Thriller
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Oren Peli
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film in uscita 2010
lunedì, febbraio 01, 2010
Baciami ancora
Baciami ancora
Muccino, Procacci e Medusa schierano la meglio gioventù del cinema italiano e organizzano un bombardamento mediatico di rara intensità per il sequel de L'ULTIMO BACIO.
Fastose autocelebrazioni alla presenza di sorridenti dignitari di corte hanno segnato la settimana televisiva che ha preceduto l'uscita del film.
Il regista romano durante il soggiorno americano ha imparato i meccanismi dell'entertainment hollywoodiano e lo catapulta speranzoso sugli schermi italiani mettendo in scena un sequel infarcito di grossi nomi ai quali aggiunge la sua buona tecnica registica.
Il risultato è un film che si porta addosso i segni evidenti della sua estrema commerciabilità, che sicuramente avrà un buon riscontro al botteghino, che negli USA porta dritto allo status di grande regista, ma in Europa non funziona così e Muccino rischia di ritrovarsi in fondo al gruppo mentre le sagome dei suoi giovani colleghi Sorrentino, Garrone e Crialese si allontanano all'orizzonte.
Gabriele Muccino, che si preoccupa persino di citare il suo datore di lavoro americano Will Smith, si rivolta con voluttà negli stessi ingredienti de L'ULTIMO BACIO, vale a dire autodistruzione fisica e amorosa, occasioni perse e rimpianti, ma questo suo nuovo affresco generazionale è lontano anni luce dalla freschezza e dall'aggressività del primo capitolo.
Un paio di passaggi di buon cinema non salvano questo baraccone piacione dalle dinamiche prevedibili, senza grinta, che si trascina stancamente per due ore.
Sceneggiato come una telenovela sudamericana, condito con tragedie che non riescono a sembrare serie e fastidiosamente infarcito di pubblicità, BACIAMI ANCORA delude le attese e a tratti irrita nel vedere sprecato il talento dei protagonisti, (vittima eccellente il bravo Favino che interpreta un personaggio macchietta) e sopratutto quando il pupillo di Will Smith ci ripropone la stessa scena di lutto già vista in SATURNO CONTRO di Ozpetek.
Restiamo in attesa della prossima puntata dove, azzardiamo, la figlia di Carlo (Accorsi) e Giulia (Puccini) sarà alle prese con i primi amori; il padre naturale del figlio di Marco (Favino) e Veronica (Piazza) si rifarà vivo reclamando la paternità del bambino e Alberto (Cocci) tornerà dal suo viaggio.
BACIAMI ANCORA insieme a Baaria è la grande operazione commerciale di questa stagione dell'Italia cinematografara. Quella di Tornatore, come sappiamo, è miseramente fallita, questa di Muccino la dimenticheremo presto..
Tanto rumore per nulla.
Muccino, Procacci e Medusa schierano la meglio gioventù del cinema italiano e organizzano un bombardamento mediatico di rara intensità per il sequel de L'ULTIMO BACIO.
Fastose autocelebrazioni alla presenza di sorridenti dignitari di corte hanno segnato la settimana televisiva che ha preceduto l'uscita del film.
Il regista romano durante il soggiorno americano ha imparato i meccanismi dell'entertainment hollywoodiano e lo catapulta speranzoso sugli schermi italiani mettendo in scena un sequel infarcito di grossi nomi ai quali aggiunge la sua buona tecnica registica.
Il risultato è un film che si porta addosso i segni evidenti della sua estrema commerciabilità, che sicuramente avrà un buon riscontro al botteghino, che negli USA porta dritto allo status di grande regista, ma in Europa non funziona così e Muccino rischia di ritrovarsi in fondo al gruppo mentre le sagome dei suoi giovani colleghi Sorrentino, Garrone e Crialese si allontanano all'orizzonte.
Gabriele Muccino, che si preoccupa persino di citare il suo datore di lavoro americano Will Smith, si rivolta con voluttà negli stessi ingredienti de L'ULTIMO BACIO, vale a dire autodistruzione fisica e amorosa, occasioni perse e rimpianti, ma questo suo nuovo affresco generazionale è lontano anni luce dalla freschezza e dall'aggressività del primo capitolo.
Un paio di passaggi di buon cinema non salvano questo baraccone piacione dalle dinamiche prevedibili, senza grinta, che si trascina stancamente per due ore.
Sceneggiato come una telenovela sudamericana, condito con tragedie che non riescono a sembrare serie e fastidiosamente infarcito di pubblicità, BACIAMI ANCORA delude le attese e a tratti irrita nel vedere sprecato il talento dei protagonisti, (vittima eccellente il bravo Favino che interpreta un personaggio macchietta) e sopratutto quando il pupillo di Will Smith ci ripropone la stessa scena di lutto già vista in SATURNO CONTRO di Ozpetek.
Restiamo in attesa della prossima puntata dove, azzardiamo, la figlia di Carlo (Accorsi) e Giulia (Puccini) sarà alle prese con i primi amori; il padre naturale del figlio di Marco (Favino) e Veronica (Piazza) si rifarà vivo reclamando la paternità del bambino e Alberto (Cocci) tornerà dal suo viaggio.
BACIAMI ANCORA insieme a Baaria è la grande operazione commerciale di questa stagione dell'Italia cinematografara. Quella di Tornatore, come sappiamo, è miseramente fallita, questa di Muccino la dimenticheremo presto..
Tanto rumore per nulla.
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recensioni
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