giovedì, luglio 23, 2015

KURT COBAIN-MONTAGE OF HECK

Kurt Cobain - Montage of Heck".
di Brett Morgen
Usa, 2015
genere, documentario
durata, 132'

"I feel stupid and contagious/Here we are now: entertain us". Era cominciata così, almeno sui grandi numeri. E con feroci contorsioni di stomaco da un lato del palco ("Ho subito dieci interventi diversi nelle zone gastrointestinali superiori e inferiori che hanno rivelato una brutta infiammazione. Ho consultato quindici medici diversi e ho provato una cinquantina di medicine per l'ulcera. L'unica cosa che funzionasse erano gli oppiacei pesanti... Ho provato l'eroina per la prima volta nel 1987, ad Aberdeen e l'ho usata per circa dieci volte ancora dall'87 al '90... Per un po' ha funzionato come palliativo ma poi il dolore e' tornato per cui ho lasciato perdere... Soffro di cattive abitudini nel sonno e nell'alimentazione. Soffro di aver fatto un tour di sette cazzo di mesi..." - K.Cobain, "Diari" -), con annesso ribrezzo verso un sistema ben al di sotto di ogni sospetto nella sua foga cieca per la grande-giostra-a-pagamento, e masse già abbondantemente sfessate dall'abuso del cocktail forse più velenoso in circolazione - quello a base di dosi variabili di buona fede e disperata necessita' di aggrapparsi a qualunque appiglio simbolico risarcitorio - dall'altro. E più dal primo versante si tentavano manovre, magari ingenue, di disassuefazione forzata, più dal secondo s'invocavano beveraggi sempre più massicci e di maggiore gradazione...

Se e' la vecchia trappola del successo quella a cui abbiamo per sommi capi alluso, il documento di B.Morgen, "K.Cobain - montage of Heck - il titolo del quale raccoglie un'intestazione apposta dallo stesso chitarrista/cantante di Aberdeen (Wa), località a non molti chilometri sia da Seattle che da Portland, ad una personale raccolta di temi sparsi, distorsioni, nenie macabre, s'incarica di allargare lo spettro delle considerazioni possibili avvalendosi di un corposo materiale messo a disposizione dalla famiglia naturale nonché da quella costruita nei primi anni '90 assieme a C.Love, organizzato a mo' di collage con lo scopo di ripercorrere pressoché per intero la forsennata a travagliata parabola di un tale che amava talvolta firmarsi Kur-d-t Koebane.

In quella che col solito e comodo senno di poi appare una scomposta iattazione verso il niente-di-niente punteggiata di tregue spossate e intermezzi di appartata ispirazione, il film tenta di assemblare un itinerario allo stesso tempo sentimentale e di formazione poggiandosi, pero', in prevalenza sul versante morbido e un tanto giulebboso, sul genere quanto-ci-manca-lui-e-il-suo-tormentato-talento (e forse non e' proprio un caso che all'appello semi-celebrativo manchi la versione dei fatti di Dave Grohl, l'unico  della compagnia, tra l'altro, ad essere rimasto attivo nel music show-biz), che prevede un'alternanza asincrona tra le dichiarazioni rese da alcuni co-protagonisti e comprimari e il flusso storico di una narrazione che si sforza di essere individuale e collettiva (arricchita in via ulteriore di brevi animazioni a colmare gli ovvi vuoti di un'avventura umana e artistica agli inizi, del tutto congetturale perciò nei risvolti più prosaici). Il risultato di un lavoro siffatto, che trova nella composizione di strumenti espressivi disparati - super 8 domestici, istantanee, disegni, pagine di diario, video amatoriali delle primissime esibizioni e delle fantasie private, reperti giornalistici, immagini rubate sopra e dietro il palco a deflagrazione avvenuta - la sua più evidente ragion d'essere stilistica, seppur niente affatto inedita, e' da considerarsi interessante al momento di circostanziare il paesaggio fisico e immaginativo della pre-adolescenza di Cobain, allineando dettagli - con ogni probabilità casuali, non per questo meno significativi - di quell'America profonda, provinciale, silenziosa, non di rado tetra, all'interno della quale si comincia da subito a prendere dimestichezza con il lato più esigente, cioè meno letterario, del ben noto american way of life (fatto per sua buona parte della presenza costante degli oggetti di consumo, tante volte nella loro versione di rifiuto inutilizzabile destinato ad una accumulazione marginale eppero' ineludibile, tale da impregnarsi sovente di una qual maligna carica allusiva sottolineata con veemenza, ad esempio, nel Cinema di Korine; dalla simmetrica latenza/assenza di una sincera e costante empatia intergenerazionale; di un rapporto con la wilderness che nasce e si sviluppa secondo i codici incerti di una grammatica perlopiù incapace di superare quelle dicotomie semplicisticamente radicali che separano senza possibilità di mediazione la verde desolazione residuale suburbana dal rigoglio incontaminato, di frequente avvolto nel mistero della sua irriducibilita' e un tanto sinistro, dei grandi spazi aperti), a metabolizzarlo, a subirlo, a rigettarlo, anche, fino al punto di farne persino il centro delle proprie ossessioni, dei propri incubi ricorrenti, la causa e l'effetto delle proprie apatie.

Se a ciò si aggiunge, poi, il subitaneo abbandono da parte degli affetti di riferimento - Kurt all'età di sette, otto anni, agli albori del riflusso post-Vietnam, assiste al divorzio dei genitori e a ruota comincia il mesto periplo degli affidamenti più o meno duraturi presso individui che sebbene appartenenti in vario grado alla sfera materna o paterna si rivelano poco o punto interessati al suo rovello interiore - diventa addirittura banale, per un carattere ricettivo ma introflesso, trovarsi collocato ante aetatem nei territori del risentimento e dell'alienazione, sfuggire dai quali si scopre essere assai complicato mano mano che il tempo passa, la consapevolezza del mondo si delinea e si svelano insoddisfacenti pure gli atti vandalici, l'assunzione di sostanze, il ripiegamento a volte salutare ma più spesso nevrotico in se stessi. Proprio qui, forse, galleggia quel grumo irrisolto ma fecondo di frustrazioni, di speranze, di precoci disillusioni, di sogni quasi sempre e solo infranti, che abbiamo imparato a conoscere e a riconoscere nella forma di quella immediatezza riconducibile ad una manciata compatta di note, tanto in apparenza docili nel disporsi secondo architetture essenziali, quanto una per una carica di una energia primordiale - al tempo brutale, infantile e stranita - in stretto rapporto con strofe crudamente naïf in grado, tra un paradosso, uno sconforto e una strafottenza, di produrre risonanze metaforiche sconcertanti, quasi sempre in oscillazione su un'altalena spirituale che incastra il grido mezzo sguaiato alla cantilena, al mormorio monotono, alla lamentazione esausta. Nucleo enigmatico, questo (che, a pensarci, non escluderebbe neanche il rapporto di fascinazione/ripulsa nei confronti dell'ingranaggio dei media, argomento, nel caso, tutt'altro che sviscerato) che l'opera di Morgen via via smarrisce, appiattendosi su una ricapitolazione prevedibile e piuttosto consolatoria (quand'anche appesantita da insistenze e lungaggini, a corroborare perversamente un'affermazione proprio di Cobain secondo cui "credo che il problema con la nostra storia sia che non c'è roba vera e interessante per trarne un bel racconto" - K.Cobain, op. cit.) circa l'artista sensibile poco più che ventenne, catapultato nella privilegiata/scomoda ma soprattutto non richiesta posizione di icona di una generazione, quella detta X, con tutto ciò che di spropositato, pleonastico, ricattatorio, pseudo-messianico, trito e demenziale tale etichetta si porta dietro, dipendenza da qualsivoglia circostanza esterna ma dal possente impatto psicologico, inclusa: denaro, popolarità, oggetti, giudizi, rapporto con l'altro sesso, et. O sull'arte varia dei di lui eccessi e stravaganze, così in potenza anticonformisti e giocati sempre sul filo del rasoio come, di fondo, meramente autolesionisti, se non funzionali ad un meccanismo commercial-propagandistico tarato sull'antico epater le bourgeois (sempre ammesso che tale riflesso condizionato sia ancora sul serio efficace) che ripone comunque nella consolidata capacita' di assimilare ogni asprezza lo scarto decisivo del suo quinto asso, sempre sfilato al momento giusto dalla proverbiale manica e sempre, manco a dirlo, vincente.

Si potrebbe, allora, ognuno per se', insistere. Magari con "In bloom" ("We can have some more/Nature is a whore/Bruises on the fruit/Tender age in bloom"). Magari con qualcos'altro. O forse, ormai, e' davvero tardi. Troppo. Con una punta di arreso cinismo, tutto sembra essere accaduto un milione di anni fa o non aver mai smesso di accadere, milioni di volte. Inutilmente. "A denial, a denial, a denial...", non e' bastato, dunque.

Qualche giorno fa, Sawyer Sweeten, diciannovenne stella del piccolo schermo, si e' sparato un colpo in testa. Sotto un altro. There's no business like show business.
TFK

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