venerdì, aprile 01, 2016

LOVE & MERCY

Love and mercydi Bill Pohlad.
con: Paul Dano, John Cusack, Paul Giamatti, Elisabeth Banks
genere, biopic
USA 2015
durata, 121'

"I was standing in a bar/and watching all the people there
Oh, the loneliness in this world/Well, it's just not fair".
- B.Wilson,  Love and mercy -



Misurarsi con la complessità nell'intento di approssimare una qualche forma di perfezione estetica - di matrice latamente espressiva, quindi concettuale, figurativa, musicale, et. - spesso conduce ad una dromomania intellettuale (e spirituale) che con pari circolarità si avvita in spirali dalle quali, a volte, può essere addirittura impossibile uscire. Testimone e interprete eccellente di simile iterazione è stato/è di certo Brian Wilson, compositore, arrangiatore, ossessivo cesellatore d'intarsi armonici e vocali, produttore, nonchè ispiratore, fondatore e autore della gran parte dei brani dell'oramai leggendario gruppo dei Beach Boys. La costante sperimentazione di geometrie dell'udibile inedite e imprevedibili; la concentrazione e la dedizione al proprio mondo di suoni animate dalla brama/mania di, allo stesso tempo, ricercare e ricreare un altrove praticabile dai sensi e dall'interiorità in una dimensione superiore e duratura di bellezza (visione che apparenta Wilson a tutta una schiera di esploratori che, restando all'ambito musicale moderno e più o meno popolare, annovera da Webern a Lennon; da Schonberg a Richards; da Cage a Hendrix, giungendo ad esempio ad Eno o, procedendo a ritroso, incontra Johnson e, per dire, Monk, i suoi mai del tutto sondabili ma intenzionali ritardi nel fraseggio e silenzi tra una nota e l'altra - provare, per curiosità, fra le tante gemme, un pezzo fantasticamente scentrato come "Bluehawk" -) afferisce, in altre parole, nello specifico dell'autore californiano, anche, se non in larga parte, alla dimensione del distacco e della distanza (lunghi periodi di oscuramento mentale conditi dall'immancabile repertorio di abusi: cibo, farmaci, stupefacenti) nell'istante in cui - ed è un istante, nel caso, a dire, dell'oggetto misterioso "Smile", "a teenage symphony to God", album spartiacque, assolvenza eversiva, vascello fantasma e Fata Morgana preterintenzionalmente fedele alla propria inafferrabilità, protrattosi per quasi quarant'anni, prima di vedere la luce in due diverse versioni (la sessione assemblata dal solo Wilson, nel 2004 e quelle recuperate dai nastri originali, del 2011), tutt'altro che in grado di dirimerne, alla fin fine, la sostanziale inattingibilità - vengono a scontrarsi senza più mediazione le ricordate (e sempre ribadite) istanze di perfettibilità e la contingenza febbrile - tanto, per taluni versi, amante, quanto, altresì, matrigna - della necessità, con i suoi logoranti fraintendimenti, le sue tensioni psicologiche votate all'accumulo, le sue insaziabili pretese (il riferimento è, appunto e ancora, al periodo successivo all'esplosione seminale di "Pet sounds" - tra l'estate del '66 e il naufragio del succitato "Smile", durante i primi mesi del '67, intervallo, tra l'altro, segnato dalla definitiva maturazione beatlesiana compiuta sulla linea che unisce "Revolver" a "Sgt. Pepper..."a partire da "Rubber soul", nei confronti della quale Wilson manifesta un'inquieta ammirazione - rivoluzione insensata di tessiture modulari, mescolanza di suggestioni disparate, torsioni doo-wap, arditi impasti di voci, melodie e rumori, nella forma apparente di quegli strani oggetti che per difetto abbiamo definito solo "pop songs", quintessenze fatate dell'algoritmo di base a nome "music-for-the-masses").


Ed è tra le righe di questo pentagramma ideale (ma concretissimo) che si muove con sbalzi temporali e umorali degni dell'asincronia creativa del protagonista, questo "Love and mercy" (decalcomania diligente del titolo di un brano contenuto nel primo lavoro solista di Wilson - 1988 - a sua volta, ad imitationem vitae, traslazione diretta in forma del proprio patronimico), biopic prevedibile nell'architettura narrativa, quanto disseminato di sfuggenti (in)dolenze a rincorrersi lungo l'itinerario di un'esistenza contrassegnata dal fulgore di una riconoscibilità precoce cresciuta sulle spoglie dell'America tardo-eisenhoweriana (Wilson - ciuffo composto da post-liceale, pantaloni a tubo preferibilmente color nocciola e maglia-corpetto attillata - scrive o porta al successo classici/tormentoni dell'appena, ai tempi, ribattezzata surf music, a poco più di vent'anni: "Surfin' safari", "Surfer girl", "Surfin' USA", "I get around", "California girls", et.) ritratta da Pohlad attraverso gli occhi smarriti, fugacemente inondati dall'hybris dell'ispirazione ("Sto per fare l'album migliore che sia sia mai stato inciso"; "Ascolto i suoni dell'universo e provo a fermarli"), colmi di tristezza per una malinconia venata d'incredula amarezza, di un convincente P.Dano/Wilson giovane; da un'illusoria eterna spensieratezza (Brian, assieme ai fratelli Carl e Dennis, veniva spesso picchiato dall'autoritario padre, Murry, impostosi, vista anche l'età acerba dei neo-interpreti - completati dal cugino Mike Love e da Al Jardine - come manager e impresario unico: uomo scettico, Wilson senior, per ulteriore inciso, fino all'irrisione, riguardo il nuovo corso musicale inaugurato da "Pet sounds", in particolare nei confronti di God only knows, melodia totale dal romanticismo adolescenziale e asessuato, quindi di un'indifesa prepotenza del tutto fuori dallo spazio-tempo, amore-a-prima-vista di un altro vecchio ragazzo a nome P.McCartney) a cui non può che contrapporsi, sublime controcanto in minore, la percussione d'elezione dispari di una coscienza insofferente all'abbandono della giovinezza eppure impaziente di misurarsi con l'ampiezza in potenza infinita dei riverberi di un mondo - a quei giorni - in scalpitante e, per diversi aspetti deliziosamente ingenua, accelerazione. La coda del quale battito s'acconcia, poi, mesto, a lambire il silenzio (senza limiti e senza, di fatto, approdo: "Forse sto diventando pazzo", borbotta Wilson/Dano sdraiato su una chaise-longue coperto da un accappatoio/sudario: "Non c'e granché, la' fuori", sussurra in parallelo uno dei fratelli; "Pet sounds" è pressochè da subito inserito dalla critica nel magro comparto delle pietre-di-paragone, come pure, in parte, risulta indifferente al pubblico; "Smile", l'ulteriore passo-in-avanti, la visione definitiva, affonda nell'oblio e nella malattia) producendo, di rimando, assordanti mutismi, secondo la più ovvia delle solitudini americane di rimembranza whitmaniana: "Di notte, in solitudine, lacrime... Oh, chi è mai quel fantasma ? quella forma nel buio che piange ? Che massa informe è mai quella, curva, accasciata là, sulla sabbia ?" (malìa istintiva per il talento, cioè, e feroce accerchiamento dello stesso per l'irregimentazione commerciale; innamoramento fisico, estetico, per la vita come viatico all'espressione-di-sè e abbandono della stessa, altrettanto fisico ma nel ritornello bleso di flirtare-con-la-Morte, nella dissipazione e nell'(auto)distruzione-di-sè; fiducia quasi sfrontata nell'intraprendenza personale e nell'applicazione quotidiana di un'artigianale acribia e iattazione inerme nei gorghi delle ore perdute, et.). Percorso snaturato, infine, da una delega subita alla proliferazione di una sorta di entropia dei giorni che risucchia e frulla le intenzioini e le prospettive entro la sfera d'interesse di un intervento esterno (l'ambiguo e scaltro - nonchè dalla capigliatura improbabile - Eugene Landy/P.Giamatti, terapeuta/guru/tutore che propone un modo tutto suo di recuperare le oramai lontane good vibrations - "I hear the sound of a gentle world... I'm pickin' up good vibrations..." - a colpi di psicofarmaci, diete forzate e vessazioni verbali) e ricompone con un collante magari, a tratti, efficace, di certo dozzinale, il prodigio di ben altri collages, fratture, giunzioni, interpolazioni e campiture che un estro semivirginale e uno zelo infantile strappavano di puro slancio al calcolo difensivo e alla debolezza caratteriale: tristemente, ahinoi, siffatti strappi, al di qua dell'amore ("Could I ever find in you again/Things that made love you so much than... - Caroline, no -), per non parlare della compassione ("Stand or fall I know there/shall be peace in the valley/And it's all an affair/of my life with heroes and villains - Heroes and villains -).


Nell'alternarsi/rincorrersi impotente, da un lato, delle cromie caramellate di un micro-universo - gli anni '60 sulla west coast - forse solo immaginato/sognato nei modi di un vortice privilegiato sole-spiaggia-oceano-ragazze-surf - come che sia ontologicamente cinematografico - con i suoi corpi tonici, i suoi sorrisi smaglianti, il suo progettare/stratificare nel profondo un'intera utopia-marchio di fabbrica di una fatale endless summer; e, dall'altro, delle tonalità sempre vivide ma tristi, ora, nel ribadire, per statuto, quasi, una condizione di eccezionalità para-mitologica, l'opera di Rohlad annaspa sovente di fronte ad un vuoto che, forse, non può essere colmato/raccontato (ad esempio: i quasi tre anni invisibili trascorsi da Wilson chiuso nella sua magione assieme a chissà quali spettri, fobie, ansie, manie, orrori irresistibili, fascinazioni sinistre - "Sento le voci dal 1963" - ad ingozzarsi, concertando, minuto per minuto, la trasformazione sua e di ciò che gli sta attorno dalle linee guida di un immaginario affine ad ascendenti a cavallo tra Rockwell e Hockney, a certe dilatazioni beffarde neofigurativiste; la - totale ? - assenza di musica; il progressivo inaridirsi e rarefarsi degli affetti - "I'm a leaf on a windy day/Pretty soon I'll be blown away/How long will the wind blow ?... These things I'll be until I die..., 'Til I die -) quanto, in una qual misura, sterilizzato da un nutrito numero di primi piani evocativi (Cusack/Wilson adulto, imbolsito e rallentato dalla chimica su prescrizione, tiranneggiato da Landy, vaga con lo sguardo in cerca di quel barlume in grado di restituirgli lo slancio a comporre, mettiamo, quella Life suite - a tutt'oggi, neanche a dirlo, tronca - suddivisa in tre movimenti - la giovinezza, la carriera musicale, l'età della ragione - che, magari, solo gli-occhi-blu-e-i-capelli-biondi di (Me)Linda Ledbetter/E.Banks - poi, di fatto, sposata nel 1995 - saprebbero infondergli), da una litania di buoni (e patetici) propositi di riabilitazione: dalla rassegnazione all'ennesima sconfitta del genio di fronte a se stesso, alla sua sempiternamente trita messa-in-scena.

"Love and mercy" si piega via via, così, assecondando una sua candida inesorabilità, ad una ricomposizione parziale/fittizia che sopravanza l'attualità e quasi la riscatta nel più scontato epperò beneaugurante omnia vincit amor (e viene da chiedersi, a questo punto e con appena un grano di presunzione, se Wilson abbia mai favoleggiato un brano su tal falsariga) con tanto d'istanza restrittiva per il villain di cui sopra, il manipolatore Landy, come se, sul serio - ecco, al di là dei giudizi, l'altra magia, quella del Cinema - l'incanto minimo di una storia a-ridosso-del-vero potesse contestualizzare/giustificare il tempo passato/perduto ("Every time I get the inspiration/to go change things around/No one wants to help me look for places/where new things might be found" - I just wasn't made for these times -) e ricomporre le corde, certi giochi segreti, che non possono più emettere meraviglia  - perchè lo hanno già fatto, fin troppo - ma farcene sommessamente dono, ancora, adesso, nonostante tutto. E dio solo sa se lo abbiamo meritato.
TFK

1 commento:

Patalice ha detto...

ho visto il trailer la settimana scorsa al cinema, e mi ha incuriosita...
si, potrei anche vederlo, se solo a brescia lo dessero!