domenica, ottobre 30, 2016
LA FOTO DELLA SETTIMANA
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la foto della settimana
sabato, ottobre 29, 2016
LA RAGAZZA SENZA NOME
La ragazza senza nome
di Luc Dardenne, Jean-Pierre Dardenne
con Adele Haenel, Jérémie Renier, Olivier Gourmet
Belgio, 2016
genere: drammatico
durata: 113'
Jenny Davin è una giovane dottoressa molto stimata, al punto che un importante ospedale ha deciso di offrirle un incarico di rilievo. Intanto conduce il suo ambulatorio di medico condotto, in cui va a fare pratica Julien, uno studentessa in medicina. Una sera, un'ora dopo la chiusura, qualcuno suona al campanello e Jenny decide di non aprire. Il giorno dopo la polizia chiede di vedere la registrazione del video di sorveglianza dello studio perché una giovane donna è stata trovata morta nelle vicinanze. Si tratta di colei a cui Jenny non ha aperto la porta. Sul corpo non sono stati trovati documenti. I fratelli Dardenne si avventurano sul terreno della detection, tanto che inizialmente avevano pensato di avere come protagonista un poliziotto. Abbandonata l'idea, hanno ampliato notevolmente il campo di indagine, soprattutto sul personaggio, a partire dal titolo. Se la dottoressa cerca di scoprire chi sia la ragazza sconosciuta, quasi dovesse risarcirla, offrendole un'identità per quella porta non aperta, anche lo spettatore si trova davanti a una persona non nota. Di Jenny non conosciamo nulla, se non quello che vediamo: non ci viene fornito il benché minimo elemento che ci consenta di conoscere qualcosa del suo passato o del suo privato, al di là di quanto attiene alla sua professione e alla sua ricerca.
Forse proprio per questo troviamo in lei quasi una sintesi di tanti personaggi dardenniani: a partire dal lontano "La promesse", con il bisogno di risarcire una morte, fino alla generosità gratuita della parrucchiera di "Il ragazzo con la bicicletta". Il difetto di questo film è quello di seguire un po' troppo lo schema a tappe recentemente proposto con "Due giorni, una notte". Si tratta, però, di un peccato veniale, facilmente superato dallo sguardo laicamente partecipe che i fratelli belgi riservano a una società in cui l'individuo è sempre più solo dinanzi alle proprie aporie esistenziali. Jenny ha scelto di essere colei che offre aiuto al prossimo sul piano più delicato, quello della salute. Ma è anche colei che pretende, da chi potrebbe diventare un collega, il distacco, a suo avviso, indispensabile per esercitare la professione di medico. Non riesce, invece, a interporre una distanza tra sé e quel corpo abbandonato senza nome. Come in "Still Life" di Uberto Pasolini, siamo dinanzi a una ricerca di identità per un corpo che non trova nessuno che sia disposto a offrirgliene una e che, come afferma la dottoressa, "non è morto se continua ad agire nel nostro pensiero". Lasciarsi coinvolgere comporta sacrifici e rischi, ai quali i personaggi dardenniani non si sottraggono, perché plasmati sul reale e sulla straordinarietà di un quotidiano in cui anche il regalo di un panettone diventa piccolo ma significativo segno di riconoscenza per l'assistenza ricevuta da chi sa donare, al di là del proprio dovere.
Riccardo Supino
di Luc Dardenne, Jean-Pierre Dardenne
con Adele Haenel, Jérémie Renier, Olivier Gourmet
Belgio, 2016
genere: drammatico
durata: 113'
Jenny Davin è una giovane dottoressa molto stimata, al punto che un importante ospedale ha deciso di offrirle un incarico di rilievo. Intanto conduce il suo ambulatorio di medico condotto, in cui va a fare pratica Julien, uno studentessa in medicina. Una sera, un'ora dopo la chiusura, qualcuno suona al campanello e Jenny decide di non aprire. Il giorno dopo la polizia chiede di vedere la registrazione del video di sorveglianza dello studio perché una giovane donna è stata trovata morta nelle vicinanze. Si tratta di colei a cui Jenny non ha aperto la porta. Sul corpo non sono stati trovati documenti. I fratelli Dardenne si avventurano sul terreno della detection, tanto che inizialmente avevano pensato di avere come protagonista un poliziotto. Abbandonata l'idea, hanno ampliato notevolmente il campo di indagine, soprattutto sul personaggio, a partire dal titolo. Se la dottoressa cerca di scoprire chi sia la ragazza sconosciuta, quasi dovesse risarcirla, offrendole un'identità per quella porta non aperta, anche lo spettatore si trova davanti a una persona non nota. Di Jenny non conosciamo nulla, se non quello che vediamo: non ci viene fornito il benché minimo elemento che ci consenta di conoscere qualcosa del suo passato o del suo privato, al di là di quanto attiene alla sua professione e alla sua ricerca.
Forse proprio per questo troviamo in lei quasi una sintesi di tanti personaggi dardenniani: a partire dal lontano "La promesse", con il bisogno di risarcire una morte, fino alla generosità gratuita della parrucchiera di "Il ragazzo con la bicicletta". Il difetto di questo film è quello di seguire un po' troppo lo schema a tappe recentemente proposto con "Due giorni, una notte". Si tratta, però, di un peccato veniale, facilmente superato dallo sguardo laicamente partecipe che i fratelli belgi riservano a una società in cui l'individuo è sempre più solo dinanzi alle proprie aporie esistenziali. Jenny ha scelto di essere colei che offre aiuto al prossimo sul piano più delicato, quello della salute. Ma è anche colei che pretende, da chi potrebbe diventare un collega, il distacco, a suo avviso, indispensabile per esercitare la professione di medico. Non riesce, invece, a interporre una distanza tra sé e quel corpo abbandonato senza nome. Come in "Still Life" di Uberto Pasolini, siamo dinanzi a una ricerca di identità per un corpo che non trova nessuno che sia disposto a offrirgliene una e che, come afferma la dottoressa, "non è morto se continua ad agire nel nostro pensiero". Lasciarsi coinvolgere comporta sacrifici e rischi, ai quali i personaggi dardenniani non si sottraggono, perché plasmati sul reale e sulla straordinarietà di un quotidiano in cui anche il regalo di un panettone diventa piccolo ma significativo segno di riconoscenza per l'assistenza ricevuta da chi sa donare, al di là del proprio dovere.
Riccardo Supino
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venerdì, ottobre 28, 2016
THE ACCOUNTANT
The Accountant
di Gavin O'Connor
con Ben Affleck, Anna Kendrick, JK Simmons
Usa, 2016
genere, drammatico, action, thriller
durata, 128'
Vedere Ben Affleck recitare la parte del contabile della malavita che in “The Accountant” si trasforma in uno spietato giustiziere fa venire in mente più di una suggestione. Per esempio il fatto che l’essere diventato corpo del cinema action dopo una prima parte di carriera impegnata a fare altro ricorda da vicino quello che è successo a Nicolas Cage, attore con cui Affleck oltre alle analogie del percorso artistico condivide il pregiudizio che accompagna l’uscita dei suoi film. Oppure la constatazione che è stata l’interpretazione di Superman, un altro super eroe - seppure nella versione malinconica e decadente di “Hollywoodland”- a rilanciarne le credenziali dopo il periodo nero culminato nel pubblicizzato divorzio da Jennifer Lopez e soprattutto nei flop commerciali di “Gigli” e di “Daredevil” da cui Affleck uscì con la certezza che mai più avrebbe indossato maschera e calzamaglia davanti alla mdp. E invece, non solo il nostro ha invertito la tendenza diventando capofila dell’universo Dc Comics in cui milita nei panni del miliardario Bruce Wayne (e quindi di Batman) ma si è conquistato (grazie a un film come “Gone Girl”) la possibilità di primeggiare nella crime story di Gavin O’Connor dove recita nei panni di un uomo che fa della menomazione fisica il mezzo per riscattarsi dall’isolamento a cui lo costringe la malattia. Una patologia, quella della sindrome di Asperger, alla quale Christian Wolf deve non solo il formidabile talento matematico ma anche la preoccupazione di difendersi dagli altri che lo ha trasformato in una perfetta macchina da guerra, pronta a difendere Anna Kendrik dalla minaccia di un pericoloso sodalizio criminale.
Sarà per la sovrapposizione tra il curriculum vitae del protagonista e le vicissitudini personali di Affleck che alla pari di Wolf ha dovuto lottare non poco per sconfiggere i suoi demoni, sta di fatto che è proprio la capacità dell’attore di stare dentro al film e di occuparlo con una sensibilità in grado di arrivare al cuore del personaggio a produrre lo scarto che fa la differenza. Senza il surplus di umanità fornitagli dalla presenza di Affleck infatti “The Accountant” sarebbe comunque un buon film ma rischierebbe di inciampare sugli eccessi delle sue logiche spettacolari - presenti nell’impostazione da “solo contro tutti” con cui vengono costruite le scene d’azione - e sulla mancanza di sfumature conseguenti al feroce determinismo che spinge all’azione sia Wolf che i suoi avversari. Da non perdere e soprattutto da non sottovalutare.
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anteprime. recensioni
giovedì, ottobre 27, 2016
BAD MOMS - MAMME MOLTO CATTIVE
Bad Moms - Mamme molto cattive
di Jon Lucas, Scott Moore
con Mila Kunis, Kristen Bell, Christina Applegate
Usa, 2016
genere, commedia
durata, 100'
Da quando la commedia americana ha smesso di essere un trastullo per educande e innamorati cronici sembra che la specialità della casa sia diventata la rappresentazione di un nuovo tipo di spensieratezza che si nutre e prende spunto dagli aspetti più triviali e boccacceschi del reale. Dalla Romantic Comedy sul tipo di “Harry ti presento Sally” e “Tre matrimoni e un funerale” si è passati in poco tempo a titoli come “Scemo e più scemo”, “Tutti pazzi per Mary” e “40 anni vergine”, diventati in men che non si dica il punto di riferimento per un florilegio di imitatori pronti a mascherare la mancanza di talento con la radicalizzazione di quelli che erano stati i punti di forza dei loro precursori. Varcata la soglia del nuovo millennio uno dei risultati più evidenti di questa tendenza è stato non solo l’evidente mascolinizzazione della compagine femminile, uscita trionfante da quella guerra dei sessi che del genere in questione era stato il collante in grado di tenere insieme qualsiasi tipo di storia e che ora invece figura come semplice cliché ma anche una graduale normalizzazione dell’osceno, sdoganato dalla miriade di sottintesi e doppi sensi con cui Hollywood a partire dagli anni d’oro aggirava i vincoli della morale vittoriana e invece ai giorni nostri diventato ingrediente principale e strumento di comunicazione a cui affidare il messaggio della storia.
Così succede in “Bad Moms” diretto da Jon Lucas e Scott Moore passati alla regia dopo aver sceneggiato tra gli altri il cult “Una notte da leoni” e per l’occasione prestatisi a una pochade che dapprima costruisce il perfetto campione di madre modello e casalinga disperata – una inedita e brava Mila Kunis – e poi si diverte a distruggerlo mettendolo alla gogna attraverso la ribellione di Amy Mitchell, cenerentola della Upper Class di Chicago tutta casa, scuola e lavoro che dopo aver cacciato il marito fedifrago ed essersi unita alle altrettanto stressate Kiki e Carla incomincia una crociata contro ogni sorta di perbenismo e di galateo. Ad andarci di mezzo è soprattutto l’associazione insegnanti – genitori presieduto dalla perfida Gendowlyn che nell’ambito dell’istituto scolastico si diverte a vessare chiunque ne ostacoli l’azione moralizzatrice e su cui prevedibilmente si riversa la puntuale vendetta delle cattive ragazze. Vivacizzata da un susseguirsi di sequenze in cui Amy e le amiche fanno a gara a chi la combina più grossa la trama “Bad Moms” dispensa una trasgressione più divertente che reale. Sotto la facciata irriverente a trionfare infatti sono proprio quei valori famigliari di cui il film sembrava voler cantare il de profundis, con tanto di lieto a suggellare la restaurazione dei principi inizialmente contestati.
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mercoledì, ottobre 26, 2016
JACK REACHER 2: PUNTO DI NON RITORNO
Jack Reacher
di Edward Zwick
con Tom Cruise, Coby Smulders
Usa, 2016
genere, action
durata, 118'
Nel brand cinematografico imperniato sulle avventure di Jack Reacher a sorprendere non è tanto la tipologia del personaggio, prelevata di sana pianta dal modello del super soldato fuoriuscito dal sistema che agli inizi del nuovo millennio ha fatto le fortune dei vari Ethan Hunt e Jason Bourne, ne, per restare in tema di originalità, la banalità delle storie, sviluppate per lo più come pretesto per innescarne l’irriducibile efficacia. A maggior ragione non si può annoverare tra le sorprese la presenza davanti alla macchina da presa di un’icona come Tom Cruise, talmente calato nel ruolo (oltre alla saga di “Mission Impossible” appartengono alla categoria quelli di “Minority Report”, “Innocenti bugie” e “Operazione Valchiria” solo per citarne alcuni) da mettere a repentaglio la propria incolumità fisica con la volontà di girare in prima persona anche le scene più spericolate. Quello che invece prende in contropiede è il fatto di assistere alla visione di “Jack Reacher - Punto di non ritorno” senza ritrovarvi la voglia di stupire che altrove era servita da d’antidoto alla routine del meccanismo produttivo.
Rispetto a questa idea di cinema il nuovo capitolo dedicato alle imprese di Jack Reacher retrocede a mero prodotto televisivo e neanche dei più riusciti per via di un allestimento scenico e di una tecnica di ripresa paragonabili a certe serie tv americane degli anni 70 come “Starsky & Hucht”, oppure a certi action movie anni 80 che ad un certo punto ebbero l’ardire di sfidare (sul piano commerciale) i colossi realizzati dai vari Simpson e Bruckheimer; parliamo di film come “Invasion USA” (che per una settimana fu sorprendentemente al primo posto del box office) ddi “Rombo di tuono” firmati da Joseph Zito il cui leading role Chuck Norris era chiamato ad agire in un contesto reso fittizio dalla sbrigativi delle riprese ma soprattutto dall’ingenuità della messinscena che spacciava per reali ambienti - come per esempio quello della giungla vietnamita - palesemente ricostruiti in studio.
Con le dovute proporzioni “Jack Reacher - Punto di non ritorno” offre allo spettatore lo stesso tipo di operazione; giocata al risparmio soprattutto nella costruzione delle inquadrature, per la maggior parte strette sul corpo degli attori e sprovviste di quell’ubiquità visuale che in prodotti di questo tipo sono espressione del senso di onnipotenza e dello spirito di fiducia di cui non solo il protagonista ma lo stesso film si fanno promotori. Senza i consueti movimenti di macchina (piani sequenza, dolly panoramiche e carrellate) per lo più sostituiti dall'alternanza di campi e controcampi e con un montaggio ferocemente consequenziale “Jack Reacher - Punto di non ritorno” risulta statico ed elementare e neanche per un momento capace di fare della sua visione un’esperienza immersiva e totalizzante alla maniera dei grandi blockbuster contemporanei. Edward Zwick, che aveva guidato Cruise ne “L’ultimo samurai” si affida ancora una volta a lui per tenere desta l’empatia dello spettatore ma in questa nuova uscita l’attore lascia da parte il suo sorriso smagliante e il vitalismo a tutto campo per dare vita a un’interpretazione malinconica e pensierosa - in linea con il carattere di Reacher - con cui Cruise sembra aprirsi la strada per ruoli più consoni alla sua età, meno fisici e più maturi. Non è forse un caso che messo a confronto con la bella di turno (la Coble Smulders di “How I Met Your Mother”) il suo personaggio pur essendone visibilmente attratto si limiti a qualche schermaglia verbale e niente più. Forse per l’attore è venuto il momento di cambiare o più probabilmente “Jack Reacher - Il punto di non ritorno”) è solo un film riuscito meno bene degli altri.
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lunedì, ottobre 24, 2016
INFERNO
Inferno
di Ron Howard
con Tom Hanks, Felicity Jones, Irrfan Khan
Italia, USA, 2016
genere, thriller
durata, 121'
Lo studioso di simbologia professor Langdon si risveglia in una stanza di ospedale a Firenze. È ferito alla testa, ha ricordi estremamente confusi e non sa perché si trova nel capoluogo toscano. Quando una donna vestita da carabiniere fa irruzione nella casa di cura non gli resta che fuggire con l'aiuto, della giovane dottoressa Sienna Brooks. Alla base di tutto c'è un genio della genetica che ha deciso di salvare l'umanità dalla sua altrimenti inevitabile dissoluzione, diffondendo un virus che riduca drasticamente il numero degli abitanti della Terra. Esattamente dieci anni fa con "Il codice Da Vinci" aveva inizio il sodalizio tra Dan Brown e Ron Howard, proseguito nel 2009 con "Angeli e Demoni". Meno enigmatica dei precedenti "Il codice Da Vinci" e "Angeli e Demoni", più vorticosa nella successione di eventi e con un ritmo sostenuto, la nuova avventura è ambientata a Firenze per buoni due terzi di storia, prima di traslocare a Venezia e Istanbul. Il regista Ron Howard si lascia sedurre senza opporre resistenza dai colori e dal profilo rinascimentale del capoluogo toscano. Pur non trattandosi di uno dei recenti documentari che esaltano la bellezza della città dettaglio per dettaglio, "Inferno" tratta Firenze con i guanti, con spettacolari riprese aeree e veloci passaggi tra il Giardino di Boboli, il Corridoio Vasariano, gli Uffizi e Palazzo Vecchio.
Dal punto di vista estetico questa serie di film non ha mai deluso, grazie alla chiamata alle arti da parte dello scrittore e al gusto visivo del regista. I contenuti invece, piegando i fatti storici e i segreti artistici alle esigenze narrative, non hanno sempre prodotto la necessaria serietà richiesta dal contesto. "Inferno" tenta di essere epico come i film che l'hanno preceduto: dopotutto anche senza elementi religiosi c'è un miliardario fuori di senno che vuole dimezzare la popolazione mondiale liberando un virus letale. Ciò che meglio aiuta il piacere della visione è l'azione, sostenuta e in costante progressione. Tom Hanks è il professionista che conosciamo, Felicity Jones una degna controparte nel ruolo della dottoressa che lo aiuta, Omar Sy verosimile nel suo primo ruolo significativamente serio. Merita una nota a parte l'attore Irrfan Khan che, grazie anche all'ambiguità del suo personaggio, sfodera più estensione interpretativa e fine humour. Tra arte italiana, piani diabolici, organizzazioni governative e segrete c'è anche spazio per l'amore, ritrovato o mal riposto, ma pur sempre amore.
Riccardo Supino
di Ron Howard
con Tom Hanks, Felicity Jones, Irrfan Khan
Italia, USA, 2016
genere, thriller
durata, 121'
Lo studioso di simbologia professor Langdon si risveglia in una stanza di ospedale a Firenze. È ferito alla testa, ha ricordi estremamente confusi e non sa perché si trova nel capoluogo toscano. Quando una donna vestita da carabiniere fa irruzione nella casa di cura non gli resta che fuggire con l'aiuto, della giovane dottoressa Sienna Brooks. Alla base di tutto c'è un genio della genetica che ha deciso di salvare l'umanità dalla sua altrimenti inevitabile dissoluzione, diffondendo un virus che riduca drasticamente il numero degli abitanti della Terra. Esattamente dieci anni fa con "Il codice Da Vinci" aveva inizio il sodalizio tra Dan Brown e Ron Howard, proseguito nel 2009 con "Angeli e Demoni". Meno enigmatica dei precedenti "Il codice Da Vinci" e "Angeli e Demoni", più vorticosa nella successione di eventi e con un ritmo sostenuto, la nuova avventura è ambientata a Firenze per buoni due terzi di storia, prima di traslocare a Venezia e Istanbul. Il regista Ron Howard si lascia sedurre senza opporre resistenza dai colori e dal profilo rinascimentale del capoluogo toscano. Pur non trattandosi di uno dei recenti documentari che esaltano la bellezza della città dettaglio per dettaglio, "Inferno" tratta Firenze con i guanti, con spettacolari riprese aeree e veloci passaggi tra il Giardino di Boboli, il Corridoio Vasariano, gli Uffizi e Palazzo Vecchio.
Dal punto di vista estetico questa serie di film non ha mai deluso, grazie alla chiamata alle arti da parte dello scrittore e al gusto visivo del regista. I contenuti invece, piegando i fatti storici e i segreti artistici alle esigenze narrative, non hanno sempre prodotto la necessaria serietà richiesta dal contesto. "Inferno" tenta di essere epico come i film che l'hanno preceduto: dopotutto anche senza elementi religiosi c'è un miliardario fuori di senno che vuole dimezzare la popolazione mondiale liberando un virus letale. Ciò che meglio aiuta il piacere della visione è l'azione, sostenuta e in costante progressione. Tom Hanks è il professionista che conosciamo, Felicity Jones una degna controparte nel ruolo della dottoressa che lo aiuta, Omar Sy verosimile nel suo primo ruolo significativamente serio. Merita una nota a parte l'attore Irrfan Khan che, grazie anche all'ambiguità del suo personaggio, sfodera più estensione interpretativa e fine humour. Tra arte italiana, piani diabolici, organizzazioni governative e segrete c'è anche spazio per l'amore, ritrovato o mal riposto, ma pur sempre amore.
Riccardo Supino
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domenica, ottobre 23, 2016
LA FOTO DELLA SETTIMANA
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la foto della settimana
FESTA DEL CINEMA DI ROMA: INTO THE INFERNO
Into the inferno
di, Werner Herzog
genere, documentario
USA, Austria 2016 -
durata, 105'
Time enough to rot"
- D.Thomas -
In contrasto con una tendenza piuttosto diffusa (e piuttosto consolatoria) del documentario naturalistico- antropomorfico, ancorata di preferenza alle cadenze di una soave quanto dolcemente ammonitrice voce femminile chiamata a dareespressività alla Natura come entità partecipe e non mero sfondo, l'attitudine lucida e franca di un viaggiatore e osservatore instancabile come W.Herzog tronca alla radice qualunque ipotesi d'indulgente mediazione e col suo tipico - benché un tanto ammorbidito dagli anni - atteggiamento romantico/agonistico, affronta l'ordo rerum nell'unico modo sensato e leale per uno che davanti alle sfide non si è mai tirato indietro: lasciar parlare il mondo fisico e disporsi all'ascolto, riservandosi un angolo franco dal quale organizzare la trama di una riflessione e promuovere interrogativi.
Proprio la reiterazione di tale prassi consente di portare a compimento l'ultima avventura in ordine di tempo, in cui l'autore tedesco - per il tramite dell'incontro, da un lato, con la piattaforma Netflix; dall'altro, con le suggestioni di un testo come "Eruptions that shook the world" e la partecipazione del suo autore, il vulcanologo di Cambridge, Clive Oppenheimer - torna a curiosare e a meditare in giro per il mondo sulla colossale potenza, l'inquietante bellezza, l'antica rilevanza simbolica, spirituale ed emotiva, dei maggiori sistemi vulcanici attivi. Già ai tempi de "La Soufrière" (1977), infatti, Herzog non aveva esitato a precipitarsi là dove (La Guadalupa) la Terra aveva deciso di scrollarsi di dosso tregue di apparenti stabilità, concetto, quest'ultimo, la cui scivolosa malìa (ma sarebbe più opportuno dire ostinata illusione) scorre al fondo dell'ennesima peregrinazione cinematografica - stavolta le Isole Ambrym, Vanuatu; il Monte Merapi, Indonesia; l'Erta Ale in Dancalia, Etiopia; le Isole Westman, Islanda; il Monte Paektu in Corea del Nord, per tornare, infine, all'arcipelago Vanuatu, presso le Isole Tanna - all'inseguimento di un'analogia multiforme e ricorrente che avvicina, nel caso, le perturbazioni imprevedibili del magma ribollente al sovrapporsi caotico delle aspirazioni e dei progetti umani; agli scarti ambigui delle intuizioni della scienza e della tecnica: alle ripercussioni oramai incontrollabili della pervasività ossessiva del denaro e degl'interessi...
Il passo tenuto da Herzog procede allora sulla direttrice che mantiene in costante attrito la materia propriamente naturalistica - indifferente al decorso delle vicissitudini individuali; regolantesi secondo schemi che, a prima vista, vincolati al giogo di una cieca distruzione, sul medio-lungo periodo svelano una concorde tendenza all'equilibrio, tale da sollecitare da millenni la speranza di un'armonia superiore - e quella di matrice culturale - via via che le tappe si susseguono viene alla superficie, oltre al cambiamento a volte radicale a cui i processi geologici hanno sottoposto i territori, il retaggio primevo di culti, leggende, miti, visioni legati alla presenza viva dei vulcani - in un dialogo stretto che, letto in controluce mostra, a mo' di denominatore comune, la medesima persuasione in base alla quale il precipitarsi arroventato delle nubi piroclastiche, il gorgoglìo del magma, il fluire dell'acqua rossa verso l'acqua blu, quella degli Oceani, partecipa di un unico movimento riuscito, in miliardi di anni e col concorso di altre forze, a coniugare la continuità nella trasformazione. Per tale motivo, la stessa allusione contenuta nel titolo dell'opera va letta più in riferimento alle catastrofi volute e costruite dalla specie sedicente sapiens (nonché, tra l'altro, da essa puntualmente replicate nei secoli, aggiungendo così all'inferno dell' esistenza un elemento che si potrebbe definire grottesco se non fosse, in realtà, solo tragico), che ai rivolgimenti periodici tanto violenti quanto alla fin fine necessari per distinguere un organismo senziente da una pietra inerte a spasso nello spazio. Prova ne è l'inserto - quasi un piccolo film a parte - dedicato alla Corea del Nord e girato a margine dell'esplorazione vulcanologica approdata, dopo innumerevoli controlli da parte delle autorità, al cospetto del sacro Monte Paektu, al fine di reperire dati aggiornati sul suo lavorìo interno. In questo paese un popolo intero, da tempo immemore e con l'aggravio di periodiche sanzioni internazionali, sopravvive isolato dal resto del mondo ostaggio di una volontà dispotica, plagiato da una propaganda talmente incessante e ottusa, conficcata a forza negli angoli più riposti del quotidiano, da avere assunto le sembianze di una specie d'ipnotico misticismo di massa, con tanto di pietose estasi di fronte alle onnipresenti effigi dell'uomo-del-destino di turno, Kim Jong-un. In presenza di questo girone dell'insensatezza, ecco che anche l'occhio del più impavido dei registi per un po' si fa cauto, perplesso, riflesso attonito di altri occhi, già vacui, quelli di bambini messi in fila a recitare e a cantare pantomime edificanti, inni patetici al popolo e al governo liberatore.
Ma, si sa, "è difficile distogliere lo sguardo dal fuoco", sia quello metaforico che quello materiale (in relazione al secondo, vedere per credere la ferita sempre aperta dell'Erta Ale). Più di tutto, nota Herzog, è arduo imparare a valutarne la reale pericolosità, in specie quando ci si è consegnati per intero all'ingannevole di una razionalità al tempo arrogante e inerme, capace di fronteggiare l'evidenza così banale ma ineludibile del progressivo sgretolarsi delle condizioni che hanno permesso la nostra permanenza sul pianeta col piglio atteggiato ad un'inebetita sufficienza, ad una distratta impermeabilità, a fronte di una saggezza (tale, si badi, non in virtù di un generico e vacuo primitivismo ma per la stratificazione nel tempo di dolorose memorie collettive) che fa dire al Capo Moses Mael - al termine della programmatica circolarità che ci riporta, come detto, quasi al punto di partenza, a Vanuatu ma presso le Isole Tanna - che "un giorno il grande vulcano erutterà e distruggerà questo mondo".
Verrebbe da credergli non fosse che, probabilmente, non sarà il vulcano a fare la prima mossa.
TFK
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anteprime. recensioni,
Festa del cinema di Roma
sabato, ottobre 22, 2016
NERUDA
Neruda di Pablo Larraìn
con Gael Garcia Bernal, Alfredo Castro, Pablo Derqui
Argentina, Cile, Spagna, Francia 2016
genere, drammatico
durata: 107'
Cile, 1948. Il governo di Gabriel Gonzalez Videla, eletto grazie ai voti della sinistra, sceglie di abbracciare la politica statunitense e di condannare il comunismo alla clandestinità. Pablo Neruda, poeta, senatore e massima personalità artistica del Paese, avversa decisamente questa decisione, al punto da diventare il principale nemico dello Stato. In accordo con il partito comunista, Neruda sceglie l'esilio anziché il carcere, ma per riuscire a fuggire deve fare i conti con Oscar Peluchonneau, l'ispettore di polizia sguinzagliato contro di lui. Ogni possibile timore sull'approccio di Pablo Larrain alla materia scottante che riguarda il suo celebre omonimo, il poeta Neruda, risulta totalmente privo di fondamento. Il crudo e nozionistico realismo non viene mai preso in considerazione, a dispetto del laconico titolo che si limita al cognome del protagonista. La prima e folgorante sequenza è già indicativa. Con un interessante gioco di angolazioni dell'inquadratura e di sfruttamento degli spazi, il regista illustra la capacità oratoria di Neruda e l'unione di invidia e risentimento verso di lui che monta presso i suoi nemici. Anima e voce dello spirito identitario cileno, Pablo Neruda è come se preludesse, con la sua poesia di ribellione e di intenso amore per la vita, alle vicende tragiche, future per lui ma passate per Larrain, di un popolo glorioso e insieme macchiato dall'infamia.
Ripensando alla filmografia del regista cileno, Neruda diviene spirito guida della precedente trilogia: il migliore rappresentante di quel peculiare modo di intendere la vita che è proprio della gente andina. E anche su questa sua natura di primus inter pares anche tra i rivoluzionari, la scintillante sceneggiatura di Guillermo Calderón scaglia dardi avvelenati, pregni del senso di amarezza che vive chi ha inseguito il sogno di un mondo migliore e ha assistito alle macerie del pallido surrogato di quel sogno. Quasi nessuno nella sinistra si interrogava, nel 1948, sulla veridicità del verbo staliniano. Nessuno può fare a meno di farlo nel 2016. Prima ancora che artista, infatti, Neruda era comunista, in linea con la dottrina marxista del primato della politica. E Calderón tende a non farlo mai dimenticare, riempiendo lo script di innumerevoli citazioni del vocabolo "comunista", come se fosse divenuta una bestemmia, a seguito dell'americanizzazione del linguaggio universale che ha contraddistinto gli ultimi decenni. Larraìn si conferma cantore ineguagliabile della storia del suo Paese e delle sue molteplici contraddizioni, capace in ogni occasione di adottare un registro differente: cruda provocazione in "Tony Manero", l'astrazione del marketing dalla tragedia in "No - I giorni dell'arcobaleno". Per "Neruda" sceglie l'estetica del cinema noir classico americano e la cala in un contesto quasi onirico, leggero e veloce come i versi del poeta, magari pronunciati in un bordello di quart'ordine tra fiumi di alcol. I movimenti di macchina sono talora bruschi, talora fluidi: provano a replicare l'alternanza di emozioni dei personaggi, senza mai aderire, in un modo che sarebbe stato troppo prevedibile, alla soggettiva dell'uno o dell'altro protagonista.
Riccardo Supino
La prospettiva è sempre originale, asimmetrica, spesso inverosimile. Il crescendo conduce progressivamente verso un confronto tra due uomini che si temono e si rispettano, benché sia chiaro fin dall'inizio come uno dei due sia subalterno rispetto all'altro. L'ispettore inventato come nemesi ideale del poeta è personaggio fittizio in ogni suo aspetto, lo scarto definitivo da ogni residuo di realismo. Su di lui si abbatte una sindrome da Pat Garrett, una fascinazione insopprimibile per la figura di Pablo Neruda. Un'ossessione per la sua cattura che, più che altro, è dimostrazione a se stesso di volerlo e poterlo catturare e di essere all'altezza del suo rispetto, come uomo e come artista. Una interessante figura ai margini della storia, che rifiuta l'uscita di scena, specie come personaggio secondario. E che condisce di lieve ironia un epilogo sensazionale visivamente, è straordinario il lavoro del direttore della fotografia Sergio Armstrong, e narrativamente. Larrain con "Neruda" trova l'equilibrio perfetto tra esigenza di verità sugli eventi drammatici che hanno caratterizzato la storia cilena e narrazione allegorica. Realismo nei fatti, onirismo nella forma, in un mirabile connubio.
con Gael Garcia Bernal, Alfredo Castro, Pablo Derqui
Argentina, Cile, Spagna, Francia 2016
genere, drammatico
durata: 107'
Cile, 1948. Il governo di Gabriel Gonzalez Videla, eletto grazie ai voti della sinistra, sceglie di abbracciare la politica statunitense e di condannare il comunismo alla clandestinità. Pablo Neruda, poeta, senatore e massima personalità artistica del Paese, avversa decisamente questa decisione, al punto da diventare il principale nemico dello Stato. In accordo con il partito comunista, Neruda sceglie l'esilio anziché il carcere, ma per riuscire a fuggire deve fare i conti con Oscar Peluchonneau, l'ispettore di polizia sguinzagliato contro di lui. Ogni possibile timore sull'approccio di Pablo Larrain alla materia scottante che riguarda il suo celebre omonimo, il poeta Neruda, risulta totalmente privo di fondamento. Il crudo e nozionistico realismo non viene mai preso in considerazione, a dispetto del laconico titolo che si limita al cognome del protagonista. La prima e folgorante sequenza è già indicativa. Con un interessante gioco di angolazioni dell'inquadratura e di sfruttamento degli spazi, il regista illustra la capacità oratoria di Neruda e l'unione di invidia e risentimento verso di lui che monta presso i suoi nemici. Anima e voce dello spirito identitario cileno, Pablo Neruda è come se preludesse, con la sua poesia di ribellione e di intenso amore per la vita, alle vicende tragiche, future per lui ma passate per Larrain, di un popolo glorioso e insieme macchiato dall'infamia.
Ripensando alla filmografia del regista cileno, Neruda diviene spirito guida della precedente trilogia: il migliore rappresentante di quel peculiare modo di intendere la vita che è proprio della gente andina. E anche su questa sua natura di primus inter pares anche tra i rivoluzionari, la scintillante sceneggiatura di Guillermo Calderón scaglia dardi avvelenati, pregni del senso di amarezza che vive chi ha inseguito il sogno di un mondo migliore e ha assistito alle macerie del pallido surrogato di quel sogno. Quasi nessuno nella sinistra si interrogava, nel 1948, sulla veridicità del verbo staliniano. Nessuno può fare a meno di farlo nel 2016. Prima ancora che artista, infatti, Neruda era comunista, in linea con la dottrina marxista del primato della politica. E Calderón tende a non farlo mai dimenticare, riempiendo lo script di innumerevoli citazioni del vocabolo "comunista", come se fosse divenuta una bestemmia, a seguito dell'americanizzazione del linguaggio universale che ha contraddistinto gli ultimi decenni. Larraìn si conferma cantore ineguagliabile della storia del suo Paese e delle sue molteplici contraddizioni, capace in ogni occasione di adottare un registro differente: cruda provocazione in "Tony Manero", l'astrazione del marketing dalla tragedia in "No - I giorni dell'arcobaleno". Per "Neruda" sceglie l'estetica del cinema noir classico americano e la cala in un contesto quasi onirico, leggero e veloce come i versi del poeta, magari pronunciati in un bordello di quart'ordine tra fiumi di alcol. I movimenti di macchina sono talora bruschi, talora fluidi: provano a replicare l'alternanza di emozioni dei personaggi, senza mai aderire, in un modo che sarebbe stato troppo prevedibile, alla soggettiva dell'uno o dell'altro protagonista.
Riccardo Supino
La prospettiva è sempre originale, asimmetrica, spesso inverosimile. Il crescendo conduce progressivamente verso un confronto tra due uomini che si temono e si rispettano, benché sia chiaro fin dall'inizio come uno dei due sia subalterno rispetto all'altro. L'ispettore inventato come nemesi ideale del poeta è personaggio fittizio in ogni suo aspetto, lo scarto definitivo da ogni residuo di realismo. Su di lui si abbatte una sindrome da Pat Garrett, una fascinazione insopprimibile per la figura di Pablo Neruda. Un'ossessione per la sua cattura che, più che altro, è dimostrazione a se stesso di volerlo e poterlo catturare e di essere all'altezza del suo rispetto, come uomo e come artista. Una interessante figura ai margini della storia, che rifiuta l'uscita di scena, specie come personaggio secondario. E che condisce di lieve ironia un epilogo sensazionale visivamente, è straordinario il lavoro del direttore della fotografia Sergio Armstrong, e narrativamente. Larrain con "Neruda" trova l'equilibrio perfetto tra esigenza di verità sugli eventi drammatici che hanno caratterizzato la storia cilena e narrazione allegorica. Realismo nei fatti, onirismo nella forma, in un mirabile connubio.
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VENEZIA 73: PIUMA
Piuma
di Roan Johnson
con Luigi Fedele, Blu Yoshimi, Michela Cescon, Sergio Pierattini, Brando Placido
Italia 2016
genere, commedia
durata, 98'
Nello stabilire i criteri di giudizio nei confronti dei film prima o poi ci si dovrà chiarire le idee mettendosi d'accordo una volta per tutte sui criteri che stanno alla base dell'analisi critica: e cioè se a contare di più siano le qualità intrinseche di un'opera, quelle che di solito ci fanno uscire dalla sala contenti di avere visto un bel film oppure il fatto che, nonostante questo, a fare la differenza continui ad essere - almeno nei festival - la fortuna di poter contare sulla gravità del tono e magari sulla presenza di riferimenti culturali e cinematografici di riconosciuto spessore. Una differenza non da poco perché, se a prevalere fosse la seconda ipotesi, sarebbero giustificati i commenti negativi ascoltati subito dopo la proiezione di "Piuma" - secondo italiano in concorso alla Mostra -, quasi tutti unanimi nel sottolinearne come difetto le caratteristiche di leggerezza - d'impianto, di tono e di genere (la commedia) - che indubbiamente appartengono alla regia di Roan Johnson. Al contrario chi scrive, propendendo per la prima opzione, ha tirato un sospiro di sollievo quando al termine dei titoli di coda ha potuto constatare che, l'impressione di trovarsi di fronte a un'opera coinvolgente e in grado di far riflettere il pubblico senza l'ausilio dei massimi sistemi, era stata corroborata da due ore di puro divertimento.
Sulla falsa riga di ciò che accadeva in "Juno" di Jason Reitman, con cui il lungometraggio di Roan Johnson condivide molto di più che lo stile delle lettere utilizzate per i titoli di testa e di coda, il tema che sta a monte alla storia di "Piuma" è quello della responsabilità messa in circolo dalla gravidanza inattesa di Cate (Blu Yoshimi Di Martino) che, a pochi giorni dagli esami di maturità e alla vigilia delle meritate vacanze estive, scopre di essere in attesa del figlio di Ferro (Luigi Fedele), il coetaneo con cui è da sempre fidanzata. A esserne consapevoli sono prima di tutto i diretti interessati, inizialmente disposti a farsi carico delle difficoltà derivanti dalla decisione di portare avanti la gestazione, e poi, dopo una serie di disavventure a lieto fine, convinti che la decisione migliore sia quella di dare in adozione il nascituro. Come pure i genitori e in primis quelli di Ferro, Franco e Carla, cui spetta non solo il sostegno materiale, ma anche il compito di fare da cuscinetto ai saliscendi emotivi e agli smacchi esistenziali che scandiranno il tempo dell'attesa. La condivisione - di intenti e di ideali - ovviamente è più facile a parole che nei fatti e nelle mani del regista e dei suoi sceneggiatori diventa la scintilla per un corto circuito che metterà in crisi la vita di coppia delle parti in causa.
L'intelligenza di Johnson è quella di non limitarsi al semplice confronto/scontro generazionale, ma di dimostrare che, indipendentemente dall'età anagrafica, i dubbi e le paure, così come i gesti di maturità, sono intercambiabili e presenti da entrambe le parti. In questo modo il piacere del film deriva non solo dalla simpatia dei personaggi e dall'alchimia con cui gli attori sono capaci di metterli in relazione, ma soprattutto dal fatto di vedere assegnate competenze e comportamenti che di solito spetterebbero alla controparte. E quindi assistiamo a Ferro e Cate che, nel loro agire, si comportano con la maturità dei genitori, all'opposto di questi ultimi che "Piuma" spesso tratteggia con inadeguatezza e rimostranze adolescenziali. Allievo di Paolo Virzì e Francesco Bruni, il film di Johnson potrebbe essere l'"Ovosodo" del nuovo secolo, se non fosse che in questo caso il cinema del regista pisano (vedasi le sequenze oniriche e surreali, in cui Cate e Ferro nuotano per le vie della città) guarda più di una volta ai lavori provenienti dalla cinematografia indipendente americana. Con un pizzico d'amore in più nei confronti di personaggi che dal primo all'ultimo non si può non sentire compagni di quella divertente e drammatica avventura esistenziale che è la nostra vita.
(pubblicata su ondacinema.it/speciale 73 festival del cinema di Venezia)
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Venezia 73
giovedì, ottobre 20, 2016
FESTA DEL CINEMA DI ROMA: 7:19
7:19
di: Juan.Michel.Grau.
con H.Bonilla, D.Bicher, O.Michel, A. Ortiz.
Messico, 2016
durata, 95'
Alle sette, diciannove minuti e quarantatré secondi del 19 Settembre 1985 un terremoto d'intensità 7.3 devasta Città del Messico spezzando - nella finzione - il piano sequenza d'apertura dell'omonimo film ("7:19", appunto) del messicano Grau, centrato su un eterogeneo gruppo di persone miracolosamente uscito quasi intero dal crollo dell'edificio di sette piani in cui ciascuno ricopre la sua mansione. Caso vuole che all'interno di una delle innumerevoli intercapedini parimenti fortuite prodottesi per l'accatastarsi di tonnellate di materiali frantumati, si ritrovino il custode dello stabile, il vecchio Martin/Bonilla - "quarant'anni incollato ad una scrivania di merda e a due settimane dalla pensione", appassionato di boxe alla cui visione si dedica per mezzo di un piccolo televisore portatile, surrogato meccanico di affetti perduti da tempo - e il dott.Pellicer/Bicher - tipo sbrigativo e altezzoso, assiduo frequentatore della società messicana che conta, nonché firmatario delle concessioni che hanno permesso alla solita genìa di sciacalli di lucrare su un numero imprecisato di progetti edilizi risparmiando sui materiali, non ultimo quello nel cuore del quale, adesso, si trova seppellito, per la precisione semi-stritolato dalla vita in giù -
Se l'idea - sebbene non nuova - di concentrare in uno spazio angusto caratteri diversi per mentalità, estrazione culturale, censo e generico atteggiamento verso le persone e la vita, resta uno degli espedienti sempre spendibili in quel Cinema di genere che si sforza di far scaturire tensioni e contrasti (e, in trasparenza, presunte verità ultimative su ciò che brulica al fondo di ogni animo umano) da una situazione imprevista capace di gettare i malcapitati al limite della sopravvivenza (qui, moltiplicata dal sistematico intercalare di voci, volta per volta disperate, perplesse, latrici di una sorta di sardonica rassegnazione - provenienti da chissà quale altra cavità accomodata dal capriccio del cedimento, oltremodo aggravato, questo, dalle ulteriori lesioni apertesi per via della prima, potente scossa d'assestamento - echeggianti nell'antro di Martin e Pellicer, polveroso e tetro come una tomba fatta di calcinacci e porzioni di muro), la somma delle singole parti di tale disastrato puzzle della resistenza a oltranza non si scosta mai dal trito repertorio delle recriminazioni sociali tardive perché, di fondo, intrise di ossequio e di viltà; dei sensi di colpa di comodo perché dimenticabili non appena si ristabiliscono le condizioni di una vantaggiosa normalità: dei rimpianti più o meno ipocriti o interessati, dei lepidi nonsense, quasi la fatalità della Morte - e per fortuna di questo Grau tiene conto - debba alla fine necessariamente imporsi, nel ruolo di equanime e, a modo suo, pietoso viatico all'oblio, su esistenze di certo sfortunate ma non innocenti.
TFK
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mercoledì, ottobre 19, 2016
FESTA DEL CINEMA DI ROMA - THE ROLLING STONES: OLE,' OLE', OLE'
The Rolling Stones: olé, olé, olé
di, Paul Dugdale
genere, documentario
USA, 2016
durata, 105'
"Appena metti qualcosa al bando, attorno a quella cosa si crea un movimento". Le parole, sempre un po' beffarde e distaccate, di K.Richards, possono tornare utili al fine d'inquadrare l'entusiasmo incontenibile (al punto di dare origine, in Argentina, ad una vera e propria tribù metropolitana e ad una forma di sottocultura, entrambe ispirate agli Stones, la cosiddetta Rolinga) con cui il gruppo inglese è stato accolto durante il recente tour in giro per il Sud America - Argentina, appunto e a seguire Uruguay, Brasile, Perù, Colombia, Messico - in una serie di tappe sincronizzate sull'avvicinamento al concerto apoteosi che si sarebbe poi tenuto il 25 marzo 2016 presso il Centro Sportivo di L'Avana, Cuba. Gran parte dei citati paesi latini, infatti, come effetto collaterale dell'essere stati per decenni sotto il giogo di feroci dittature, s'erano visti tra l'altro espropriati della possibilità di avere accesso ad alcune espressioni della cultura di massa, in specie quelle che prevedono l'adunata di nutriti contingenti d'individui in un medesimo spazio, quindi, in primis, della musica rock e delle sue trasgressive stelle. "Il tempo cambia tutto" (M.Jagger dixit), così i termini dell'equazione - peraltro nel frattempo ribadita un po' ovunque a spasso per il pianeta - che lega una delleband più influenti e longeve della storia dell'intrattenimento popolare a raduni oceanici e plaudenti, man mano si riducono ad una semplice giustapposizione di elementi ricorrenti.
Sulla medesima scia, il lavoro di Dugdale lascia presto corda all'aneddotica e alla memorialistica in comune del quartetto disopravvissuti, dalle quali emerge, oltre il divismo e i litigi, i momenti di saturazione e gli eccessi e a mo' di collante invisibile ma davvero a prova di tutto, il solo e autentico privilegio costituito da esistenze a cui ha arriso il dono di condividere esperienze uniche ogni volta rinnovantisi in una sorta d'imponderabile e gratuito stato di grazia in armonia con la cui forma, e nello stesso tempo, la musica ha fornito sostanza e, incessantemente, rammendato le lacerazioni, colmato gli spazi vuoti, dato consistenza e giustificazione ad oltre cinquant'anni di voli in aereo, di chilometri sulle strade, di camere d'albergo talvolta di un lusso persino insensato, di debolezze e rinascite, d'intuizioni e comprensibili apatie, al punto da levitare, sempre e comunque, al centro di ogni scambio di battute, di ogni silenzio, di ogni occhiata fin troppo complice, come ad esempio si può notare quando - nemmeno fosse la cosa più naturale del mondo (o forse sì, a questo punto) - Richards e Jagger, tra una divagazione e l'altra, in piena scioltezza, attaccano per sola chitarra e voce Honky Tonk women e sul serio pare che il resto non conti o non abbia tutta questa importanza.
Del resto, il prodigio armonico e ritmico di una scaletta che, volta per volta, può includere o fare a meno, nella pressoché totale certezza che poco o nulla cambierà in fatto di divertimento, di trasporto emotivo e di distrazione dal grigiore quotidiano, di, per dire, schegge brillanti tipo Brown sugar, Simpathy for the devil, Street fighting man, Paint it black, Jumpin' Jack flash, Wild horses e tante altre, la dice lunga sulla quantità di energia che il rock può mettere in circolo da un lato all'altro del palco, cementando l'affiatamento di un pugno di settantenni, nel primo caso; rinnovando l'ingenua illusione della verosimiglianza di un cambiamento nella forma di un'elevazione laica, nel secondo: esaltando il sogno della mirifica estate-senza-fine, quella della giovinezza, per entrambi. D'altro canto, è pure vero che, in particolare in occasioni come questa ritratte dal segmento di vita catturato da Dugdale, torna a risuonare forte, sul genere di un insistito mugugno tra i colori, le grida, l'euforia, il verso greve di un'angoscia sotterranea, quella della modernità, che per esorcizzare la propria sfavillante inconsistenza si affida anche alla catarsi fragile di miti senili. Si volge cioè all'indietro, tradendo, al di là delle ovvie propagande forzosamente e venalmente ottimistiche, un vero e proprio terrore per il futuro, una generale mancanza di fiducia e il silenzioso abbandonarsi ad una deriva da lei stessa lasciata crescere al proprio interno, per cui non esistono rimedi ma solo lenitivi, come, nel caso, gli eterni Stones. Stante così le cose, non resta che stringere i denti un altro po' e cercare di constatare se pure l'istante in cui il nostro modo di vivere ci sommergerà sarà accompagnato da un trillo di Richards o, colmo della fortuna, da una delle strepitose esitazioni di Watts. Let it bleed.
TFK
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Festa del cinema di Roma
lunedì, ottobre 17, 2016
FESTA DEL CINEMA DI ROMA: MAX STEEL
Max Steel
di, S.Hendler
con: Ben Winshell, Ana Villafañe, Maria Bello, Andy Garcia
USA 2016
durata, 92'
Da molte parti (e da molto tempo) si sostiene che la pervicacia con cui il Cinema americano - sezione fantastico - si mette a caccia di nuovi eroi, sia oramai degna di una causa migliore che non sia solo quella di un'ipotetica, enorme remunerazione. Pietra di paragone (e, volendo, dello scandalo) di questi ultimi anni è stata di certo la Marvel la quale, all'inizio con qualche cautela, poi in proporzioni sempre più ampie ha finito, per così dire, per riversare quasi per intero il proprio universo a fumetti sul grande schermo (a distanza ma con una logica non dissimile seguita dall'altro cosmo, quello targato DC). Impegni sempre più gravosi negl'investimenti, a fronte di ritorni assestatisi su livelli altalenanti tali che, in più di un caso, si è giunti alla stretta di riavviare da zero le gesta di qualche campione in affanno al botteghino, hanno reso più manifesto - al di là dell'ineludibile nodo scorsoio dei costi e dei ricavi - un qual fiato corto della formula originaria, sempre più assisa su moduli, sviluppi e trovate che, paradossalmente, nella loro quasi pedissequa ripetizione, hanno via via intaccato lo smalto di un immaginario tra i più significativi della cultura popolare della seconda metà del secolo scorso.
L'apparizione in un contesto siffatto - tra l'altro, ad oggi e in generale, ancora in cerca di un rilancio convincente - di un prodotto come "Max Steel", personaggio estratto di peso dalla linea di montaggio di una delle multinazionali del giocattolo, la Mattel, come pure al centro di alcune serie animate nel passato recente, offre argomentazioni ulteriori al già copioso fascicolo delle diagnosi a proposito della sindrome dell'eroe, mentre poco aggiunge alla lista degli eventuali farmaci da inserire in una terapia efficace. Le avventure del giovane Max McGrath/Winshell, infatti, liceale riflessivo e solitario, di fatto appartato "ma mai al punto da apparire sfigato", come lo apostrofa la scaltra Sofia/Villafañe, coetanea di cui il nostro implacabilmente s' innamorerà, si snodano percorrendo senza troppi scossoni i binari che tracciano il ben noto percorso al termine del quale un tranquillo ragazzo qualunque, attraverso la collaudata scoperta accidentale del possesso di prodigiosi assi-nella-manica (nel caso, la facoltà, per il tramite di una fisiologia particolare, di produrre e quindi utilizzare fasci di energia tachionica), trasforma la sua esistenza nello strumento di un destino più grande. E se come sovente accade gl'istanti di sconforto e d'incomprensione nei riguardi di un mondo che ad un adolescente è di per sé ostile (qui, nel riflesso di una madre affettuosa ma reticente circa il lascito umano e scientifico di un padre scomparso in circostanze misteriose; una scuola che lo tratta con la rispettosa indifferenza che si riserva a quelli-appena-arrivati-da- fuori, e via così), lo scoraggiamento ma al tempo l'insopprimibile istinto di non lasciarsi sopraffare, vieppiù sostenuto dalla rivelazione di una stupefacente differenza, s'impongono come passaggi significativi perché pregni - indipendentemente dalla loro stessa realizzazione - di una promessa, di una vitalità che la componente supereroistica briga per/dovrebbe accrescere (ingenerando, come che sia, altrettante aspettative), ecco che l'azione vera e propria assai presto s'instrada sullo scartamento ridotto di frequentatissimi itinerari - l'addestramento per mettere al passo anatomia e poteri; il primo corpo a corpo con il Male, stavolta temibili mostri-tornado chiamati Ultralink; la necessità di risalire alle origini della propria alterità come prezzo da pagare all'età matura, et. - sorprese, agnizioni e collasso-da-sovraccarico incluso, a cui fa da simpatico - ed unico - contraltare il piccolo alieno Ak'stel, detto Steel, ciarliero e pasticcione alter-ego di Max, simile, per quanto alla lontana, ad un pesce leone meccanico, rutilante e brioso quel tanto da sopperire in parte alle presenze più o meno esornative di un cast che annovera, tra gli atri, M.Bello nella parte della madre e addirittura A.Garcia in quella del cattivo di turno.
Nulla esclude, in ogni caso, un ampliamento delle vicende del paladino tachionico, se non il piglio severo dei numeri. Tutto si tiene, insomma. Ad Hollywood più che altrove.
TFK
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domenica, ottobre 16, 2016
GO WITH ME
Go with Me
di Daniel Alfredson
con Anthony Hopkins, Ray Liotta, Julia Stiles
USA, Canada, Svezia 2016
genere, drammatico
durata, 90'
Nell’immaginario cinefilo la provincia americana incarna da tempo quel concetto di frontiera che aveva trovato la sua massima possibilità di rappresentazione nel cinema western. Fatte salve le differenze dovute al cambiamento del paesaggio umano e geografico il territorio extraurbano è diventato un luogo dell’anima in cui sogni e incubi vanno a braccetto e in cui la legge e le regole del vivere comune sono soltanto una delle opzioni possibili. Fedele a questi principi lo svedese Daniel Alfredson non si è fatto sfuggire l’opportunità di maneggiare un simile repertorio e per il suo primo film a stelle strisce ha scelto di dirigere un lungometraggio come “Go with Me” che fa della sottile demarcazione tra bene e male e dell’opportunità di scegliere indiscriminatamente tra l’uno o l’altro le fondamenta di una storia criminale che non conosce mezze misure. Questo perché tanto la determinazione con cui il personaggio di Anthony Hopkins decide di aiutare la ragazza minacciata dall’ex sceriffo del paese diventato un pericoloso criminale, quanto la tendenza persecutoria messa in mostra dal crudele stalker (Blackway) rappresentano nella loro mancanza di limiti due facce della stessa medaglia.
Se lo scontro è inevitabile e la morte appare l’unica rimedio in grado di dirimere la vicenda è vero che Alfredson impiega oltre un’ora prima per arrivare al dunque presentandoci una resa dei conti che “Go with Me” procrastina al solo scopo di allungare il brodo con un improbabile on the road in cui la ragazza e i suoi compagni d’avventura (il personaggio di Hopkins e accompagnato da un ragazzo un po' ritardato e segretamente innamorato della protagonista) inseguono senza costrutto, e aggiungiamo noi senza un minimo di plausibilità narrativa, il crudele avversario. Ansioso di calarsi nel grande Paese Alfredson lo racconta dimenticandosi di costruire un filo logico che tenga insieme archetipi e stati d’animo. Vincitori e vinti, violenza e redenzione e soprattutto l’anima nera del sogno americano si riflettono nella desolazione dell’elemento naturale, nei colori lividi e nella luce cupa della fotografia ma non trovano corrispondenza nello sviluppo della trama che per il regista rimane un semplice pretesto.
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sabato, ottobre 15, 2016
LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI: HILL OF FREEDOM
Hill of freedom
di Hong Sang-Soo
con Ryo Kase, So-ri Moon
Corea del Sud, 2014
genere: drammatico
durata: 66'
Il giapponese Mori torna a Seoul per ritrovare Kwon, che non vede da due anni. Nel frattempo vive alcune curiose avventure in città, che racconta in una lettera a Kwon, nella speranza che questa possa leggerla. Aprendo la lettera Kwon fa cadere le pagine, perdendo così il loro ordine: le leggerà in una nuova sequenza, cercando di ricostruire quanto avvenuto a Mori. L'arte quantomai complessa di mutare tutto senza alterare apparentemente nulla appartiene sempre più a Hong Sang-soo, che prosegue incessantemente nella sua opera di cesello di storie minimaliste e divertissement che, tra un espediente registico e l'altro, trovano il tempo di filosofeggiare sull'esistente. "Hill of Freedom" non fa eccezione: anzi, pare quasi un ulteriore passo avanti, nonostante la lunghezza contenuta, nella poetica del regista sudcoreano. In meno di 70 minuti Hong trova il modo di condensare le strategie narrative e le tecniche di ripresa a lui più care: zoom e piani fissi prolungati accompagnano un'ardita scomposizione tra fabula e intreccio, un nuovo esperimento sull'arte dello storytelling. Passato, presente e futuro sono solo proiezioni dell'uomo, come spiega lo spaesato Mori, ignaro di essere egli stesso il fulcro della dimostrazione empirica di questo concetto. Ancora una volta, il dialogo tace quando e parla l'amore: è particolarmente significativo il fatto che Hong scelga l'ellissi nelle scene violente, non mostrando ciò che chiunque sottolineerebbe, in coraggiosa controtendenza con un preponderante e diffuso esibizionismo registico. Hong appartiene a un'altra epoca e a un'altra idea di cinema, senza farne mistero. In fondo, farla nostra è solo una questione soggettiva: di passato, presente e futuro.
Riccardo Supino
di Hong Sang-Soo
con Ryo Kase, So-ri Moon
Corea del Sud, 2014
genere: drammatico
durata: 66'
Il giapponese Mori torna a Seoul per ritrovare Kwon, che non vede da due anni. Nel frattempo vive alcune curiose avventure in città, che racconta in una lettera a Kwon, nella speranza che questa possa leggerla. Aprendo la lettera Kwon fa cadere le pagine, perdendo così il loro ordine: le leggerà in una nuova sequenza, cercando di ricostruire quanto avvenuto a Mori. L'arte quantomai complessa di mutare tutto senza alterare apparentemente nulla appartiene sempre più a Hong Sang-soo, che prosegue incessantemente nella sua opera di cesello di storie minimaliste e divertissement che, tra un espediente registico e l'altro, trovano il tempo di filosofeggiare sull'esistente. "Hill of Freedom" non fa eccezione: anzi, pare quasi un ulteriore passo avanti, nonostante la lunghezza contenuta, nella poetica del regista sudcoreano. In meno di 70 minuti Hong trova il modo di condensare le strategie narrative e le tecniche di ripresa a lui più care: zoom e piani fissi prolungati accompagnano un'ardita scomposizione tra fabula e intreccio, un nuovo esperimento sull'arte dello storytelling. Passato, presente e futuro sono solo proiezioni dell'uomo, come spiega lo spaesato Mori, ignaro di essere egli stesso il fulcro della dimostrazione empirica di questo concetto. Ancora una volta, il dialogo tace quando e parla l'amore: è particolarmente significativo il fatto che Hong scelga l'ellissi nelle scene violente, non mostrando ciò che chiunque sottolineerebbe, in coraggiosa controtendenza con un preponderante e diffuso esibizionismo registico. Hong appartiene a un'altra epoca e a un'altra idea di cinema, senza farne mistero. In fondo, farla nostra è solo una questione soggettiva: di passato, presente e futuro.
Riccardo Supino
IN ANTEPRIMA NAZIONALE
CINETECA DI MILANO
Dal 15 ottobre 2016 Spazio Oberdan Milano
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venerdì, ottobre 14, 2016
FESTA DEL CINEMA DI ROMA: LAYLA M.
Layla M
di, Mijke de Jong
con, Nora El Koussour, Ilias Addab
Germania, 2016
durata, 95'
Ne uccide più la lira che la spada, diceva il poeta. Oggi non lo direbbe più, non foss'altro perché con uno degli imprevedibili avvitamenti che caratterizzano la nostra epoca di transizione, s'è portata a compimento la non semplice impresa di saldare in un tutt'uno poco rassicurante gli estremi dell'appena citato adagio, con conseguenze che fin troppo bene abbiamo imparato a conoscere. A dire: ciò a cui nello specifico abbiamo assistito è stata la progressiva diluizione di una dottrina (nel caso, l'interpretazione più intransigente di quella islamica) in una strategia di tipo militare (la cosiddetta jihad o guerra santa), secondo un vero proprio rapporto di sussidiarietà all'interno del quale ogni elemento sostenta e giustifica l'altro.
Di tale aspra e, al momento, irresolubile contraddizione, saggia il sapore anche la giovane Layla M(ourabit)/El Koussour, ultimo anno di liceo ad Amsterdam, marocchina, seconda generazione d'immigrati, ragazza sveglia e inquieta che, alle difficoltà d'integrazione in un paese diverso per usi e tradizioni, reagisce più d'insofferenza che di raziocinio risalendo, in solitaria e contro il più possibilista atteggiamento familiare, i sentieri delle proprie origini fino alle sorgenti agitate di quel cosiddetto radicalismo che mescola (e non di rado manipola) generici revanscismi anti-occidentali; lasciti controversi della mai del tutto metabolizzata decolonizzazione; sacrosante istanze legate al rispetto del proprio modo d'essere e della propria cultura; ribellismi tardo adolescenziali in cerca di consoni campi d'applicazione o di chiari feticci da abbattere: risposte e strumenti accettabili da un mondo - quello d'adozione ma pure quello di provenienza - che più sembra coinvolgere il singolo, più in realtà spesso si dimostra sordo ai suoi appelli.
Al di là delle retoriche contrapposte - quella occidentale che chiede, quasi come nulla fosse, la rinuncia o il sostanziale ridimensionamento dell'individualità personale come contropartita al moderno patto sociale, ossia, a stringere, l'accesso ai consumi; quella dei sedicenti guerrieri di Dio che postulano, con l'eliminazione fisica di qualunque interlocutore che non si conformi ad una lettura testuale rigida e prescrittiva in molti ambiti della vita del singolo del messaggio di fede, l'avvento di una nuova era sulla Terra - il lavoro di Mijke risulta interessante, quantunque convenzionale nella messinscena, per l'indubbia (e simbolica) centralità affidata alla figura di Layla, donna, giovane, intelligente, caparbia ma libera nel cuore come a volte solo l'altra-metà-del-cielo sa essere, capace cioè di abbandonare le relative certezze acquisite (un tenore di vita decoroso, un agognato futuro da medico) per un amore (Abdullah detto Abdul/Addab, coetaneo già dedito alla causa nei panni di operatore per video propagandistici da diffondere in Rete) e un ideale di purezza ed equità che stenta a riconoscere o vede di continuo oltraggiato in un quotidiano superficiale e indifferente, salvo far prevalere, al momento di toccare con mano la torsione perversa che vuole imporre il sacrificio contro ogni ipotesi di avvicinamento, di composizione dei conflitti, la scommessa di una possibilità futura, sebbene tale scarto non eluda il dolore, insinuando uno sgomento ansioso sul suo viso bello e fiero ["What'll you do when you get lonely (Layla) ?"].
TFK
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Festa del cinema di Roma
giovedì, ottobre 13, 2016
LETTERE DA BERLINO
Lettere da Berlino
di Vincent Perez
con Brendan Gleason, Emma Thompson, Daniel Bruhel
Gran Bretagna, Francia, Germania
genere, drammatico
durata, 103'
Mai come in questi ultimi due anni era accaduto che il cinema si occupasse in modo cosi continuativo di ciò che è stato il nazismo per la storia dell’umanità. Accanto ai lungometraggi dedicati alla tragedia della Shoah che da sempre contano il più alto numero di rappresentazioni esiste un numero di titoli esigui ma significativi raccontati dal punto di vista di chi ai tempi del terzo reich si trovo dalla parte più sicura della barricata, quella della cosiddetta comunità ariana che partecipava alle conquiste hitleriane senza scontarne le aberrazioni più bieche e magari chiudendo un occhio sulla verità più scottanti del suo governo. Ed è proprio dalla volontà di ribellarsi al conformismo dell’epoca che nasce la storia di “Lettere da Berlino”, il film che Vincent Perez ha tratto da romanzo di Hans Falluda (“Ognuno muore solo”) a sua volta ricavato da un dossier della Gestapo in cui si raccontava la vicenda di due coniugi che dopo la morte in guerra del loro unico figlio avevano deciso di denunciare le falsità del governo Nazista nascondendosi dietro l’anonimato delle lettere disseminate dagli stessi nei luoghi più importanti della città.
Perez che in un tempo non lontano è stato un attore di successo sceglie di puntare sulla bravura di due interpreti di livello come Brendan Gleason ed Emma Thompson che nei panni di Otto e Anna Quangel incarnano al meglio la dignità di un dolore che riesce a trovare una parvenza di senso nell’azione di sabotaggio della propaganda filo governativa, cosi come risulta azzeccata quella di Daniel Bruhl nei panni dell’ufficiale dell’ispettore Esherich che da loro la caccia. Caratterizzato dall’esigenza di riconoscibilità che è figlia delle grandi produzioni internazionali e che per questo ragione assegna i ruoli principali a due attori famosi ma tutt’altro che autoctoni, “Lettere da Berlino” supplisce alla mancanza di realismo della messinscena e all’inconsistenza narrativa del filone dedicato alle indagini della polizia grazie alla capacità immedesimati di Gleason e della Thompson. E perché no al lavoro di Perez che si guadagna l’ingaggio con un approccio - e pensiamo al costante inserimento di inquadrature anomale volte a restituire gli stati d’animo dei personaggi e la pericolosità del momento - meno scontato di quello che si potrebbe credere. A chi però uscendo dal cinema, avesse ancora voglia di approfondire il tema con qualcosa di più profondo e coinvolgente consigliamo di dare un’occhiata a “La rosa bianca - Sophie Scholl” di Marc Rothemund dove sulla base di una vicenda più o meno simile lo spettatore assiste a un capolavoro drammaturgico di immane bellezza.
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