mercoledì, ottobre 12, 2016

INDRO - L'UOMO CHE SCRIVEVA SULL'ACQUA

Indro - L'uomo che scriveva sull'acqua
di, Samuele Rossi
Italia, 2016
genere, documentario
durata, 77'



Annotava, tra le molte sue osservazioni inerenti la professione di giornalista, Giorgio Bocca: Il giornalismo di una volta non era né indipendente, né di grande qualità... non era granché neppure in fatto di linguaggio, ma almeno era decente... Ora migliaia di giornalisti assunti per fabbricare telai pubblicitari al posto delle notizie hanno azzerato i progressi fatti negli anni precedenti, quando abbiamo imparato a separare i fatti dalle opinioni, a dare le notizie prima dei commenti, a scrivere breve e chiaro. Neppure allora, s'intende, eravamo arrivati all'essenzialità... ma ora siamo tornati alle notizie che vengono dopo le divagazioni, i gerghi, la cattiva letteratura. Parole nette e un tanto amare, fissate da un provinciale curioso e caparbio che in decenni di carriera ha provato a descrivere gli slanci - invero rari e sovente malvisti - e le invincibili inerzie, il ciclico ritornare su se stessi di opportunismi e rassegnazioni, di un Paese, il nostro, tanto in apparenza risolto sulla superficie variopinta dei suoi vizi ribaditi (a volte, persino rivendicati), dei suoi conformismi al tempo vili e ribaldi, quanto ancora non del tutto decifrabile in alcune sue pieghe in perenne oscillazione tra rancorosa apatia e improvvisi entusiasmi, cinismo ferino e visionarietà anticipatrice, a corroborare una ricorrente ipotesi circa una singolare, inquietante schizofrenia che allignerebbe al fondo di un popolo da sempre in equilibrio precario tra i rigori di una libertà individuale mai davvero appieno esercitata e la quasi irriflessa tentazione di delegare - per diffidenza, per immaturità, per fatalismo - la tessitura dei propri destini ad una soluzione conservatrice, se non autoritaria.

Simile stato d'animo, fatte salve le peculiarità dei singoli, si ritrova in questo "Indro - L'uomo che scriveva sull'acqua -", documento di S.Rossi centrato sulla parabola umana e intellettuale di un altro celeberrimo provinciale (Montanelli Indro da Fucecchio - Fi -, appunto, giornalista e scrittore), la cui torsione vieppiù disilluso-pessimistica del già proverbiale scoraggiamento keatsiano torna subito utile al fine di circoscrivere il tratto dominante del carattere di un personaggio che avrebbe segnato come pochi il panorama culturale dell'Italia della seconda metà del Novecento.


"Se lo metta in testa, amico mio. In Italia nessuno lascia niente a nessuno... Io so di avere scritto sull'acqua", recita la voce di Montanelli, ad introdurre un percorso snodatosi attraverso le vicende - più spesso le vicissitudini - di un Paese illuso e poi distrutto dai tragici abracadabra della tirannide virata al nero; faticosamente ristabilitosi grazie a quel misto di applicazione contadina ed estro mediterraneo, all'indomani di un disastroso conflitto mondiale; affascinato e quindi irretito fino allo stordimento dalle sirene ambigue dell'abbondanza e del benessere; lacerato dagli ultimi sussulti - quelli disperati e criminali - delle ideologie: adagiato, infine, con perplessa acquiescenza, su un piano inclinato, quello della cosiddetta modernità, oltre il quale sembrano far capolino senza tregua - in una sorta d'insistito e sinistro carosello - sordi rancori, angosce per un futuro mai stato così enigmatico, asprezze quotidiane tanto spicciole quanto agitate da un frenetico rinnovarsi. Poggiato sull'agile scansione che alterna, in un fitto andirivieni, rimandi iconografici (spezzoni di cinegiornali d'epoca e materiali televisivi d'archivio), dialettici (testimonianze di coloro - tra gli altri, De Bortoli, Travaglio, Mieli - che hanno condiviso parte del proprio viaggio nella carta stampata col "seducente, spigoloso, narciso eppur ritroso, caparbio e immaginativo" toscano o - nel caso di De Rossi, Merlo, Gerba, Liucci, Lagioia - ne hanno fatto l'oggetto di approfondimenti critici, come pure un riferimento per allargare gli orizzonti possibili di una lettura in filigrana delle contraddizioni di un'intera nazione) e oltremodo integrato dagli apporti recitativi di Herlitzka/Diele nei panni del protagonista intento a rileggere/riflettere sugli eventi mano mani dipanatisi al cospetto di una coscienza ricettiva, critica, periodicamente affranta dal riproporsi di una depressione che la perseguita fin dalla tenera età, bastian contraria e diffidente nei confronti delle patetiche epperò sempre dannose panacee con cui gli uomini s'intestardiscono a peggiorare una condizione già grama, il lavoro di Rossi, convenzionale ma ritmato, oggi come oggi, volendo, addirittura propedeutico all'avvicinamento di una figura d'intellettuale scomodo alle giovanissime generazioni, quanto accorto nel bilanciare analisi, nostalgia e retorica, ripercorre gli snodi fondamentali dell'avventura montanelliana (l'infatuazione giovanile per il Fascismo - 


"I miei stupidi e bellissimi vent'anni, che non intendo rinnegare" - culminata in un brusco disincanto; l'arresto e la successiva condanna a morte da parte dei nazisti nel '44; gli esordi giornalistici e il lungo matrimonio con il Corriere milanese; i reportage storici, dalla guerra di Spagna ai fatti finlandesi, fino alle corrispondenze da Budapest nel '56; l'azzardo della direzione del Giornale, prima - dal '74 - e della Voce, poi - dal '94 e per poco più di un anno -: quindi l'agguato brigatista del '77 e il suo ventennio a fianco e subito dopo contro l'editore/politico Berlusconi), tenendo sempre fermo, nelle oscurità e nelle doppiezze di un vissuto nazionale tutt'altro che pacificato e d'immediata interpretazione, il punto di vista di un uomo consapevole e scettico, di un testardo insofferente agli adagi correnti, devoto ("Il giornalismo è tutta la mia vita") ad un'attività che gli consente (e di cui si avvale con trasporto, anche nelle stanchezze, nelle incoerenze) di fronteggiare i fatti - e in questo il parallelo con Bocca diventa più stringente nel suo essere così poco ortodosso, così poco italiano, teso cioè, per sua stessa essenza, a registrare impietosamente tutte le contorsioni dellaschizofrenia tricolore a cui sopra si faceva cenno - per quanto talvolta, e ovviamente, col sostegno di una trasfigurazione inventiva, sempre nella crudezza e nell'inesorabilità della loro concatenazione, al di là delle convenienze e delle cautele, poiché solo tale disposizione interiore (che, in controluce, svela l'intransigenza di una severa autodisciplina e di una visione morale del mondo) è in grado di stabilire e rafforzare l'unico legame che conta, quello tra narratore e lettore, stante che "ombre siamo e come ombre siamo destinati a passare".
(Allo "Spazio Oberdan" di Milano, dal 20 al 23 Ottobre)
TFK

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